5
alla natura dogmatica di queste “esenzioni da pena”, ma ha voluto lasciare libera la
ricostruzione dottrinale di questi fenomeni: e questo è chiaramente affermato negli stessi Lavori
Preparatori del Codice
4
.
D’altronde la stessa parte generale del Codice fa uso dell’espressione in questione per indicare
fattispecie radicalmente e pacificamente differenti tra loro, dal caso fortuito (art. 45) alla
legittima difesa (art. 52), dal reato putativo (art. 49) allo stato di necessità (art. 54).
Di conseguenza la dottrina, sia con riferimento alle ipotesi di parte generale sia per quelle di
parte speciale, si è liberamente domandata la ratio della non punibilità di volta in volta prevista,
e in particolare ha cercato di inserire ciascuna delle ipotesi in esame in una categoria dogmatica
di riferimento (cause di giustificazione, scusanti, …). Di questo centrale tema parleremo
diffusamente nel Capitolo II.
Rimanendo invece ancora attaccati ad un’analisi più diretta delle singole cause di non punibilità,
possiamo affermare che l’eterogeneità dell’elemento da cui deriva la non punibilità, nonché
delle caratteristiche strutturali e contenutistiche delle varie fattispecie, ha portato la dottrina,
com’è ovvio, alla elaborazione di tentativi di classificazione, basati su questo o quel criterio; ad
esempio, si parla di cause di non punibilità obbligatorie o facoltative, a seconda che il giudice
abbia l’obbligo o solo la facoltà di mandare esente da pena l’autore del fatto una volta accertata
l’esistenza di tutti gli elementi della fattispecie esimente.
Fra tutte queste possibili classificazioni, a noi interessa la distinzione tra cause di non punibilità
originarie e sopravvenute.
4
Cfr. Relazione al Re, n. 31: “…il termine “non punibile” ha nel Codice un significato generico e non ristretto alle
cause che esimono da pena. Esso comprende ogni ipotesi per cui il fatto non può essere punito, all’infuori dei casi di
non imputabilità. Il Codice lo usa costantemente in tal senso…e lo ha preferito alle espressioni specifiche per non
pregiudicare di fronte alla varietà dei casi l’interpretazione giurisprudenziale e l’elaborazione dottrinale”.
6
2. Le cause sopravvenute di non punibilità
La distinzione tra cause di non punibilità originarie e sopravvenute ha avuto fortuna ed è dunque
utilizzata molto spesso in dottrina e ciò in virtù sia del fatto che i due gruppi di fattispecie così
separati presentano oggettivamente notevoli differenze strutturali e funzionali, sia in virtù della
facilità di applicazione del criterio distintivo, e cioè il rapporto cronologico fra il momento in
cui viene integrata la fattispecie di non punibilità e il momento di consumazione del reato cui
essa si riferisce o (per usare un’espressione più “neutra”) il momento in cui viene realizzato il
fatto tipico.
La “sopravvenienza” riguarda dunque il verificarsi dell’elemento da cui discende la non
punibilità, in relazione all’ultimazione della condotta prevista dalla corrispondente norma
incriminatrice.
Per fare due esempi di ipotesi certamente riconducibili alle due categorie, causa di non
punibilità originaria è quella prevista dall’art. 649, in quanto il rapporto di parentela fra autore
del fatto e vittima già sussiste, evidentemente, al momento in cui è realizzata la condotta; causa
sopravvenuta è invece sicuramente la ritrattazione della falsa testimonianza (art. 376) in quanto
è palese che essa abbia luogo dopo che già è stata resa la falsa testimonianza stessa.
Approfondendo un po’ il discorso, è stato rilevato
5
che l’elemento sopravvenuto che determina
la non punibilità può essere rappresentato: a) da una condotta dello stesso soggetto autore del
fatto (es. artt. 308, 309…) ; b) da una manifestazione di volontà del soggetto passivo (nel nostro
codice l’unica ipotesi è quella dell’art. 596 n. 3); c) dall’esercizio di un potere discrezionale del
giudice (anche qui il codice prevede una sola ipotesi, all’art. 599 c. 1°). Tuttavia, quando in
dottrina si fa uso dell’espressione cause sopravvenute di non punibilità si fa riferimento,
generalmente, solo alle fattispecie sub a) e non agli altri due tipi.
Il motivo di ciò sta non tanto nel fatto che tali ipotesi siano più numerose e più omogenee,
quanto nel dato, assai più pregnante, che nelle ipotesi sub b) e c) la “sopravvenienza” è solo
apparente. Infatti, nelle due norme in questione ciò che “viene dopo” la commissione del fatto è
soltanto un accadimento di natura processuale (la richiesta del querelante nell’art. 596 n. 3, la
decisione del giudice nell’art. 599) che permette di “liberare” l’efficacia esimente di un
elemento che era già esistente al momento del fatto, e cioè la verità del fatto attribuito nell’art.
596 n. 3 e la reciprocità delle ingiurie nell’art. 599. Se dunque la sopravvenienza va valutata con
riferimento all’elemento che determina la non punibilità, appare senz’altro più corretto
5
Cfr. in particolare ZICCONE, Le cause “sopravvenute” di non punibilità, Milano, 1975, p. 9.
7
qualificare queste due ipotesi come cause di non punibilità originarie, con l’unica particolarità
che la loro efficacia è mediata dal verificarsi di una particolare condizione processuale.
Dunque, le uniche ipotesi correttamente definibili come cause di non punibilità sopravvenuta
sono quelle sub a): è dunque solo ad esse che d’ora in poi ci riferiremo quando useremo tale
espressione.
8
3. Delimitazione delle ipotesi oggetto d’esame
Abbiamo dunque definito nel precedente paragrafo il significato da attribuire all’espressione
cause sopravvenute di non punibilità
6
: si tratta di quelle ipotesi in cui un soggetto che ha
realizzato un fatto previsto dalla legge come reato non è punibile in virtù di un accadimento
successivo alla commissione del reato stesso. Occorre ora invece indicare con esattezza quali
siano le ipotesi riconducibili a tale concetto che sono concretamente vigenti nel nostro
ordinamento.
Nessun dubbio può darsi in ordine alle fattispecie di cui agli artt. 308, 309, 376, 387, 463 e 655
del nostro codice penale; il loro contenuto sarà analizzato nel Capitolo I.
Il codice prevedeva in origine anche altre due norme riconducibili alla categoria in esame: una è
quella contenuta nel 2° comma dell’art. 398; ma tale articolo è stato abrogato dalla l. 205 del
1999 insieme a tutte le altre norme codicistiche in materia di duello. L’altra ipotesi è quella
della ritrattazione del falso giuramento prestato in una causa civile (art. 371, c. 2°), ma anche
tale norma non è più in vigore, come confermato anche da alcune sentenze
7
, in quanto
intimamente legata alla previgente normativa processual-civilistica sul giuramento, ormai
sostituita con l’emanazione dei nuovi codici nel 1940-42: il 371 c. 2° va dunque considerato
“implicitamente abrogato”.
La necessità di sviluppare questo lavoro entro dimensioni contenute mi ha spinto a non
occuparmi analiticamente di queste due fattispecie non più in vigore: ad esse saranno dedicati
solo pochi cenni quando ciò si renda opportuno per “illuminare” aspetti poco chiari del nostro
“campo di lavoro”.
Rimanendo sempre all’interno del nostro codice penale, appare invece opportuno prendere in
considerazione anche una fattispecie contenuta nella parte generale: si tratta della c.d. desistenza
volontaria dal delitto tentato, di cui all’art. 56, c. 3. ; in effetti tale ipotesi, pur essendo una causa
di non punibilità generale e non speciale, è tradizionalmente considerata da buona parte della
dottrina come una causa sopravvenuta di non punibilità, in quanto le sue caratteristiche
strutturali, come vedremo, sono assolutamente analoghe a quelle delle ipotesi di parte speciale
suelencate.
6
In dottrina c’è chi (in particolare PROSDOCIMI, Profili penali del postfatto, Milano, 1982, p. 291) ha ritenuto
esistente una differenza tra le espressioni “cause di non punibilità sopravvenuta” e “cause sopravvenute di non
punibilità”. Data la scarsa rilevanza di tale distinzione e l’uso indifferente delle due locuzioni da parte della dottrina
maggioritaria, ho preferito anch’io una maggiore libertà : di conseguenza, nel testo, potranno essere utilizzate entrambe
le definizioni, sempre nel significato precisato in questo paragrafo.
7
Ad es., Cass. 29 gennaio 1992, Mascitti, in Cass. pen. 1993, n. 995, p. 1711.
9
Il più vasto ambito d’applicazione dell’art. 56, 3°c. (tutti i delitti per cui è possibile il tentativo)
rispetto alle norme di parte speciale (solo alcuni specifici reati), lungi dal costituire un valido
motivo per escludere tale fattispecie da questa trattazione, appare invece come un motivo
d’interesse in più.
Com’è noto, esistono numerose cause sopravvenute di non punibilità contenute in leggi speciali;
si pensi, ad es., alla l. 304\82 sui reati terroristici o alla l. 47\85 sul c.d. condono edilizio. Ho
ritenuto opportuno non occuparmi sistematicamente di queste ipotesi sia per le già citate
esigenze di concisione sia per il fatto, ben più importante, che esistono differenze strutturali e
funzionali notevoli tra queste fattispecie e quelle codicistiche; tali differenze saranno analizzate
nel par. 9 del Cap. I.
Riassumendo, dunque, oggetto del lavoro sono le sole cause di non punibilità sopravvenute
attualmente vigenti e contenute nel codice penale. Ciò non significa però, ripetiamo, che alle
fattispecie escluse non si possa fare un breve accenno quando ne sorga la necessità.
Appare viceversa opportuno occuparsi di una serie di ipotesi che, a rigore, certamente non
rientrano nell’ambito di lavoro che abbiamo appena definito: si tratta delle c.d. cause estintive
speciali, cioè quelle disposizioni le quali prevedono che un determinato accadimento posteriore
al reato estingua il medesimo.
Nonostante l’indubbia affinità sostanziale con le “nostre” fattispecie, infatti, è noto che
l’espressione estinzione del reato (o della pena) è usata dal legislatore con un significato tecnico
preciso, poiché a tale fenomeno è dedicato un apposito titolo del libro I del Codice (artt. 150-
184). Di conseguenza non sarebbe, a rigore, ammissibile assimilare tali ipotesi a quelle in cui si
parla non di estinzione ma di non punibilità.
Il motivo per cui intendiamo fare questo “strappo alla regola”, esaminando anche le disposizioni
suddette, sta non tanto nelle affinità sostanziali cui prima accennavamo quanto nel fatto che,
come vedremo poi ampiamente nel Capitolo II, una parte della dottrina ritiene che le cause
sopravvenute di non punibilità siano giuridicamente definibili proprio come cause estintive;
accogliendo questa teoria, dunque, tali ipotesi finirebbero per essere assolutamente analoghe
alle cause estintive speciali, dalle quali sarebbero state “separate” dal legislatore solo per una
“svista”, o una scorretta scelta lessicale. Si impone, dunque, al fine di vagliare l’attendibilità di
questa ricostruzione, un’analisi anche delle cause estintive speciali, per valutare se, quindi,
vadano considerate come “gemelle” o semplici “cugine” delle cause sopravvenute di non
punibilità.
10
Le cause estintive speciali attualmente in vigore previste dal nostro codice sono, per la verità,
soltanto due: art. 556 (bigamia) e 641 (insolvenza fraudolenta). Anche qui il Codice prevedeva
anche altre fattispecie che però non sono più in vigore: si tratta degli artt. 544 (c.d. matrimonio
riparatore per i delitti contro la libertà sessuale, abrogato dalla l. 442 del 1981) e 563 (dichiarato
illegittimo dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 147 del 1969 insieme alle norme che
prevedevano i reati di adulterio e concubinato, cui esso si riferiva). Anche con riferimento a
queste ipotesi vale il discorso fatto in precedenza: per motivi di spazio non ce ne occuperemo,
salvo brevi cenni se necessario.
11
4. Schema del lavoro
Una volta definite le ipotesi normative che saranno oggetto di attenzione, resta da chiarire che
tipo di analisi intendo svolgere: cioè su cosa vogliamo interrogarci e come impostare il lavoro.
Due sono i temi problematici notoriamente legati alle cause di non punibilità sopravvenute: si
tratta della loro qualificazione dogmatica e della loro disciplina. Tali questioni, come emergerà
dalla trattazione e come è anche intuibile sono intimamente legate fra loro; ad esse sono dedicati
i Capitoli II e III.
Mi è sembrato tuttavia opportuno far precedere i due temi “centrali” in questione da un altro
Capitolo, nel quale trattare una serie di aspetti che ritengo essenziali per una corretta
impostazione del fenomeno in esame; in tale Capitolo verrà compiuta un’analisi delle singole
fattispecie rilevanti, si cercheranno gli eventuali elementi strutturali comuni e si tenterà di
rispondere al quesito circa la ratio della non punibilità. E’ infatti evidente non solo che non si
possa affrontare la questione della qualificazione dogmatica di un istituto o della disciplina ad
esso applicabile senza conoscerne a fondo la struttura e la funzione; ma, come risulterà (spero)
chiaro dal prosieguo della trattazione, è altresì evidente come la scelta dell’una o dell’altra
“etichetta” giuridica da attaccare alle ipotesi in esame sia spesso legata all’accentuazione
dell’importanza di questo o quell’elemento della fattispecie o dalla presa di posizione sulla ratio
della non punibilità. Anzi, probabilmente alcune ricostruzioni dottrinali vanno rifiutate proprio
perché basate su una erronea o frettolosa comprensione degli istituti.
In questo Capitolo I che abbiamo così delineato accennerò brevemente ad altre due questioni: la
prima riguarda gli eventuali profili di incostituzionalità delle cause di non punibilità
(sopravvenute e non ); la seconda è invece uno sguardo sulla non punibilità sopravvenuta come
istituto al di fuori del codice penale e, addirittura, come istituto generale (de iure condendo).
Quest’ultimo tema, in particolare, consente di capire come la ricostruzione del fenomeno della
non punibilità sopravvenuta non serva solo per rapportarsi alle poche (e in parte di significato
marginale) ipotesi codicistiche, ma anzi permette di fare i conti con un meccanismo giuridico
che (probabilmente) sarà utilizzato via via in modo sempre più frequente dal legislatore.
12
CAPITOLO I
STRUTTURA E RATIO DELLE CAUSE SOPRAVVENUTE DI NON PUNIBILITA’
1. Analisi delle singole ipotesi.
Come preannunciato, appare opportuno cominciare questo lavoro con un’analisi delle singole
fattispecie che abbiamo selezionato: avremo così la base sulla quale poi proseguire
evidenziando affinità e divergenze tra le varie ipotesi. E’ da premettere soltanto che ciascuna di
queste disposizioni solleva numerosi problemi d’ordine interpretativo: io mi occuperò soltanto
di quelli che sono rilevanti per la comprensione degli aspetti che ci interessano, e cioè ratio,
natura dogmatica e disciplina applicabile
8
.
1.1. Art. 308: casi di non punibilità per il delitto di cospirazione politica
L’art. 308 prevede la non punibilità per i reati contemplati dagli art. 304 (cospirazione politica
mediante accordo), 305 (cospirazione politica mediante associazione) e 307 (assistenza ai
partecipi di cospirazione o di banda armata, anche se per questa seconda ipotesi è da ritenere
applicabile, come vedremo, l’art. 309) per i soggetti che, dopo la consumazione del reato,
tengano alcune particolari condotte. Come è stato rilevato
9
, non tutte le condotte previste da
detto articolo sono riferibili a tutti e tre i reati: in particolare, il riferimento al recesso
dall’associazione criminosa non riguarda, evidentemente, il reato di cui all’art. 307, il quale
presuppone proprio l’estraneità dell’agente rispetto all’associazione stessa.
L’articolo è strutturato in questo modo: le condotte rilevanti sono tre, e per l’efficacia delle
prime due è necessario il rispetto di due limiti temporali, o condizioni. La non punibilità è
prevista per chi:
1) discioglie o, comunque, determina lo scioglimento dell’associazione;
2) non essendo promotore o capo, recede dall’accordo o dall’associazione;
3) impedisce comunque che sia compiuto il delitto per cui è stato stipulato l’accordo o
costituita l’associazione (il c.d. delitto-scopo).
8
L’analisi che segue è stata effettuata con riferimento costante a due dei più noti commentari del Codice Penale: il
CRESPI-STELLA-ZUCCALA’, edito dalla CEDAM, Padova, nel 2003, ed il Codice Penale Ipertestuale, a cura di
RONCO-ARDIZZONE, UTET, Torino, 2003. Si rimanda a tali testi per riferimenti bibliografici e giurisprudenziali più
precisi, salvi quelli che indicheremo espressamente nel testo e nelle note.
9
Cfr. BRICOLA, voce Cospirazione politica mediante accordo o associazione, in Enc. del Dir. , vol. XI, 1962, p. 128.
13
Si tratta, con tutta evidenza, di condotte capaci di realizzare risultati assai importanti nell’ottica
repressiva del legislatore: nel primo e nel terzo caso si ha la pressoché completa
neutralizzazione dell’organizzazione criminosa; nel secondo, il suo indebolimento a seguito
della defezione del partecipante.
Qualche precisazione interpretativa:
- lo scioglimento è inteso come completa distruzione del vincolo associativo, in modo che
l’organizzazione non permanga, neanche in forma ridotta;
- esso deve avvenire come conseguenza dell’attività dell’agente, anche se costui può avvalersi
del contributo di altri: ad esempio, è pacifica l’ammissibilità del ricorso alla delazione con
conseguente intervento dell’Autorità;
- nonostante la dottrina abbia segnalato l’irragionevolezza di tale esclusione
10
, non è efficace
il recesso dei promotori e capi;
- l’uso del termine “comunque” con riferimento all’impedimento del delitto-scopo, è inteso
nel senso che tale impedimento può avvenire con qualunque mezzo, anche illecito:
eventualmente l’agente risponderà poi di tale illecito (se del caso, anche in sede penale).
Come già accennavamo, le prime due condotte in esame (cioè lo scioglimento e il recesso) sono
efficaci solo se si verificano :
a) prima che sia commesso il delitto-scopo;
b) prima dell’arresto o del procedimento.
Al riguardo è necessario precisare che:
- la mancata commissione del delitto-scopo va intesa in senso oggettivo, come si evince
dall’uso dell’espressione impersonale “sia commesso”; di conseguenza, un soggetto che
abbia tenuto un comportamento avente tutti i requisiti previsti dalla legge vedrà comunque
svanire l’impunità se il delitto-scopo viene commesso da altri;
- controverso è il significato da attribuire al termine “procedimento”, il cui inizio segna il
limite al di là del quale non è più possibile alcuna condotta riparatrice: c’è chi fa riferimento
all’inizio dell’attività svolta dalla polizia giudiziaria e chi invece all’iscrizione del nome
dell’indagato nel registro di cui all’art. 335 del c.p.p.
Come abbiamo già detto, i due limiti in questione non operano nei confronti dell’impedimento
del delitto-scopo, che nell’articolo 308 è contemplato in un altro comma; tuttavia il limite
costituito dalla mancata commissione del delitto-scopo opera anche in questo caso, dal
10
Così BRICOLA, Cospirazione politica, cit., p. 128.
14
momento che, com’è ovvio, si può impedire tale delitto solo se esso non è ancora stato
comunque realizzato. La differenza di presupposti tra le prime due condotte e la terza si riduce
allora al solo fatto che l’impedimento del delitto-scopo può avvenire anche dopo l’avvio del
procedimento.
1.2. Art. 309: casi di non punibilità per il delitto di banda armata
L’articolo in questione è molto simile all’altro, dunque qui analizzeremo soltanto gli aspetti
peculiari alla norma in esame, rinviando al paragrafo precedente per quanto già visto.
I due reati rispetto ai quali operano le cause di non punibilità previste dall’art. 309 sono: banda
armata (art. 306) e assistenza ai partecipi di banda armata (art. 307). Anche qui abbiamo tre tipi
di condotte attraverso le quali ci si può guadagnare l’impunità, e due condizioni che ne possono
paralizzare l’efficacia. La prima e la terza condotta sono esattamente identiche a quelle dell’art.
308: scioglimento della banda e impedimento del delitto-scopo. La seconda è anch’essa analoga,
cioè si tratta del recesso dall’associazione (per chi non sia promotore o capo), ma accanto al
recesso puro e semplice viene prevista anche la resa all’Autorità, effettuata senza opporre
resistenza e con contestuale consegna o abbandono delle armi.
Questo riferimento alla “resa”, come è stato segnalato dalla dottrina, rivela il carattere
anacronistico
11
della norma in esame. È infatti evidente che il legislatore aveva presente una
banda armata capace di affrontare in armi, in aperto scontro frontale, le forze dell’ordine. Solo
in quest’ottica ha infatti senso parlare di “resa senza resistenza” e di “deposizione o consegna
delle armi”. Questo scenario, magari plausibile nel 1930, quando era ancora vivo il ricordo del
fenomeno del brigantaggio, con bande armate che sfidavano apertamente lo Stato, non ha invece
nulla a che fare con la realtà criminale e terroristica odierna, in cui le organizzazioni eversive si
mantengono sempre nella clandestinità e colpiscono nell’ombra. Di conseguenza la
giurisprudenza, allorquando ha dovuto applicare l’art. 309 ad organizzazioni come i Nuclei
Armati Proletari o le Brigate Rosse, ha dovuto effettuare una non facile operazione
interpretativa volta ad adattare l’antiquata terminologia legislativa alla realtà criminale dei nostri
tempi. Dunque, la “resa” e la “consegna delle armi”, se proprio non si vuole considerarli come
elementi completamente desueti ed inutili, sono da intendere nel senso di “consegna della
propria persona all’Autorità”.
11
Tutte le riflessioni contenute in questo paragrafo circa l’ “anacronismo” dell’art. 309 si basano su DE LIGUORI,
L’art. 309 c.p. : anacronismi ed attualità, in Cass. pen. , 1985, pp. 1072ss.
15
Non pare invece convincente un’interpretazione “moderna” di tali concetti, secondo la quale si
potrebbe parlare di “resa”, oggi, nei confronti di chi, raggiunto dalle forze dell’ordine, rinunci
ad aprire un conflitto a fuoco e si arrenda, consegnando le armi. Infatti, è di tutta evidenza la
differenza esistente tra questa situazione e quella a cui si riferiva il legislatore del ’30: una cosa
è abbandonare un folto gruppo di compagni in armi, che può offrire una lunga resistenza alle
forze dell’ordine, ben diverso è rinunciare ad uno scontro certamente inutile e nel quale non si
potrà che soccombere. Senza voler anticipare il discorso sulla volontarietà della condotta e sulla
ratio della non punibilità (che verrà affrontato nei paragrafi successivi) possiamo però certo
affermare che non si può “premiare” con l’impunità un soggetto che si limiti ad arrendersi in
una situazione in cui, sostanzialmente, non ha altra scelta.
Altra interpretazione adeguatrice è stata proposta con riferimento allo “scioglimento della
banda”. E’stato infatti segnalato come alcune organizzazioni terroristiche moderne, come ad es.
le Brigate Rosse, pur mantenendo un’unità su tutto il territorio nazionale, sono però divise in
gruppi (spesso denominati “colonne”) dotati di larga autonomia. In casi come questo si è
dunque proposto di considerare corrispondente al dettato normativo lo scioglimento di un
gruppo o “colonna”, e non dell’intera organizzazione: in effetti ciò appare più conforme alla
ratio della norma.
Analoga all’art. 308 è anche la previsione di due limiti all’efficacia delle condotte riparatrici: il
primo è, di nuovo, la mancata commissione del delitto-scopo, rispetto al quale valgono le
considerazioni già fatte in tema di significato oggettivo e di applicabilità a tutte e tre le condotte
rilevanti; il secondo, operativo solo nei confronti dello scioglimento e del recesso, è invece la
necessità che essi siano compiuti “prima dell’ingiunzione dell’Autorità o della forza pubblica, o
immediatamente dopo tale ingiunzione”. Anche per questo richiamo alla “ingiunzione” valgono
le osservazioni fatte sulla “resa”: si tratta di un elemento anacronistico, perché presuppone uno
scontro aperto in cui le forze dello Stato, dopo avere magari accerchiato i banditi, asserragliati
nel loro covo, intimano loro di arrendersi; questa interpretazione appare confermata anche dalla
lettura dell’art. 655, 3°c., in cui si usa la stessa espressione con riferimento alla radunata
sediziosa, cioè appunto un assembramento di persone a cui la forza pubblica, magari prima di
effettuare una carica, intima di separarsi. Di conseguenza, si rende anche qui necessaria
un’interpretazione ammodernatrice, la quale però si rivela particolarmente difficile, come
testimonia la vasta gamma di soluzioni proposte dalla dottrina: c’è chi parla di ordine della
polizia, chi di inizio del procedimento penale, chi di emissione di un mandato di cattura nei
confronti del singolo associato… La soluzione va probabilmente desunta anche qui tenendo
presente la ratio della norma, e cioè la necessità che il comportamento del reo non sia
16
completamente inevitabile, ma corrisponda in una certa misura ad una sua scelta: di
conseguenza bisognerà valutare caso per caso se, in seguito ad un provvedimento della polizia,
o dell’ Autorità Giudiziaria, possa dirsi venuto meno questo “spazio di libertà” che il soggetto
deve invece aver conservato per potere beneficiare della non punibilità.
Concludiamo con la segnalazione di un ulteriore profilo di arcaicità della norma in esame, che
riguarda stavolta non un aspetto terminologico ma la stessa globale opportunità delle cause di
non punibilità da essa previste. Come emergerà ancora più chiaramente dopo un’analisi delle
altre fattispecie, è evidente che il legislatore concede la non punibilità solo quando ritiene che,
tutto sommato, danni concreti provocati dal reato non ve ne sono stati, o sono di entità
trascurabile. Ebbene, dalla lettura dell’art. 309 emerge che il legislatore ritiene che l’unico
danno che la banda armata può compiere sia la commissione del delitto-scopo, e che dunque se
esso non si è verificato (cosa che la norma, come visto, richiede con grande precisione) la banda
armata sia stata un’entità priva di reale lesività sociale, tanto che si può concedere l’impunità ai
più “meritevoli” dei suoi membri.
Ora, è stato efficacemente evidenziato che le organizzazioni eversive attuali rappresentano un
pericolo per la società non tanto per la loro preordinazione al compimento di un delitto-scopo, la
cui realizzazione il più delle volte è talmente difficile da apparire altamente improbabile, ma per
la loro propensione a realizzare reati comuni, come rapine e omicidi, che nella loro ottica sono
non dei delitti-scopo, ma solo dei delitti-mezzo, attraverso i quali procurarsi mezzi finanziari o
visibilità presso l’opinione pubblica. Di conseguenza, ricostruita la ratio della norma come “non
punire una banda che non è divenuta concretamente pericolosa” appare poco sensato applicare
tale regola ad organizzazioni che, pur non avendo realizzato il proprio scopo, hanno “ per anni
logorato le istituzioni e aumentato le tensioni sociali con un’attività fatta di delitti e di
sangue”
12
e dunque non meritano alcun trattamento di favore. Sulla base di questa condivisibile
affermazione, taluno
13
si è spinto fino al punto di proporre un’interpretazione della norma in
esame che consideri come limite della condotta riparatrice anche la commissione di delitti-
mezzo, oltre che del delitto-scopo; ma pur condividendo i motivi che reggono questa tesi, essa
appare inaccettabile, dato che la legge fa espresso riferimento al “delitto per cui la banda venne
formata”, e cioè al delitto-scopo. Non essendo possibile forzare eccessivamente la parola della
legge, possiamo dunque solo segnalare questa incongruenza e auspicare che il legislatore vi
ponga rimedio.
12
DE LIGUORI, Art. 309 c.p. , cit., p. 1075.
13
Così, ad es., il p.m. di Milano A. Spataro, nei motivi d’appello proposti avverso una sentenza del 1981, inedita ma
citata da DE LIGUORI, op. cit., p. 1079.
17
1.3. Art. 376: la ritrattazione
L’art. 376 1°c. dispone che il colpevole dei reati previsti dagli articoli 371bis (false informazioni
al pubblico ministero), 371ter (false dichiarazioni al difensore), 372 (falsa testimonianza) e 373
(falsa perizia o interpretazione) non è punibile se, nel procedimento penale in cui ha prestato il
suo ufficio o reso le sue dichiarazioni, ritratta il falso e manifesta il vero non oltre la chiusura
del dibattimento. Per la precisione, il testo oggi vigente è il risultato di due interventi normativi
che hanno modificato il dettato originale del 1930. Il primo è il d.l. 306\1992, poi convertito con
modifiche dalla l. 356\1992, il quale ha innovato su due aspetti: innanzitutto, contestualmente
all’introduzione nel nostro ordinamento del nuovo reato di false informazioni al P.M. (art.
371bis) ha esteso l’efficacia della ritrattazione anche a suddetto nuovo reato; in secondo luogo,
ha modificato i limiti entro i quali può essere validamente effettuata la ritrattazione, sostituendo
ai vecchi riferimenti alla chiusura dell’istruzione e al rinvio del dibattimento a cagione della
falsità (istituti legati al vecchio c.p.p.) il richiamo alla chiusura del dibattimento, con chiaro
riferimento all’art. 524 del nuovo c.p.p. Il secondo intervento normativo sul testo dell’art. 376,
di più limitata portata, è invece quello avvenuto nel 2000, con la l. 397 in tema di indagini
difensive, la quale ha introdotto il reato di cui all’art. 371ter e ha allo stesso tempo esteso
l’efficacia della ritrattazione anche a tale nuovo reato.
Il 2° comma dell’art. 376 riguarda invece l’ipotesi in cui la falsità sia intervenuta in una causa
civile (esso dunque si riferisce solo ai reati di cui agli articoli 372 e 373). L’unica differenza con
il primo comma è relativa al momento entro il quale deve essere effettuata la ritrattazione, e cioè
prima che sulla domanda giudiziale sia pronunciata sentenza definitiva, anche se non
irrevocabile.
Per completare il quadro normativo sulla ritrattazione, occorre ricordare che l’art. 376 è stato
dichiarato parzialmente illegittimo dalla Corte Costituzionale, con sent. 101\99, nella parte in
cui non prevede che la ritrattazione abbia efficacia esimente anche nei confronti di chi abbia
commesso il reato di favoreggiamento personale (art. 378) mediante false dichiarazioni alla
polizia giudiziaria quando essa agisce su delega del P.M. Dunque tale sentenza ha aggiunto
anche tale reato (ma solo quando esso venga commesso con le modalità sopra viste) nel novero
di quelli per cui opera la causa di non punibilità. Non è invece stata accolta dalla Consulta (con
sent. 424\2000) la richiesta di applicare l’art. 376 anche al reato di favoreggiamento personale
commesso mediante false dichiarazioni alla P.G. quando essa agisca, però, senza delega del
P.M. e, dunque, di propria iniziativa. Di queste due sentenze (così come della n. 206\82 che ha
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affermato la ragionevolezza della differenza dei termini per la ritrattazione tra processo penale e
civile) si tornerà a parlare nel par. 10.
I citati interventi del legislatore e della Corte Costituzionale testimoniano la vitalità dell’istituto
della ritrattazione che in effetti, tra le cause speciali sopravvenute di non punibilità è quella di
più frequente applicazione nonché quella che attira di più l’attenzione della dottrina. Sono
dunque molteplici le questioni problematiche ad essa legate: tra queste la più importante è senza
dubbio quella concernente l’efficacia nei confronti del concorrente-istigatore, sulla quale si è
sviluppata una querelle dottrinale e giurisprudenziale ormai pluridecennale. Di tale diatriba
verrà dato conto, in maniera analitica, nel Capitolo III. Qui è invece opportuno limitarsi a due
precisazioni, in ordine al contenuto della ritrattazione e alle condizioni per le quali essa è
efficace.
La ritrattazione è, secondo la legge, costituita da due distinti elementi, generalmente
contemporanei: la ritrattazione del falso e la manifestazione del vero. Non sono dunque
sufficienti dichiarazioni generiche o ritrattazioni parziali, mentre è viceversa ovvio che, nel caso
in cui il soggetto non sappia realmente nulla sull’argomento oggetto delle false dichiarazioni,
l’espressione “manifestare il vero” va intesa come “ammissione di non sapere niente”: si
verrebbe altrimenti a creare un’ingiustificata differenza di trattamento tra chi ha falsificato una
realtà che conosce e chi ha invece parlato su fatti a lui totalmente estranei, differenza che non ha
fondamento data la identica lesività delle due condotte in esame.
Per quanto riguarda il termine entro cui si può validamente ritrattare, il riferimento normativo
alla “ chiusura del dibattimento” è, come visto, piuttosto chiaro. Il problema si pone solo per i
reati commessi in uno di quei procedimenti speciali (giudizio abbreviato e patteggiamento ) in
cui il dibattimento manca, ma può essere risolto abbastanza facilmente con il richiamo agli
articoli 442 e 446 c.p.p.
Rilevante è anche la previsione normativa secondo cui la ritrattazione dev’essere effettuata “nel
procedimento penale in cui sono state rese le dichiarazioni”. In applicazione di questo principio
non è dunque considerata efficace una ritrattazione resa nel procedimento instaurato per
giudicare la falsa testimonianza, anche se di essa abbia avuto notizia anche il giudice davanti al
quale fu consumata la falsità. Tale limitazione invece non opera riguardo alla falsa
testimonianza resa in un procedimento civile, la cui ritrattazione è dunque efficace anche se resa
davanti al giudice penale, purché sempre prima che sia pronunciata sentenza definitiva nella
causa civile.