5
I modelli culturali vengono trasmessi fin dalla nascita attraverso l’accudimento,
l’allattamento, la comunicazione e i contatti madre-figlio.
Questa sarà la base culturale che ci porteremo dietro per tutta la vita e ci
influenzerà nelle nostre scelte e atteggiamenti quotidiani.
La cultura appartiene ad un processo d’ identità dell’individuo costituita sia da
elementi personali che transpersonali che costituisce il fondamento del
sentimento di un “Noi”. Sebbene noi possiamo esserne inconsapevoli, dal punto
di vista esterno, appare subito chiaro di quali gruppi facciamo parte
(nazionalità, religione, classe sociale..).
Le differenziazione parte dal “non me”, nel processo di separazione dalla madre
al “non noi” , che si verifica in seguito all’uscita gruppo familiare e nella
necessità di ricreare, con la partecipazione alla scuola, i rapporti fra norme
familiari e dei gruppi di socializzazione secondaria.
Le rappresentazioni e i sentimenti associati alle esperienze della differenza
assumono inizialmente una connotazione negativa: il soggetto infatti si sente
minacciato poichè tali avvenimenti fanno sì che si rompa lo stato di narcisismo
primario, del piacere, dell’unità.
Possono avvenire due diverse reazioni in negativo: nella prima la violenza
connessa all’esperienza dell’esclusione porta alla formula generale “o me o
l’altro”, cui conseguono emarginazione e discriminazione, nella seconda, nel
tentativo di eliminare le conseguenze negative di questa violenza, si sviluppa
una tendenza a valorizzare ciò che è identico a sé, fino a negare ogni forma di
differenza. La lotta contro l’estraneo, il nemico, l’altro è un elemento costante
della storia dell’uomo.
Questo perché l’altro, se non percepito come nemico, comunque può costituire
una minaccia per la nostra identità, d’altro canto bisogna ricordare che il sé può
emergere solo a partire dal rapporto con l’altro.
La paura di ciò che non appartiene al proprio contesto culturale può apparire
come una minaccia per la nostra identità e comporta inevitabilmente la
creazione di un sistema difensivo: spesso la chiusura è dovuta al timore che il
contatto con il diverso ci costringa in qualche modo a cambiare.
6
Ciò avviene perché, come risultato di una mancata elaborazione del processo di
individuazione-separazione, siamo incapaci di riconoscere l’altro e distinguerlo
da noi compiutamente. Al contrario se il processo è stato elaborato abbastanza
l’accettazione del diverso e del bagaglio culturale che porta con sé saranno più
facilmente tollerate.
Alla base di una relazione negativa con l’altro è il pregiudizio che riguarda tutti i
diversi, in quanto tali.
Il pregiudizio è una valutazione che precede la conoscenza, una preconcezione
rispetto alla raccolta di informazioni reali per la comprensione basato su dati
inadeguati, a volte, immaginari: abbiamo dei pregiudizi su persone anche senza
mai averle viste.
Gli aspetti del pregiudizio sono tre: aspetto cognitivo, emotivo-affettivo,
conativo o comportamentale.
Lo stereotipo, che costituisce l’aspetto cognitivo, è un’immagine mentale
semplificata non personale, ma socialmente comune e caratteristica di una
determinata cultura. Esso è condiviso infatti da gruppi di persone che, in
seguito alla sua formulazione, riescono a rafforzare la propria identità comune,
annullando le differenze esistenti all’interno del gruppo. Se un tempo lo
stereotipo si riferiva a una forma di giudizio che produceva un comportamento
rigido con risposte sempre uguali a dispetto del cambiamento del contesto,
attualmente, grazie al contributo di Tajfel, viene considerato come processo
cognitivo legato alla categorizzazione.
Gli stereotipi agiscono a tre livelli: individuale per orientare le azioni, valoriale
per difendere il sistema di valori, infine sociale per creare e mantenere
l’ideologia di gruppo, essenziale per la creazione dell’identità sociale.
L’ aspetto emotivo-affettivo è fondamentale poiché attribuisce al pregiudizio
un significato che può essere positivo o negativo.
L’ aspetto conativo è quello che porta alla pratica di comportamenti di
accettazione o di rifiuto. Appartiene a questo aspetto la discriminazione, che si
7
realizza solo a seguito della messa in pratica di comportamenti specifici, i cui
effetti possono produrre modifiche nella percezione dell’identità di colui che ne
è l’oggetto.
Il modo in cui reagiamo a persone, comportamenti e situazioni dipendono da
categorizzazioni che si basano sulle nostre conoscenze acquisite e rendono
possibile l’interpretazione delle informazioni.
Queste a loro volta sono fortemente influenzate dalle rappresentazioni sociali
che producono enunciati figurativi e valutativi a proposito di un oggetto,
fornendo un modello di interpretazione della realtà e di guida per l’azione.
Categorizzare significa stabilire distinzioni e tracciare dei limiti, questo ci
permette di fruire delle proprie conoscenze e prevedere uno scenario possibile
futuro.
Il pregiudizio, considerato come normale processo mentale di categorizzazione,
non può certo essere eliminato, anzi ci è utile laddove dobbiamo affrontare
situazioni e persone sconosciute.
Si può però ridurre il carattere di eccessiva semplificazione della realtà e rigidità
della sua portata e agire sull’aspetto conativo che conduce alla discriminazione
e emarginazione.
Secondo Gadamer il processo cognitivo si sviluppa partendo dal pregiudizio
(proprio di uno specifico mondo culturale), che viene messo alla prova nel
confronto con i preconcetti di un altro contesto culturale, ne risulta
un’interazione reciproca fra interpretante e oggetto di interpretazione, poiché
mutano sia i pregiudizi dell’interprete che il significato di ciò che viene
interpretato. L’attività conoscitiva è costituita da un rapporto attivo che
trasforma sia l’interpretante che l’oggetto di comprensione.
Conoscere, quindi, non è mai capire meglio ma capire diversamente, pertanto la
comprensione è una forma di interpretazione connessa ad un determinato
contesto storico culturale.
Thomas afferma che per interpretare l’agire sociale non sono tanto importanti i
dati reali oggettivi, quanto piuttosto le percezioni, le convinzioni e le credenze,
tramite cui gli attori sociali analizzano la situazione.
8
Berger e Luckman evidenziano l’importanza del processo di socializzazione:
quella di primo grado che caratterizza la vita del bambino, in cui vengono
appresi i ruoli sociali, e quella secondaria, tramite cui vengono interiorizzati
significati e valori. Forme culturali diverse possono svilupparsi solo a partire da
quest’ultima. La cultura appartiene quindi, al pari delle caratteristiche
biologiche, alla formazione dell’essere umano, tanto che questo può essere
considerato come un prodotto socio-culturale.
Garfinkel teorizza l’etnometodologia: il patrimonio di conoscenze di senso
comune usati dall’individuo per definire praticamente la propria realtà sociale.
Le regole in base cui si sviluppano i rapporti di comunicazione sociale sono
interiorizzate e comunemente condivise, questa è la condizione che fonda la
fiducia reciproca e la prevedibilità necessaria per stabilizzare gli schemi
interpretativi.
La rilevanza dei processi di socializzazione primaria (interrelazioni personali
familiari e di gruppo) e secondaria (che avviene nei sistemi sociali attraverso le
istituzioni educative e formative) è dimostrata da
Piaget. Afferma infatti che l’uomo possiede, già dalla nascita, un proprio
patrimonio genetico che lo predispone all’apprendimento, il modo in cui questo
sarà orientato e usato sarà però determinato dalla cultura, dalla società in cui
cresce e dalle sue prime esperienze.
Le strutture cognitive si sviluppano quindi in un processo graduale di
costruzione. Non esistono i fatti in sé, in quanto sempre soggetti ad
interpretazione, che avviene attraverso schemi logici. Le forme di mediazione
culturale connesse all’ambiente sociale, come il linguaggio, il rapporto con il
bambino (già a partire dalla modalità di parto e allattamento), le abitudini
vestimentarie, alimentari e i ruoli parentali, influiscono sul modo di percepire se
stessi e gli altri. L’individuo non è però un mero prodotto sociale.
L’individuo non può fare a meno di forme di determinazione offerte da sistemi
di significato culturali socialmente codificati: queste sono essenziali per la sua
sopravvivenza.
9
Ha la possibilità di creare delle difese verso l’ambiente elaborando un modello di
significati proprio, che può non coincidere con il sistema culturale dominante. Si
viene così a determinare una distanza tra mondo esterno, di significati
socialmente definiti, e interno, determinato dalle proprie risorse culturali, che
permette lo sviluppo di un rapporto con i simili e, allo stesso modo, la difesa
della propria diversità.
L’identità individuale si configura come ambivalente perché divisa tra il bisogno
di essere uguale agli altri, affinché si instauri una relazione fondata sulla
prevedibilità e aspettative reciproche, e, contemporaneamente, di differenziarsi
per distinguersi.
E’ possibile quindi individuare un sé personale, risultato di un’elaborazione
interna, sia conscia che inconscia, della propria esperienza, e un sé sociale,
immagine che il soggetto da di sé nei processi di comunicazione e interazione
con gli altri.
1.1.2 Lo straniero
Lo straniero è sempre stato generatore di ambivalenza: non appartiene alla
comunità eppure ha dei bisogni.
“L’ospite è una persona clamorosamente fuori luogo, che occorre in qualche
modo collocare all’interno della comunità”
1
Nell’antichità la figura dell’ospite-viaggiatore era sacra, perchè uomo informato
sul mondo, considerato alla stregua di un messaggero.
Frazer racconta che lo straniero era così sacro che a volte veniva sacrificato,
decapitato con un falcetto durante il raccolto del grano.
Per gli antichi Greci era sacro perché protetto dal dio Hermes, per questo
veniva ammesso alla partecipazione dei riti familiari. Nella Roma la carica
ambigua da lui generata è palesata dalla terminologia con cui veniva
identificato: hospes rappresenta l’ospite gradito con cui si scambiano i doni,
mentre in seguito assume una connotazione negativa divenendo hostis cioè
nemico.
1
D.Canestrini “Andare a quel Paese”2001
10
Con il Cristianesimo l’accoglienza va data incondizionatamente, a prescindere
dalla categoria sociale cui appartiene l’ospite, diviene un dovere, ma è
comunque un comportamento a rischio che necessita una compensazione, che
può essere data sotto forma di dono.
La figura sociale dello straniero, la sua specificità sociale e relazionale rispetto ai
membri del gruppo integrato, è stata oggetto di analisi da parte dei sociologi a
partire dagli inizi del ‘900. Sebbene gli siano attribuiti caratteri specifici pare che
non siano definibili se non in rapporto e in contrasto con ciò che sembra
definito, stabile e consueto.
Lo straniero diviene così metafora della diversità che può apparire in diverse
modalità di espressione sociale e culturale, costituendo sempre un sistema di
relazioni specifico e tipico.
Simmel in “Excursus sullo straniero” gli attribuisce un’elevata mobilità spaziale,
attitudine che lo rende elemento propulsore di mutamento sociale. Nella
relazione con la comunità ospitante, lo straniero, è metafora delle relazioni
esistenti fra le persone integrate. Le sue caratteristiche di mobilità e libertà, che
comportano una mancata fissazione all’interno di un preciso spazio sociale,
generano un’ambivalenza nei suoi confronti, determinata sia dai sentimenti
contrastanti che dalla dicotomia fra vicinanza e lontananza rispetto alla
comunità locale. E’ vicino perché inserito all’interno di essa e lontano in quanto
portatore di modi d’espressione, attività socio-economiche e cultura diversi.
Occupa perciò le posizioni lasciate libere dalla comunità, che sono nuove ma
necessarie.
L’ambivalenza scaturisce dall’equilibrio instabile tipico della relazione che si
instaura con la comunità ospitante, costituito, da un lato dalle similarità per le
caratteristiche generali (appartenenza umana), dall’altro dalle differenze
rispetto le forme sociali assunte rispetto ai gruppi integrati.
Lo straniero tende ad essere percepito a livello collettivo, come rappresentante
di una determinata comunità, piuttosto che come individuo a sé stante.
11
Il distacco che comporta la sua condizione gli permette di possedere
un’oggettività e una capacità di comprensione superiore a quella dei soggetti
integrati rispetto alle dinamiche relazionali e sociali della comunità stessa.
Una volta instaurata una relazione con il gruppo integrato, gli aspetti
ambivalenti di vicinanza/lontananza, dapprima segneranno cambiamento, poi
stabiliranno nuovi equilibri e forme di espressione socio-culturali.
Sombart considera la libertà che contraddistingue la posizione dello straniero
come il risultato della totale assenza di vincoli relazionali con la comunità
ospitante. Questa situazione spinge lo straniero al raggiungimento di precisi
obiettivi economici, sottoponendolo al discredito da parte membri integrati. Si
trova, però, a sperimentare l’assenza di significato e di riconoscimento rispetto
alla nuova società. Concepito come spirito libero, innovativo, privo di legami e
regole, si configura come soggetto in grado di generare processi di mutamento
sociale. E’ portatore di tradizioni e memorie estranee al gruppo integrato, per
questo instabili, si caratterizza, quindi, per una disposizione verso il futuro, di
cui il presente è già parte integrante, da cui scaturisce la sua “coscienza divisa”.
Lo straniero è per Sombart il vero promotore dello sviluppo sociale.
Znaniecki analizza il concetto di estraneità, che, solitamente, si
contraddistingue per la sua dimensione individuale e psicologica, in relazione
alle implicazioni sociali che genera, è perciò, in questo caso, intercambiabile al
concetto di straniero. L’ estraneità può riferirsi a tre diversi tipi di contesto: all’
appartenenza al gruppo, al contatto fra i gruppi umani, al contesto biologico e
culturale. Ispirandosi a Sumner e Keller, vede nella constatazione delle
differenze tra i gruppi umani l’origine dell’antagonismo messo in atto nei
confronti dello straniero.
L’ estraneità al sistema fa parte dei meccanismi di difesa in uso fra gruppi
interni ed esterni, ma lo straniero qui non viene a coincidere con l’outgroup, a
differenza da quanto sostenuto da Sumner, perché ci sono diversi gradi di
appartenenza al gruppo inoltre l’estraneità è dovuta alla disposizione percettiva
del gruppo stesso, alla constatazione di un’estraneità che non può essere
ricondotta a qualcosa di accettato.
12
L’estraneità connessa alla percezione della diversità è dovuta all’assenza di
relazioni tra gli individui, però, perchè la mancanza di relazioni determini un
sentimento di estraneità, ci deve essere un elemento di volontarietà e rifiuto
attivo del contatto. E’ poi impossibile stabilire se l’assenza di relazioni non sia
dovuta all’estraneità percepita. Ci sono gradi di estraneità che possono fondarsi
su gradi di diversità.
Ciò che dà origine all’estraneità non è una differenza oggettiva, ma
soggettivamente avvertita:nel contesto biologico-culturale ciò che costituisce la
diversità riguarda infatti il sistema di valori di appartenenza cioè norme, regole
di comportamento, stili di vita, organizzazione sociale. L’appartenenza ad un
diverso sistema di valori fa sì che noi percepiamo l’altro come straniero, da cui
prendiamo le distanze poiché potrebbe mettere in discussione il nostro sistema
di identificazione al gruppo. Non è tanto la biologia a determinare l’estraneità,
ma il sistema di riferimento sociale, di identificazione e soprattutto il suo
contesto valoriale. Per questo possiamo concepire la percezione dell’ estraneità
come l’individuazione di comportamenti sociali non conformi o non condivisi
negli altri.
Znaniecki analizza l’evoluzione sociale dell’antagonismo nei confronti dello
straniero. L’antagonismo è una tendenza sociale negativa che comporta la
messa in atto di azioni che implicano comportamenti sfavorevoli nei confronti
di un determinato soggetto. Può essere generato da un atteggiamento del
gruppo verso l’estraneo. L’altro, infatti,può rappresentare un sistema culturale
diverso con cui siamo costretti a confrontarci.
Il nucleo della percezione dell’estraneità consiste proprio nei modelli valoriali
dissimili constatati, da cui scaturisce l’antagonismo e quindi l’insieme di
atteggiamenti e azioni sfavorevoli allo straniero. Inizialmente si deve superare
l’indifferenza verso lo sconosciuto, solo in seguito a questa fase si potranno
assumere comportamenti sociali positivi o negativo nei suoi confronti.
Durante i primi contatti l’antagonismo messo in atto dal gruppo, o
dall’individuo, è di tipo difensivo: la tendenza è quella di evitare ogni tipo di
contatto, pur di poter preservare i propri valori dalla possibile contaminazione
13
dell’influsso straniero. Ciò implica un isolamento spaziale, tramite cui si definisce
uno spazio sociale a cui lo straniero non può partecipare. A questo momento si
succede un isolamento detto magico, che comporta la creazione di un codice
comunicativo e di relazioni segreto, noto solo al gruppo integrato, inaccessibile
allo straniero che viene così disorientato o neutralizzato, garantendo la
conservazione del gruppo stesso. Questa fase si evolve nell’ isolamento
spirituale:l’ aperta condanna dei valori dell’altro genera una nuova omogeneità
del gruppo impegnato nella difesa comune dall’estraneo. Se quest’ultimo riesce
a superare l’isolamento magico o spirituale, affermando i propri valori,
scaturisce una nuova forma di antagonismo, chiamato aggressivo.
La difesa del proprio sistema culturale è qui connessa direttamente
all’aggressione del modello altrui. Si tenta infatti di annullare il gruppo straniero
fino a cercare di privarlo delle proprie radici.
Per lui il timore della contaminazione caratterizza la storia dell’uomo fin dalle
popolazioni primitive.
Schutz analizza la figura dello straniero come condizione umana.
La sua attenzione è posta soprattutto sul contatto iniziale con la comunità
ospitante. Per lui la condizione di straniero è una metafora della diversità, che
include quindi anche chi non è conforme al gruppo integrato.
Il sistema di riferimento culturale e valoriale che si preserva grazie
all’educazione è parte integrante della memoria storica della comunità
costituendo un modello d’identificazione e orientamento. Molti meccanismi sono
impliciti, per questo non sono soggetti ad analisi. Ogni soggetto può mettere in
atto atteggiamenti differenti, a volte contrastanti in virtù del ruolo sociale
svolto, senza che ne sia consapevole.
L’identificazione culturale costituisce il mezzo che permette la riduzione della
complessità, evitando al soggetto la ricerca di nuovi modi e sistemi
d’interazione. Lo straniero, essendo escluso da questi modelli, può essere
definito come un “uomo senza storia”. La traduzione del modello culturale è
inscindibile dal processo di interazione che si sviluppa con il gruppo integrato,
quindi all’incertezza e instabilità percettiva si accompagna il tentativo di
14
traduzione, per cui lo straniero tenderà a notare più gli aspetti di incongruità e
incoerenza con il gruppo che non gli aspetti positivi. Si configura, quindi, come
un soggetto dalla fragile identità, rappresentando la condizione di uomo diviso
tra due culture, che potrà essere superata solo con la scelta tra una delle due
realtà e l’assimilazione al gruppo che sancirà definitivamente la fine della
condizione di straniero.
L’ambivalenza nei confronti dell’estraneo è data quindi dalla percezione della
dicotomia di vicino-lontano spaziale, inserito-emarginato che lo caratterizza e il
sentimento di curiosità-rifiuto che suscita.
Se da un lato è espressione di differenza che può destabilizzare il gruppo
integrato, dall’altro è fonte di identificazione in base a cui formarsi per contrasto
o similarità.
Per Elias lo straniero rappresenta la condizione umana nella società odierna,
mostrandone le precarietà sociali. I meccanismi difensivi che si attuano nei suoi
confronti non sono più finalizzati alla tutela dell’identità collettiva, quanto
piuttosto a quella individuale, il singolo si sente infatti minacciato da questa
figura, per lui destabilizzante, in quanto rappresentante di tutte le incertezze e
insicurezze individuali.
Formiamo la nostra identità in base ad “altri” significativi: referenti delle nostre
scelte e specchio dove ricercare conferma dell’immagine creata. Il rapporto con
l’altro deve essere sempre dialogico e di scambio perché sia costruttivo.
15
1.2 Teorie antropologiche della diversità delle
culture: dalla scoperta dell’America ad
oggi
Il problema del diverso diviene oggetto di discussione collettiva doverosa, per la
prima volta, nel Vecchio continente a partire dalla scoperta dell’America.
Il problema della condizione degli Indios si pone quando regnanti europei e
autorità religiose devono giustificare la politica di sfruttamento e schiavismo
messa in atto dai Conquistadores nel governare le terre appena scoperte.
Dal 1492 al 1530 avviene la fase della scoperta che coincide a quella della
conquista. A seguito di questo avvenimento, a causa del contatto con l’ ignoto,
sorgono dei problemi di tipo conoscitivo come:
Che natura hanno le Nuove Indie? Da chi sono abitate? Che specie animali e
vegetali ci sono?
Nasceranno però, successivamente, anche quesiti di ordine economico e politico
come la spartizione delle terre da parte dei Paesi colonizzatori che si concluderà
con la divisione del Nuovo Mondo fra spagnoli e portoghesi per volontà papale
(Bula intercaetera di Alessandro VI).
La questione dell’altro sarà oggetto di un fervido dibattito solo a partire dagli
anni 30 con la contrapposizione di due teorie: l’una, che ha come massimo
rappresentante J.G.Sepulveda, cronista di corte, pone gli Indios al di fuori della
condizione umana, l’altra sostenuta soprattuto da Las Casas riconosce la dignità
morale delle popolazioni indigene denunciando la violenza dei coloni europei.
E’ quasi paradossale come dagli stessi punti di partenza (le descrizioni
accreditate da parte dei due studiosi sono simili e realistiche) si arrivi a
sostenere un pensiero diametralmente opposto.
Di fronte a questa nuova realtà sorgono degli ostacoli da parte dei cronisti che
devono descrivere ciò che risulta inedito di fronte a cui, inevitabilmente,
estrapolano differenze e somiglianze rispetto alla realtà di riferimento cui
appartengono.
16
Laddove non ci sono altri testimoni né conoscenze il vedere diviene dunque
garanzia di veridicità.
La visione risulta però condizionata dalle aspettative e i valori personali e
sempre raffrontata al noto.
La descrizione della realtà è condizionata dall’osservatore, che ha modelli e
valori propri, dal pubblico cui si vuole riportare la visione, infine dal committente
che ha rilevanza fondamentale essendo colui cui si deve rendere conto del
proprio operato.
Gli antropologi si trovano di fronte ad un problema di traduzione della realtà
osservata:innanzitutto perché la scelta del presente etnografico occulta la
distanza temporale esistente tra tempo della ricerca e della scrittura, in secondo
luogo perché ponendosi come narratori invisibili e onniscienti eliminano ogni
distanza tra osservatore e lettore.
Prima di procedere, entrando nel merito delle principali questioni, è necessario
chiarire la terminologia utilizzata nel confronto con l’altro.
Il termine selvaggio risulta improprio se presuppone l’esistenza di un uomo
prima della civiltà. Ciò non è possibile in quanto il selvaggio possiede
linguaggio, organizzazione sociale, arte, religione e morale propri, quindi si
trova sempre all’interno di una civiltà.
Altrettanto inadeguato è l’uso del termine barbaro (letteralmente chi balbettava
perchè incapace di parlare correttamente il latino) contrapposto al civile.
La barbarie è infatti momento essenziale della civiltà.
Nemmeno il termine primitivo risulta chiaro: sarebbe etimologicamente il primo
uomo apparso sulla terra di cui si riscontrerebbero tracce nei selvaggi attuali.
Bisogna quindi considerare tali termini privi della connotazione negativa che
hanno assunto, riconducendoli al significato originario: selvaggio abitatore delle
selve, barbaro lo straniero, primitivo uomo dell’origine e non esponente dello
stato più basso dell’umanità.
Le prime testimonianze sulla popolazione locale ci giungono da Cristoforo
Colombo che, nel “Giornale di Bordo”, ne descrive la bellezza fisica facendo
17
riferimento ai canoni estetici classici. Aggiunge che essi sono buoni servitori,
pur non possedendo credenze religiose recuperabili, perché credono che Dio
v’è in cielo: hanno quindi una predisposizione a divenire buoni cristiani. E’ da
notare che, anche se “simpatici”, sono considerati come una merce da
sfruttare: infatti per Colombo la loro vita potrebbe essere dedicata alla
schiavitù.
Nelle osservazioni di cui abbiamo testimonianza il riferimento all’antichità
classica e al mito di Roma, come termine di paragone, sono ricorrenti anche se
possono essere utilizzati per finalità opposte: a volte per confermare la
superiorità europea, altre per dimostrare la dignità e bontà indigena.
Il frequente ricorso a paragoni non deve certo stupire poiché rientra nel quadro
della visione del cosmo del ‘500, secondo cui il mondo è stato creato da Dio
tutto uguale, la tendenza a ricercare somiglianze laddove l’uomo si trovi in una
parte del mondo diversa.
Dalle parole del cronista risulta inoltre chiaro l’intento di assoggettare la
popolazione al proprio potere. Evidente è l’influsso del committente nel
momento in cui si utilizzi un paradosso, cioè non avere forme di religiosità e
contemporaneamente credere che Dio esista, per giustificare una supposta
naturale inclinazione a divenire buoni cristiani.
Lo scopo dello sfruttamento economico si palesa nel momento in cui menziona
l’attività di schiavitù come possibile futuro per gli indigeni.
E’ chiaro che il navigatore, dovendo giustificare la sua presenza e compensare i
reali del patrimonio concessogli, veda l’altro dalle uniche due prospettive lecite:
quella religiosa (buoni cristiani) poiché era suo dovere evangelizzare, e quella
economica (predisposizione alla schiavitù).
Ancora più parziale risulta l’opera di Juan Gines de Sepulveda, cronista di
corte, che nel trattato “Sopra le giuste cause della guerra contro gli Indi”, deve
rispondere alle accuse di crudeltà mosse da Bartalomè de Las Casas alla corona
spagnola.
18
Per lui gli indigeni non sono uomini ma omuncoli perchè privi di cultura e leggi
scritte e di capi, di indole pacifica, e non facenti parte di una società.
Oltre a ciò l’usanza del cannibalismo,la pratica dei sacrifici umani e del suffragio
popolare per la nomina del re fa di loro degli uomini inferiori e indegni. Accetta
inoltre la teoria aristotelica della servitù naturale per cui gli Indios sono per gli
spagnoli ciò che erano i Barbari per i Greci. Non dice se essi siano forti o deboli
ma essendo schiavi per natura sono senz’altro robusti. Quindi per il cronista il
diritto di sottomettere con le armi è giustificato dal fatto che essi, per
condizione naturale, sono tenuti all’obbedienza: il perfetto deve dominare
sull’imperfetto(!).
Bartalomè de Las Casas è invece testimone diretto degli accadimenti locali,
essendo frate domenicano e vescovo della diocesi del Chiapas.
La sua figura è di notevole rilievo per almeno due ragioni fondamentali: è il
primo che denuncia la condizione di sfruttamento cui sono sottoposte le
comunità locali e il suo pensiero, pur non negando le reali attività della
popolazione, sarà alla base della costruzione del mito del buon selvaggio che
verrà alimentato soprattutto dall’Illuminismo in poi. Riguardo alla condizione
degli Indios rifiuta la possibilità che siano servi per natura, essendo nazioni civili
e organizzate quelle che si trova di fronte. Commette però l’errore di descriverli
più delicati fisicamente di quanto non siano, proprio per non dare adito alle
teorie filo-aristoteliche sulla loro natura che li volevano forti e robusti.
Per primo Las Casas ipotizza, nella sua opera ”Apologetica historia”,
l’uguaglianza fra tutti gli uomini. Afferma che i colonizzatori hanno rovinato gli
Indios, che sono forse superiori agli uomini dell’età classica poiché arrivano a
tutto ciò che è possibile per via naturale, il loro stile di vita così come è descritto
dal religioso richiama la mitica età dell’oro teorizzata da Esiodo.
Riguardo il quesito religioso, cioè se si possano salvare nonostante non credano
in Dio, risponde che si salveranno perché non ebbero mai notizia della religione
cristiana: la loro infedeltà non è una colpa, Dio non gli negherà la Grazia. Della
stessa opinione è lo storico Romeo che risolve la difesa dell’americano in quella