2
Abbiamo impostato il nostro lavoro dedicando un primo capitolo teorico e
introduttivo (Capitolo I) ai più recenti studi sulla spectatorship cinematografica
per poi entrare nel merito della questione con i capitoli successivi.
Ci siamo occupati dei cambiamenti che le recenti innovazioni tecnologiche
hanno portato nell’esperienza di visione in sala orientando quasi
esclusivamente il nostro discorso verso il momento della proiezione, di cui
abbiamo messo in evidenza le caratteristiche distintive rispetto alla situazione
di qualche anno fa (Capitolo II).
In un secondo momento, abbiamo allargato il discorso ad contesto più
ampio occupandoci dell’esperienza di fruizione e quindi dell’intera sala, nei
suoi elementi di novità in grado di ridefinire il concetto di esperienza
cinematografica offrendo al pubblico nuovi servizi (Capitolo III). A
quest’ultimo argomento è seguito un necessario accenno al consumo di film in
Italia negli anni Novanta e ai futuri sviluppi dell’esercizio cinematografico.
Abbiamo adottato poi, come esempio paradigmatico delle tendenze
precedentemente esposte, il cinema Arcadia di Melzo, di cui abbiamo dato una
breve descrizione delle caratteristiche essenziali e distintive e, ad essa, abbiamo
fatto seguire i risultati di una personale ricerca quantitativa compiuta su un
campione di pubblico (Capitolo IV, in Appendice la metodologia di ricerca
seguita per la raccolta dati).
Dopo aver ripercorso tutte le nostre osservazioni, abbiamo poi concluso il
nostro lavoro proponendo dei modelli di comportamento fruitivo coerenti con i
cambiamenti di cui abbiamo parlato (Capitolo V).
In chiusura, abbiamo preparato delle schede tecniche che presentano le
principali innovazioni tecnologiche cui abbiamo fatto riferimento nel nostro
lavoro.
3
LE TEORIE SULLO SPETTATORE
I.1 Una premessa: i modelli istituzionali degli anni Settanta
I.1.1 Il cinema come “apparato”
Dal momento che il nostro lavoro si occuperà della relazione tra spettatore,
contesto di fruizione ed esperienza di visione, ci è parso necessario dedicare un
capitolo agli studi sulla spectatorship cinematografica.
Non abbiamo la presunzione di fornire un quadro esaustivo sullo stato
attuale degli studi, vorremmo comunque cercare di illustrare i principali snodi
teorici con cui la ricerca ha dovuto fare i conti e presentare alcuni tra i più
recenti approcci che hanno aperto nuove strade di ricerca, privilegiando quelle
che più ci sembrano in sintonia con la direzione del nostro lavoro. Ci avvarremo
del contributo di due testi aggiornati e significativi curati rispettivamente da
Linda Williams e da Judith Mayne
1
.
Negli ultimi vent’anni la riflessione teorica ha mostrato un interesse
crescente per la spectatorship cinematografica dando vita ad un ambito di ricerca
sempre più ricco di contributi che propongo spesso approcci molto diversi tra
loro. Per quanto questi recenti lavori possano essere dissimili hanno comunque
un elemento che li accomuna: il costante riferimento alle riflessioni degli anni
Settanta elaborate da teorici come Metz, Baudry, Mulvey, Kuntzel o Bellour.
Non vogliamo entrare nel merito dei singoli contributi di questi autori,
cercheremo piuttosto di sottolineare la loro adesione ad un comune orizzonte di
1
L. Williams, Viewing Positions, Ways of Seeing Film, Rutgers University Press, New Brunswick 1997
(1995) e J. Mayne, Cinema and Spectatorship, Routledge, London 1993. Se il testo di Mayne (che sarà il
nostro costante riferimento per i paragrafi seguenti) si propone come un personale ragionamento
sull’evoluzione degli studi sulla spectatorship, quello di Williams offre invece una raccolta di contributi
di diversi autori (già pubblicati in altre sedi) che hanno affrontato la questione della spectatorship da
differenti punti di vista.
4
ricerca e di evidenziare i concetti-chiave che saranno poi approfonditi, messi in
discussione o contestati nelle riflessioni degli anni successivi
2
.
Le teorie elaborate negli anni Settanta rimandano ad un approccio di tipo
semiotico-psicoanalitico che si colloca in un conteso culturale di rinnovato
interesse verso la questione dell’ideologia
3
e verso la psicanalisi (in particolare
la rilettura freudiana proposta da Lacan)
4
che diventa il principale strumento
attraverso cui interpretare l’esperienza cinematografica e quindi il rapporto tra
spettatore e visione. Si tratta di teorizzazioni che nascono dall’osservazione del
cinema classico narrativo hollywoodiano, quindi il cinema compreso tra i primi
anni del sonoro e fine dello Studio System negli anni Cinquanta, ma sebbene
riferite ad un contesto storicamente limitato si propongono come riflessioni dal
valore universalmente valido perché riferite all’essenza stessa della macchina
cinematografica.
Questi tipi di approccio sono stati spesso definiti con i termini di “modelli
istituzionali”, di “teorie dell’apparato” (apparatus in inglese) o del “soggetto”
per la loro comune definizione del cinema come “istituzione”
5
(Metz) o
“apparato” (Baudry) in grado di proporsi come dispositivo dotato di una forte e
intrinseca componente ideologica mascherata nei suoi stessi meccanismi di
apparentemente neutra macchina di rappresentazione. Si tratta di una
“macchina” che lavora e agisce ripetendo gli stessi processi psichici che
determinano la costruzione della nostra identità e la percezione di noi stessi
2
Per un approfondimento rimandiamo quindi ai singoli contributi: ampi riferimenti bibliografici e una
trattazione d’insieme si trovano in J. Mayne, in particolare il cap. 2; in F. Casetti, Teorie del Cinema,
1945-1990, Bompiani, Milano 1993, in particolare i cap. 10 e 14; in G. Turner, Film as Social Practice,
Routledge, London 1993 (1988), pp. 109-123. Si veda anche la bibliografia commentata in chiusura del
testo di L. Williams precedentemente citato.
3
Si vedano le riflessioni di Althusser sull’ideologia, che influenzeranno notevolmente la teoria filmica di
questo periodo.
4
La sua descrizione della “fase dello specchio”, in cui il bambino a confronto con la propria immagine
inizia a riconoscersi come soggetto, è alla base del concetto di doppia identificazione proposto da Metz
ma anche della definizione del cinema come “apparato” proposta da Baudry.
Si veda in proposito C. Metz., Cinema e Psicoanalisi, SuperTascabili Marsilio, Venezia 1997 (1980),
pp.46-61.
5
“Istituzione cinematografica (insisto ancora una volta su questo punto): non solo l’industria del cinema
(che funziona per riempire le sale, non per svuotarle), ma anche i meccanismi mentali –altra industria-
che gli spettatori ‘abituati al cinema’ hanno storicamente interiorizzato e che li rende atti a consumare
film. (L’istituzione è fuori e dentro di noi, indistintamente collettiva e intima, sociologica e psicoanalitica
[…])”. C. Metz, op. cit., p.12.
5
come soggetti (la già citata “fase dello specchio” analoga al momento della
proiezione, pertanto costantemente ripetuta nella situazione cinematografica).
L’istituzione cinematografica, usando la terminologia di Metz, è in grado di
far leva su una serie di pulsioni e di perversioni (narcisismo, voyeurismo,
scopofilia, feticismo) che pongono al centro dell’esperienza cinematografica lo
sguardo, i processi di identificazione e le dinamiche del desiderio, soprattutto il
desiderio edipico legato alle paure di castrazione e alla costruzione dell’identità
sessuale.
Quindi, sia partendo dall’analisi testuale (Bellour, Kuntzel, Heath) sia
considerando il cinema nella sua complessità (Metz, Baudry, Mulvey), lo
scenario che ne risulta è quello di un dispositivo in grado di definire e
assegnare un posto allo spettatore o, meglio ancora, di presupporre un
“soggetto desiderante” determinato a priori e integrato nell’ apparato, il cui
sguardo e le cui pulsioni, in sostanza, fanno il gioco dell’istituzione
cinematografica. Partendo poi da una analisi più specifica sul cinema classico e
sui ruoli assegnati ai personaggi femminili e maschili, anche il processo di
identificazione risulta pensato in maniera univoca, presupponendo uno
spettatore che adotta unicamente un punto di vista maschile (Mulvey).
I.1.2 Le critiche al modello istituzionale: il contributo di Judith Mayne
Come abbiamo già osservato, l’approccio proposto dalle “teorie
dell’apparato” è stato messo in discussione negli anni successivi.
Tra i lavori più recenti dedicati alla spectatorship cinematografica, il testo di
Judith Mayne è tra i più completi: dopo aver presentato i contributi degli anni
Settanta, cercando di metterne in luce sia gli elementi più discussi dagli
approcci successivi sia gli spunti più interessanti e ancor validi, propone una
rassegna degli attuali contributi (arricchiti con esempi di lavoro e analisi negli
ultimi capitoli) e dedica un capitolo ad alcuni concetti-chiave con i quali lo
studio della spectatorship cinematografica deve fare i conti.
6
Vorremmo ripercorrere le osservazioni di Mayne per dare un quadro degli
snodi teorici su cui la riflessione sulla spectatorship si è interrogata in questi
ultimi anni.
Iniziamo dunque con le osservazioni mosse alle teorie degli anni Settanta.
La critica più comune riguarda proprio lo spettatore: le teorie dell’apparato
non sembrano lasciare spazio alla persona reale che assiste alla proiezione
(viewer), proponendo invece l’idea di un “soggetto” (subject) il cui sguardo e i
cui processi di identificazione sono guidati e controllati a priori dalla
“macchina” cinematografica; si tratta quindi di una costruzione teorica, di uno
spettatore astratto, deterministicamente orientato, quindi passivo.
Osserva Mayne che nonostante la consapevolezza di questa dicotomia
(Mulvey) su questo punto della riflessione le teorie dell’apparato hanno fatto
poca chiarezza: “molti studi recenti sulla spectatorship hanno posto in primo piano
quello che io penso sia un sano scetticismo rispetto alla teoria del soggetto che avrebbe
prematuramente accantonato la possibilità di una relazione tra sé e i vari modelli che
determinano come gli spettatori sono costruiti e come questi spettatori plasmano
l’istituzione cinematografica”
6
. Per contro Mayne propone proprio di non
ragionare per dicotomie, che oppongono drasticamente ad uno spettatore reale
una costruzione puramente teorica, perché il campo d’azione degli studi sulla
spectatorship si trova proprio in mezzo a questa divisione “spesso frustrante”.
Un altro ordine di critiche riguarda la mancanza di storicità da parte delle
teorie dell’apparato che elaborano un modello interpretativo, costruito
sull’osservazione del cinema narrativo classico hollywoodiano (quindi un
periodo preciso e determinato), che si propone come universalmente valido, dal
momento che esamina e dà spiegazione delle caratteristiche ontologiche quindi
immutabili della istituzione cinematografica, non lasciando spazio a possibili
obiezioni o alternative (se non grazie a film d’avanguardia in grado di
smascherare i meccanismi del desiderio su cui si basa la macchina
cinematografica). Paradossalmente si potrebbe arrivare ad obiettare che la
teoria dell’apparato esclude la possibilità di uno sviluppo storico del cinema,
6
J. Mayne, p. 37 (la traduzione è nostra, come per tutte le successive citazioni).
7
peccando probabilmente nel sostenere che “non c’è una distanza metaforica tra il
cinema e il desiderio psichico che si suppone esso incarni così pienamente”
7
,
considerando invece alla lettera questa metafora, con la conseguenza di non
dare il giusto peso alla componente storica e culturale dell’esperienza
cinematografica, quindi ai cambiamenti delle modalità e del contesto di
fruizione, della composizione del pubblico ma anche alle differenze di razza,
sesso e cultura degli spettatori che possono influire sui processi di
comprensione del film.
Quindi molti spunti offerti dalla teoria dell’apparato hanno realmente
segnato una svolta e sono tuttora validi ma vanno comunque letti in chiave
metaforica e messi a confronto con un contesto storico-culturale; infatti “i più
promettenti ed influenti contributi sulla spectatorship riconoscono la necessità di
comprendere il cinema come ideologicamente influenzato, ma non in maniera così
monolitica”
8
; si tratta, secondo Mayne, di prendere coscienza del necessario
confronto tra “l’omogeneità (dell’apparato cinematografico) e l’eterogeneità (dello
spettatore e quindi dei differenti modi in cui l’apparato può essere compreso)”
9
e
riconoscere quindi dell’inevitabile gap che si crea tra uno spettatore ideale e uno
reale che si porrà sempre in un’imperfetta relazione con quello ideale.
Mayne dedica un capitolo molto interessante (“Paradoxes of Spectatorship”)
ad alcune questioni-chiave, emerse negli studi sulla spectatorship, che
sottolineano proprio questo rapporto contraddittorio e di costante tensione tra
omogeneità ed eterogeneità, tra dominio e resistenza divenuto il punto cruciale
su cui poggiano tutti i contributi successivi agli anni Settanta.
Attraverso l’analisi dei tre concetti di “interpellazione/ricezione”,
“fantasia” e “negoziazione”
10
, Mayne fa delle personali osservazioni sugli
7
J. Mayne, p. 49.
8
op. cit., p.78.
9
ibid.
10
Per un approfondimento rimandiamo al testo della Mayne. In sintesi: la questione di fondo resta il
rapporto problematico tra omogeneità ed eterogeneità di cui abbiamo parlato; il concetto di
“address/reception” rimanda ancora alla tensione tra viewer e subject; quello di “fantasy” propone degli
approcci che si rifanno alla psicanalisi ragionando non solo in termini di desiderio (edipico) ma di
fantasie (Laplanche-Pontalis) aprendo nuovi sviluppi sul discorso sulla costruzione dell’identità dello
spettatore; infine il concetto di “negotiation” che ragiona sulle strategie interpretative in atto
8
approcci più recenti, sottolineando da un lato l’incompletezza delle teorie
dell’apparato e, dall’altro, l’attuale tendenza, anch’essa parziale, a riconoscere
invece una totale autonomia di azione e interpretazione allo spettatore: Mayne
mette in guardia dal pericolo di ricadere ancora una volta in rigide dicotomie.
Il contributo importante che è venuto dagli approcci empirici quali la
ricerca etnografica o l’indagine sociologica, che hanno permesso di “incontrare
sul campo” lo spettatore reale, ha portato con sé nuovi problemi teorici.
In ricerche di questo genere, osserva Mayne, spesso viene sottovalutata la
presenza raramente neutra del ricercatore, con il rischio di fornire non tanto un
quadro reale dei meccanismi di scelta, coinvolgimento o interpretazione del
pubblico quanto piuttosto una descrizione che è frutto della mediazione e della
interpretazione ideologica (il più delle volte involontaria) di chi compie
l’analisi: “Bisogna essere cauti verso gli appelli che sono stati fatti in nome degli
spettatori empirici o della etnografia come la verità che ci renderà liberi dalle
teorizzazioni troppo astratte del passato. Io sospetto che possa essere impossibile
eliminare del tutto la nozione di un lettore [o spettatore, n.d.t] ideale dal momento che
noi tutti viviamo queste finzioni e costruzioni e in una certa misura ne siamo
partecipi”
11
.
In conclusione Mayne, presentando alcuni esempi di ricerca (basati
sull’analisi testuale, sul divismo, sulla ricezione in relazione alla razza, al sesso
o alla appartenenza a delle “subculture”) e ribadendo la necessità di un quadro
teoretico di riferimento, giunge a due osservazioni: da un lato nota una certa
riluttanza da parte dei teorici a riconoscere il proprio coinvolgimento nei
processi di analisi, e in questo senso auspica una maggiora auto-
consapevolezza, e dall’altro rivendica il bisogno di studi “locali” e specifici che
focalizzino l’attenzione non tanto su teorie omnicomprensive quanto piuttosto
sul “gioco e sulla variazione che esiste nelle particolari congiunture tra le concorrenti
affermazioni della spectatorship cinematografica – come la funzione di un apparato,
nell’esperienza di visione cinematografica, approfondendo il discorso sulle possibilità di lettura
(compiacente, alternativa,…) aperte allo spettatore.
11
J. Mayne, p.86.
9
come un mezzo di controllo ideologico, da un lato, e come una serie di responsi
discontinui, eterogenei e a volte dotati di forza propria, dall’altro”
12
.
Riserviamo ancora un’ultima osservazione alle teorie degli anni Settanta e
in particolare ad alcune critiche mosse in anni successivi riguardo al ricorso alla
psicanalisi come esclusivo quadro di riferimento, e spesso usata in modo
astratto o deterministico. Queste osservazioni possono essere condivise, è anche
vero però che il rapporto con la psicanalisi inaugurato dalle teorie degli anni
Settanta ha aperto la strada ad uno strumento interpretativo il cui peso verrà
ampiamente riconosciuto anche in anni successivi, allargando il discorso ad
altre prospettive come vedremo in seguito.
12
J. Mayne, p.102.
10
I.2 I contributi più recenti: diversi tipi di approccio
I.2.1 Modelli storici
Vorremmo ora ripercorrere brevemente la strade aperte dai contributi più
recenti ribadendo la crescente difficoltà a porre delle distinzioni nette tra un
approccio e l’altro proprio per la consapevolezza ormai salda che gli studi sulla
spectatorship, pur focalizzati su un preciso scenario di ricerca, necessitano di una
pluralità di strumenti (soprattutto una maggior specificità storica) essendosi
moltiplicati i “ways of seeing”, citando il libro di Williams.
Seguendo l’impostazione fin qui adottata cercheremo di privilegiare un
discorso d’insieme piuttosto che una relazione sui singoli autori; vorremmo
comunque approfondire un tipo di approccio attento alla dimensione storica
del cinema, che abbiamo tenuto come costante riferimento per il nostro lavoro.
Ragionare in una prospettiva storica significa necessariamente porre
l’esperienza cinematografica, con tutto quello che essa comporta in termini di
aspettative da parte del pubblico, in relazione ai cambiamenti nel contesto di
fruizione (evoluzione delle sale, delle modalità di offerta del film, delle
tecnologie, delle organizzazioni economiche) oppure in relazione alle modalità
di comprensione di un film che possono differenziarsi a seconda del contesto
storico ed anche culturale. Altre direzioni di ricerca invece, in un’ottica più
ampia, hanno approfondito lo studio del cinema come particolare “sfera
pubblica”
13
o come esperienza che oltrepassa i limiti della sala coinvolgendo
una rete di rimandi molto più ampia (fan magazine, divismo)
14
, sempre
riferendosi a un preciso contesto storico.
13
Si veda il saggio di M. Hansen, Early Cinema, Late Cinema: Transformations of the Public Sphere, in
L. Williams, op. cit., pp. 134-152. e anche M. Hansen, Babel & Babylon: Spectatorship in American
Silent Film, Harvard University Press, Cambridge-London, 1991.
14
J. Mayne, pp. 62-70 e pp. 123-141. Per informazioni bibliografiche sui singoli contributi rimandiamo
ancora a Mayne e Williams. Per un discorso più ampio sugli studi storici dedicati al cinema,
indipendentemente dalla questione della spectatorship, rimandiamo a R. Allen- D. Gomery, Film History,
Theory and Practice, MacGraw-Hill, New York 1985.
11
Molti sono stati in questi ultimi anni i contributi che hanno affrontato la
questione della spectatorship privilegiando questo orizzonte di ricerca e
permettendo spesso di mettere in discussione diversi postulati formulati negli
anni Settanta. Citiamo come esempio il saggio di Tom Gunning
15
che ha
approfondito il discorso sul pubblico delle prime proiezioni cinematografiche
sfatando l’immagine più volte ricorrente di uno spettatore ingenuo e spaventato
di fronte a delle ombre confuse come realtà (immagine che in qualche modo
ritorna nello spettatore passivo e inerme di fronte ai poteri ammaliatori
dell’apparato postulato negli anni Settanta). Gunning, allargando la sua analisi
ad altre forme di divertimento e di illusione contemporanee all’apparizione del
cinema e ampiamente note al pubblico, ci fornisce piuttosto il quadro di uno
spettatore ben consapevole di trovarsi di fronte ad un dispositivo di
rappresentazione; il senso di meraviglia o la istantanea reazione di spavento
vanno quindi intese nei termini di agostiniana curiositas, di stupore razionale e
consapevole nato dal riconoscimento delle potenti capacità illusorie fino ad
allora mai raggiunte da alcun dispositivo.
Un riferimento al cinema delle origini si trova anche nel già citato saggio di
Miriam Hansen che trova diverse analogie tra l’esperienza cinematografica dei
primi anni del secolo (il riferimento è al “cinema delle attrazioni” descritto da
Tom Gunning) e quella attuale, viste entrambe come momenti in cui si è
assistito a delle profonde trasformazioni nella “sfera pubblica”. Attorno a
quest’ultimo concetto gravita l’orizzonte di ricerca proposto da Hansen:
“pensare al cinema in termini di ‘sfera pubblica’ implica un approccio che passa
attraverso modelli teoretici e storici di ricerca tanto quanto modelli testuali e
contestuali, perché il cinema funziona sia come sfera pubblica di per sé – definita da
specifiche relazioni di rappresentazione e ricezione - e sia come parte di un orizzonte più
ampio – definito dagli altri media e dalle sovrapposte strutture locali, nazionali, globali
15
T. Gunning, An Aesthetic of Astonishment: Early Film and the (In)Creduluos Spectator, in L. Williams,
op. cit., pp.114-133.
12
e individuali della vita pubblica”
16
. In un simile scenario è facile capire come gli
strumenti di ricerca siano necessariamente molteplici.
Per l’orientamento preso dal nostro lavoro abbiamo posto molta attenzione
anche a quei contributi che si propongono di ricostruire le forme e i
cambiamenti nel contesto di fruizione cinematografica in un determinato
periodo storico; si tratta di lavori che fanno da ponte tra gli studi sulla
spectatorship e le ricostruzioni più propriamente storiche, offrendo in questo
modo degli interessanti spunti di riflessione per esempio riguardo le aspettative
o le reazioni del pubblico in rapporto ai diversi fattori di cambiamento, come le
innovazioni tecnologiche
17
.
Volendo trarre delle osservazioni conclusive ci è sembrato di capire che,
allo stato attuale delle cose, le riflessioni sulla spectatorship si sono moltiplicate
offrendo una pluralità di approcci e di strumenti d’analisi spesso integrati tra
loro, un elemento però accomuna tutti questi lavori ed è la rivendicazione della
necessità primaria di dare una contestualizzazione storica al proprio ambito di
studi, soprattutto dopo la rigida impostazione delle teorie degli anni Settanta.
I.2.2 Modelli empirici e Feminist Film Theory
Abbiamo già osservato che la critica più forte rivolta alla teoria
dell’apparato è stata soprattutto quella di aver dato una definizione monolitica
e univoca dello spettatore e dei processi di identificazione e comprensione del
film, prescindendo dall’approfondire il discorso sullo spettatore “in carne ed
ossa”. In anni recenti una delle esigenze che più si sono fatte strada negli studi
16
M. Hansen, op. cit. , p.145, anche per la definizione e per i rimandi teorici sul concetto di “sfera
pubblica” (la traduzione è nostra).
17
I riferimenti bibliografici sono molti a partire da lavori specifici dedicati alla sala (M. Valentine, The
Show Starts on the Sidewalk: An Architectural History of the Movie Theatre, Yale University Press, April
1996) fino alle ricostruizioni storiche a tutto campo (D. Gomery, Shared Pleasures: a History of Movie
Presentation in the United States, University of Wisconsin Press, May 1992). In ambito italiano abbiamo
trovato molto interessante il testo di Mario Calzini, ricco di informazioni tecniche, per non trascurare poi
il bellissimo lavoro di Gian Piero Brunetta che, con un approccio multidisciplinare e ricorrendo ad una
pluralità di fonti soprattutto letterarie, si propone come una storia del cinema, dalle origini ad oggi,
condotta attraverso gli occhi degli spettatori. Ricordiamo anche i numerosi tesi sul suono curati da Rick
Altman (v. bibliografia per informazioni relative ai testi qui sopra citati).
13
sulla spectatorship è stata proprio quella di orientare le ricerche verso un
approccio che tenga in considerazione tale “realtà”.
In questa direzione Mayne individua due gruppi di contributi che, in
maniera più o meno marcata, si poggiano su modalità empiriche di ricerca.
Da un lato c’è un tipo di approccio che fa riferimento alla psicologia
cognitiva e dall’altro c’è invece la ricerca etnografica e qualitativa che si
richiama all’esperienza dei Cultural Studies inglesi
18
.
David Bordwell può essere considerato il capostipite degli studi che si
rifanno alla psicologia cognitiva e si occupano dei meccanismi di percezione e
comprensione del film messi in atto dallo spettatore la cui attività, nell’assistere
ad un film, consiste nel “vedere, ascoltare, ricordare, assumere, inferire, ipotizzare ed
eventualmente cancellare quanto appare sullo schermo; ed egli la esplica da un lato
appoggiandosi alle proprie risorse mentali e all’insieme degli schemi interpretativi che è
in grado di maneggiare, dall’altro, affidandosi alle indicazioni provenienti dall’ambiente
in cui ha luogo la visione e soprattutto dall’oggetto della visione stessa”
19
.
Il discorso di fondo proposto da Bordwell, in chiara opposizione con le
teorie dell’apparato, ruota quindi attorno ad una diversa concezione del
concetto di percezione e al riconoscimento di una partecipazione attiva dello
spettatore nel momento della visione e della comprensione del film.
Innanzitutto viene ridimensionata la capacità del cinema di dare una
posizione determinata al proprio spettatore, il quale riceve dal film piuttosto
solo dei “suggerimenti”, delle chiavi di interpretazione che lo aiutano a
ricostruire quello che avviene sullo schermo, spesso seguendo percorsi del tutto
personali. L’altro polo della discussione riguarda invece il processo di
percezione intesa in modo eccessivamente rigido e astratto dalle teorie degli
anni Settanta; secondo Bordwell invece tale processo si struttura in maniera
complessa presupponendo come prima cosa un ruolo attivo da parte dello
spettatore e implicando poi una serie di fattori per esempio culturali o neuro-
18
J. Mayne, pp.53-62. Sui Cultural Studies si veda A. Manzato, Introduzione agli Audience Studies, ISU-
Università Cattolica, Milano 1995, pp.23-29 oppure G. Turner, Film as Social Practice,Routledge,
London 1993 (1988), pp.40-42.
19
F. Casetti, Teorie del Cinema, op. cit., p.276; si vedano in proposito le pp. 274-278 e in J. Mayne le pp.
55-59.
14
biologici trascurati dalla teoria dell’apparato. In sostanza Bordwell propone un
tipo di approccio che tenga in giusta considerazione la ricerca empirica (per
comprendere come attualmente funzionano la percezione e la comprensione di
un film), l’analisi testuale e soprattutto l’abbandono della psicanalisi a favore
invece degli strumenti della psicologia.
Mayne sottolinea come, oltre alla strada inaugurata da Bordwell, ci siano
esempi di contributi che si richiamano alla psicologia cognitiva e agli studi sulla
percezione senza necessariamente proporsi come netta alternativa alle teorie
dell’apparato e offrendo piuttosto una revisione dei loro postulati grazie a
nuovi strumenti di studio.
La ricerca etnografica e qualitativa si propone invece più come strumento
di analisi che come approccio vero e proprio; volendo cercare un orizzonte di
studi che si rifà ad essa come mezzo privilegiato di ricerca ci si può riferire alla
già citata tradizione dei Cultural Studies inglesi e, nell’ambito della spectatorship
cinematografica, al loro interesse ad investigare , per esempio, le modalità di
comprensione e di creazione di significati all’interno di specifiche “subculture”.
Come sostiene Barker, in un saggio in cui discute proprio della necessità di
comprovare le osservazioni teoriche sul pubblico con delle ricerche empiriche,
“la tradizione dei cultural studies ha preso abbondantemente a prestito i modi
qualitativi ed etnografici di ricerca e li ha associati con un intenso interesse in quello che
può essere capito attraverso la ‘conversazione’[“talk” nel testo, n.d.t.]. La
conversazione è una parte dell’esperienza del guardare un film. E attraverso una stretta
analisi dei tipi di conversazione che la gente compie, noi possiamo ottenere importanti
informazioni sul ruolo di un film e del cinema sulla vita della gente”
20
. Barker riporta
di seguito due recenti esempi di ricerca compiuti su un campione ristretto di
persone; spesso l’obiettivo primario di questo tipo di studi è quello di mettere
in risalto come audience specifici siano in grado di proporre letture e
interpretazioni alternative e “controcorrente” rispetto ad una presunta norma.
20
M. Barker, Film Audience Research: Making a Virtue out of a Necessity, in “Iris” n. 26 (Fall 1999),
Imprimerie Rafal, Paris. Si veda l’intero numero monografico dedicato a Cultural Studies, Gender Studies
and Film Studies (la traduzione è nostra).
15
Abbiamo già messo in guardia dal rischio che comporta questo tipo di
approccio (sottovalutazione del ruolo e del condizionamento del ricercatore,
rischio di riconoscere una totale libertà interpretativo allo spettatore in
relazione ad un contesto ideologico “esterno” comunque presente), a cui va
comunque riconosciuto il merito di aver sollevato interrogativi sul grado di
astrazione delle teorie dell’apparato.
Concludendo questo capitolo vorremmo riservare un ultimo accenno ai
recenti sviluppi della Feminist Film Theory e di quei contributi che, rispetto ai
rigidi postulati delle teorie degli anni Settanta, hanno proposto dei modelli di
spectatorship alternativi in relazione al genere, al sesso, alla razza o alla
appartenenza a determinati gruppi sociali o sottoculture da parte dello
spettatore (in questo caso l’affinità con i Cultural Studies è molto forte anche se
gli strumenti di lavoro possono essere diversi).
L’insieme dei contributi che si collocano in questo ambito è molto ampio e
darne un quadro sintetico sarebbe difficoltoso anche per il motivo, già
sottolineato, che i confini tra un approccio e l’altro tendono a confondersi così
come accade molto spesso che gli stessi strumenti di analisi vengano condivisi
da scenari di ricerca che si pongono obiettivi differenti. Non offriremo quindi
una descrizione esaustiva rimandando, per un necessario approfondimento, ai
testi che abbiamo finora tenuto come costante riferimento in questo capitolo
21
.
All’interno della Feminist Film Theory, a partire dalla fine degli anni
Settanta, si sono sviluppate diverse direzioni di ricerca che hanno approfondito
e riveduto il discorso inaugurato da Laura Mulvey sui processi di
identificazione e sull’immagine femminile delineata dal dispositivo
cinematografico. I lavori più recenti hanno effettivamente proposto dei modelli
alternativi di spectatorship e spesso condividendo con Mulvey gli stessi
strumenti di ricerca, come la psicanalisi o l’analisi testuale.
21
J. Mayne, pp.70-76 e in particolare i cap. 7 e 8; F. Casetti, cap. 14 e il già citato numero monografico di
“Iris” (n. 26)