STRATEGIE DI DIVERSIFICAZIONE: OPPORTUNITÀ
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conseguenza prevederne con buona approssimazione i flussi di
cassa futuri e, in ultima analisi, stimarne il valore. Nel caso di
imprese multibusiness operanti in settori caratterizzati da differenti
profili di rischio invece, gli analisti adotteranno un’ottica più
prudenziale (data la difficoltà a reperire informazioni che
consentano di distinguere l’attività in settori più rischiosi da quella
in business più protetti), applicando un costo del capitale più
prossimo a quello delle attività più rischiose penalizzando la
valutazione dell’azienda.
Questo meccanismo, pur non essendo il più importante,
rappresenta un buon motivo per cui i manager preferiscono
solitamente tenersi lontani dalle aziende multibusiness.
Manager ed imprenditori tengono conto, come è naturale, anche di
fattori più strutturali. Essi sanno per esempio di dover persuadere
gli azionisti che la loro società rappresenta la migliore opportunità
di investimento per un investitore con un determinato profilo di
rischio/rendimento atteso. Una azienda multibusiness, invece,
rischia di presentare al mercato un profilo rischio/rendimento
confuso e per di più non ottimale se si considera che si tratta di un
portafoglio azionario predefinito non mirato su uno specifico
investitore. In questo modo l’azienda diversificata finisce col
distruggere valore per l’azionista, impedendogli di selezionare da sé
l’investimento perfettamente rispondente al profilo
rischio/rendimento da lui ricercato.
Se a queste considerazioni si aggiungono valutazioni relative alle
difficoltà gestionali, agli incrementi di costo, alle complessità
organizzative che una strategia di diversificazione comporta, si
capisce bene perché una delle frasi più ricorrenti nelle
presentazioni al mercato finanziario delle strategie di un’impresa,
sia: «la nostra società ha deciso di concentrarsi sul core business».
Prologo
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In realtà se poi ci si guarda in giro, si scoprono aziende come 3M
che basa il suo successo su un’enorme pluralità di business
(addirittura 40) e come General Electric che deriva una quota
notevole dei suoi profitti da una attività abbastanza lontana dal suo
core business come quella svolta da GE Capital. Al di là di questi
casi estremi, gli esempi di gruppi industriali operanti in diversi
business e in grado di conseguire il successo sono numerosi: si
pensi a Sara Lee, che sarà oggetto di trattazione nella seconda
parte di questo lavoro oppure, restando nel nostro Paese, a
Edizione Holding (Gruppo Benetton) e a Pirelli, a Enel e a Eni.
Tutti questi esempi sono accomunati da un elemento fondamentale:
il possesso da parte dell’impresa diversificata di un vantaggio
competitivo radicato nelle competenze specifiche dell’impresa e
dunque difficilmente imitabile e potenzialmente applicabile ad altri
business.
È questa la conditio sine qua non da tener ben presente quando si
decide di diversificare il proprio portafoglio strategico e che, stando
alle evidenze storiche, non sempre è stata rispettata. Un rapido
sguardo alla storia, porta alla luce infatti numerosi esempi di
diversificazione risoltisi in un rovinoso insuccesso: si pensi al caso,
emblematico ed attuale, della diversificazione intrapresa dalla
francese Societè Generale des Eaux (oggi Vivendi) e alle pesanti
critiche cui è sottoposta la strategia adottata a causa della grave
perdita di valore accusata dal Gruppo.
In generale, nella storia industriale è possibile riscontrare un
andamento alterno nell’atteggiamento delle aziende rispetto alla
diversificazione, con periodi caratterizzati da una visione positiva e
favorevole seguiti da periodi in cui le parole d’ordine sono
«rifocalizzazione» e «ritorno al core business». Se si tenta una
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schematizzazione è possibile individuare alcune tendenze ben
precise:
o Fino agli inizi degli anni ‘60 il fenomeno della diversificazione
era marginale con le maggiori aziende focalizzate su un unico
business;
o Dalla seconda metà degli anni ’50 fino ai primi anni ’70 si è
registrata una forte spinta verso la diversificazione che ha
condotto molte aziende a divenire vere e proprie
conglomerate, cioè imprese operanti in settori estremamente
eterogenei;
o Gli anni ’80 sono stati invece segnati dalla corsa opposta,
cioè verso la rifocalizzazione sul core business;
o Negli anni ’90 si è assistito ad una nuova inversione di
tendenza soprattutto in settori come l’energia e, anche a
seguito della dirompente esplosione del fenomeno Internet,
in quello delle telecomunicazioni e dell’editoria ad esempio
con la corsa, molto spesso fallita, alla convergenza tra
produttori di contenuti e possessori delle infrastrutture. Si
pensi ad esempio all’ingresso di Enel e Pirelli nel settore delle
telecomunicazioni rispettivamente con Wind e Telecom-Tim,
all’acquisizione di una partecipazione di controllo in Edison da
parte di Fiat, al lancio del quotidiano on-line “Il Nuovo.it” da
parte di E.Biscom. L’evoluzione sembra però tutt’altro che
conclusa come dimostrano alcuni segnali ben precisi come la
scelta strategica di Enel di cedere la propria quota in Wind,
oppure la decisione di Fiat di concentrarsi sul proprio core
business, o ancora il faticoso tentativo di Vivendi di arginare,
attraverso la cessione di alcune delle innumerevoli attività
acquisite negli anni scorsi, la crisi che l’ha colpita.
Prologo
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Come appare evidente, la storia non ci tramanda un messaggio
univoco ed inequivocabile; allo stesso modo anche le ricerche in
merito ai risultati della diversificazione non pervengono a
conclusioni unitarie che consentano giudizi inconfutabili. L’unica tesi
sulla quale c’è convergenza all’interno del mondo accademico è
quella che identifica una relazione parabolica tra performance
d’impresa e grado di diversificazione (figura 1).
Si tratta di una conclusione tutt’altro che esplicativa, dato che si
limita ad affermare che la diversificazione è virtuosa entro certi
limiti, tramutandosi in elemento penalizzante oltre un certo limite.
Il vero problema sta appunto nell’identificazione di tali limiti, ossia
nel cercare di individuare le condizioni che rendono la
diversificazione un’opportunità per l’impresa e quelle invece che
possono trasformarla in un fattore di indebolimento.
Fig. 1: relazione fra diversificazione e profittabilità in 304 imprese manifatturiere
britanniche, 1972-1984
Fonte: Grant, Jammine e Thomas (1988)
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Obiettivo di questo lavoro è quello di identificare, alla luce delle
teorie più accreditate e attraverso l’analisi di alcuni casi aziendali,
quali siano le ragioni che conducono le aziende ad ampliare il
proprio raggio d’azione, trasformandosi così in imprese
multibusiness e di enucleare le condizioni essenziali per il successo
di una simile strategia.
Il lavoro è strutturato in un capitolo introduttivo, finalizzato a
delineare il quadro teorico di riferimento, tre capitoli incentrati su
casi aziendali e un capitolo conclusivo.
I tre capitoli centrali, in particolare, si riferiscono ad esperienze di
realtà economiche piuttosto eterogenee; l’obiettivo è stato quello di
cogliere, per quanto possibile, fattispecie ed aspetti differenti
riferibili al tema della diversificazione. Saranno dunque oggetto di
trattazione una realtà tipicamente italiana, a carattere locale, come
quella di un distretto industriale alle prese con la globalizzazione,
una società finanziaria che fonda il proprio successo sulla gestione
di un portafoglio strategico diversificato (Edizione Holding) e una
realtà internazionale come quella di una grande impresa
multibusiness (Sara Lee).
PARTE PRIMA: IL QUADRO
TEORICO DI RIFERIMENTO
CAPITOLO 1
L’ESPANSIONE DIVERSIFICATA
La strategia competitiva, ovvero la strategia che definisce le
modalità con cui un’impresa compete all’interno di una specifica
arena competitiva, prima o poi, a causa di cambiamenti nelle
preferenze dei consumatori, o per l’aggressività dei concorrenti, o
più semplicemente per l’esaurirsi del normale ciclo di vita di un
settore, non è più in grado di assicurare la crescita.
In questo contesto l’impresa, per garantire la propria continuità, è
indotta a ricercare nuovi spazi operativi all’esterno, avviando
strategie di diversificazione del proprio raggio d’azione, cioè di
ampliamento a livello geografico, oppure in un’ottica di crescita
orizzontale (sviluppo di nuove combinazioni prodotto/mercato
all’interno dello stesso settore o in settori differenti) o ancora
verticale (sviluppo a monte o a valle lungo la filiera produttiva).
Un’impresa che decide di intraprendere un percorso di sviluppo di
questo tipo necessita di un disegno strategico che, pur
configurandosi come processo in continuo divenire, stabilisca in
maniera chiara come si intende creare valore aggiuntivo; l’impresa
ha bisogno cioè di una strategia corporate che definisca modalità di
configurazione e coordinamento delle attività multibusiness.
In particolare, secondo Goold, Campbell e Alexander 1 i percorsi
alternativi attraverso cui è possibile creare valore a livello
corporate sono quattro:
1
M. Goold, A. Campbell, M. Alexander, Corporate-Level Strategy: Creating Value in the Multibusiness
Company, John Wiley & Sons, 1994, p. 75 e segg.
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Stand-alone influence: rappresenta la correttezza della
gestione in termini di allocazione delle risorse tra le diverse
ASA;
Linkage influence: consiste nella capacità di promuovere e
sfruttare le interrelazioni tra le diverse ASA;
Central functions and services: deriva dalla gestione
efficace ed efficiente egli organi di staff così da fornire alle
ASA un supporto a costi inferiori o di qualità superiore
rispetto all’acquisizione all’esterno di tali servizi;
Corporate development activities: si fonda sulla capacità
di sviluppare internamente nuove attività in grado di
valorizzare le competenze distintive dell’azienda.
A questi Invernizzi aggiunge una quinta via rappresentata dalla
capacità di mantenere un’interazione di qualità con gli interlocutori
sociali2.
Il presente capitolo sarà dedicato all’analisi della strategia di
espansione diversificata, ossia di quella strategia che conduce le
aziende ad operare in più aree strategiche d’affari (ASA o SBU,
strategic business unit) distinte tra loro.
In particolare, dopo aver descritto le prospettive più importanti
attraverso cui analizzare il tema della diversificazione, si
esamineranno le ragioni che inducono un’azienda ad avviare questo
processo e si affronterà il tema, ampiamente dibattuto, della
contrapposizione tra diversificazione correlata e non correlata; in
seguito verranno identificati i criteri che guidano le scelte
riguardanti le aree d’affari in cui diversificare e le condizioni
imprescindibili per il successo di una strategia di questo tipo. In
2
G. Invernizzi, Il sistema delle strategie a livello aziendale, McGraw-Hill, 1999, p. 28
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17
conclusione verranno approfondite le modalità alternative di
diversificazione disponibili all’azienda (crescita interna, fusioni e
acquisizioni, alleanze).
1. La diversificazione: prospettive di analisi
Il concetto di diversificazione può essere declinato ed interpretato
attraverso tre prospettive di analisi principali3:
o il grado di concentrazione del portafoglio strategico;
o il grado di correlazione tra i business;
o il grado di strutturazione organizzativa.
Ognuno di questi elementi rappresenta un punto di riferimento utile
nei processi di formulazione della strategia di diversificazione, per
cui verrà trattato singolarmente nei paragrafi seguenti.
1.1. Il grado di concentrazione del portafoglio
La concentrazione del portafoglio strategico dipende dal numero di
business in cui l’impresa opera ma anche dal peso relativo di ogni
singolo business rispetto all’impresa nel suo complesso.
Un’impresa risulta dunque tanto più diversificata quanto:
o maggiore è il numero di business in cui opera;
o minore è il peso relativo dei singoli business all’interno del
portafoglio strategico (in termini di risorse impiegate,
fatturato, utile, ecc.).
3
G. Donna, L’impresa multibusiness, Università Bocconi Editore, 2003, p. 8 e segg.
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In sintesi, agli estremi opposti abbiamo l’impresa monobusiness da
un lato e l’impresa operante in numerosi business, nessuno dei
quali è preponderante rispetto agli altri, dall’altro. Come è naturale
però, nella realtà prevalgono le situazioni intermedie: ad esempio
Fiat rappresenta una tipica impresa diversificata all’interno della
quale però il settore auto ha da sempre una forte preponderanza,
generando un fatturato pari al 40-50% sul totale del Gruppo.
Il grado di concentrazione del portafoglio strategico ha un’influenza
considerevole nella formulazione delle strategie da parte del
management. In presenza di business predominanti (i cosiddetti
core business), le strategie dell’impresa dipendono in larga misura
dal contesto competitivo di queste ASA. Così, ad esempio, in
presenza di interessanti opportunità di sviluppo nell’ambito del core
business, l’impresa può essere spinta a concentrarvi le proprie
attenzioni in termini di risorse impiegate, rischiando di trascurare
eccessivamente le altre ASA; o ancora, alla luce della priorità
assegnata al business principale, l’impresa potrebbe perdere
importanti occasioni di diversificazione.
Al contrario, in caso di difficoltà del business principale il
management può essere indotto:
o a ridurre il grado di diversificazione del portafoglio così da far
convergere tutti gli sforzi sul rilancio del business principale,
sacrificando però, solitamente, ASA profittevoli. È il caso della
Fiat e delle ultime cessioni di importanti SBU (Toro
Assicurazioni e FiatAvio) realizzate nel corso del 2003 per far
cassa e per supportare la ripresa del settore auto;
o a trascurare il core business, sottraendogli risorse proprio nel
momento di maggior bisogno rincorrendo una diversificazione
affrettata che potrebbe successivamente rivelarsi generatrice
L’espansione diversificata
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di problemi invece che di valore. È stato questo il caso della
Coin che nel corso degli anni ’80, a seguito di una crisi nel
settore della distribuzione, estese il proprio portafoglio
strategico ad attività estremamente eterogenee (dai servizi
finanziari, agli ipermercati, alla produzione di maglieria)
pagandone poi le conseguenze con una grave crisi
economico-finanziaria. Solo nella prima metà degli anni ’90 il
Gruppo riuscì a riconquistare competitività grazie alla
rifocalizzazione sul proprio core business della grande
distribuzione, incentrata su due ASA: Oviesse (grande
distribuzione non alimentare) e Coin (grande distribuzione di
abbigliamento).
1.2. Il grado di correlazione tra i business
In generale la diversificazione può realizzarsi secondo un ventaglio
di opportunità molto ampio dal punto di vista del grado di
correlazione tra le ASA. A un estremo si collocano le imprese
diversificate le cui ASA si caratterizzano per un elevato grado di
affinità dal punto di vista dei processi e delle competenze.
All’estremo opposto invece, si pongono le imprese che rientrano
nella definizione di conglomerata, cioè imprese costituite da ASA
fortemente indipendenti tra loro.
Occorre evidenziare che la segmentazione strategica, ossia
l’individuazione delle aree strategiche d’affari, è un processo
interno all’impresa e non un processo da condurre secondo logiche
predefinite ed universali.
L’unico principio generale a cui ci si rifà nell’identificazione delle
differenti ASA è che esse si distinguono per peculiarità così
STRATEGIE DI DIVERSIFICAZIONE: OPPORTUNITÀ
E MINACCE PER LA CREAZIONE DI VALORE
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significative da richiedere di essere trattate come un business a sé,
meritando strategie ad hoc. I criteri che possono essere adottati
sono invece molteplici4; i più importanti sono:
o tipologia di prodotto/diversità dei processi produttivi:
ad esempio la suddivisione tra ramo danni e ramo vita tipica
delle compagnie assicurative;
o funzione d’uso del prodotto: si pensi al portafoglio
strategico di Fiat e alla netta distinzione tra Fiat Auto e
Ferrari; pur trattandosi di due aziende produttrici di
automobili, nel caso di Fiat il bisogno soddisfatto è quello di
mobilità personale, nel caso di Ferrari è completamente
diverso ed afferisce la sfera psicologica/emozionale (bisogno
di prestigio, lusso, status, passione);
o tipologia di clienti: ad esempio la segmentazione tra
clientela “famiglie” e clientela “business” tipica di molte
aziende di servizi (banche, compagnie telefoniche ed utilities
in genere);
o area geografica: segmentazione tipica delle aziende
multinazionali che si trovano ad affrontare mercati con
caratteristiche talmente differenti da rendere improponibile
una gestione unitaria dei medesimi prodotti;
o canale distributivo: si tratta di una suddivisione che trova
applicazione ad esempio nel settore dell’abbigliamento e
dell’alimentare i cui operatori devono affrontare logiche
sostanzialmente differenti nella vendita all’ingrosso rispetto al
dettaglio o ai grandi magazzini o ancora all’e-commerce.
4
G. Airoldi, G. Brunetti, V. Coda, Economia Aziendale, Il Mulino, 1994, pp. 361-362
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Anche in riferimento a questa seconda prospettiva di analisi, è
evidente l’influenza sulle scelte e le modalità di gestione
dell’impresa: un elevato grado di correlazione tra le ASA permette,
almeno potenzialmente, di conseguire maggiori sinergie; al
contrario quanto più il portafoglio strategico risulta eterogeneo,
tanto più l’impresa rischia di trasformarsi in una sovrastruttura
inutile per ASA che potrebbero stare sul mercato come entità
indipendenti.
1.3. La strutturazione organizzativa
La scelta di trattare un certo business come ASA autonoma dipende
dalla necessità di affrontare un certo contesto competitivo con una
strategia di business specifica ma implica al tempo stesso
l’esigenza di creare una struttura distinta dotandola di proprie
risorse. La questione organizzativa posta da questa scelta può
essere affrontata adottando livelli di autonomia abbastanza
differenziati:
o si può adottare una divisione parziale delle attività con
alcuni dei processi diretti che sono affidati singolarmente
alle ASA mentre le altre attività dirette e quelle di
supporto restano in capo all’impresa. È quanto avviene ad
esempio in Barilla dove le due ASA principali (pasta e
prodotti da forno) hanno funzioni di marketing dedicate
mentre tutti gli altri processi (approvvigionamenti,
produzione, logistica, distribuzione) sono accentrati;
o la separazione può essere invece più accentuata affidando
alle ASA tutte le attività dirette (progettazione,
approvvigionamenti, produzione, logistica, marketing) e
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E MINACCE PER LA CREAZIONE DI VALORE
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mantenendo accentrate le sole attività di supporto
(amministrazione, gestione del personale, sistemi
informativi, servizi generali). È questa la struttura detta
multidivisionale pura ed è tipica, ad esempio, delle grandi
aziende farmaceutiche e chimiche;
o la suddivisione può infine essere completa comprendendo
anche le attività indirette; solitamente in questi casi l’ASA
assume anche personalità giuridica, costituendosi in
società distinta. L’impresa nel suo complesso assume la
forma di gruppo multisocietario.
Anche le scelte in materia di organizzazione societaria influenzano
gli effetti della diversificazione, imponendo all’azienda una delicata
decisione di bilanciamento tra autonomia e accentramento. Infatti,
se da un lato l’autonomia favorisce la gestione dell’ASA come
un’impresa nell’impresa con i conseguenti vantaggi in termini di
assenza di burocrazia, di rapidità decisionale, di mancanza di
compromessi derivanti dalla necessità di condividere risorse e/o
attività, dall’altro essa può risultare costosa a causa di duplicazioni
di strutture, mancato sfruttamento di sinergie e assenza di
collaborazione tra le ASA.
In sintesi, è possibile enunciare due principi generali che le aziende
dovrebbero avere ben chiari e rispettare quando si avviano lungo il
percorso della diversificazione:
1. la diversificazione implica scelte ben precise in relazione a
tre aspetti fondamentali: l’ampiezza (da monobusiness a
multibusiness), il grado di correlazione (da correlata a non
correlata) e l’organizzazione (da accentrata ad autonoma).