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categoria astratta, si riferisce ad una situazione reale e si risolve con
un giudizio concreto sullo stato mentale dell’imputato.
In termini naturalistici, l’imputabilità rappresenta un modo di essere
proprio di ogni individuo, caratterizzato dalla “capacità psichica”,
la quale è legata a due fattori: lo sviluppo adeguato all’età e la
sanità mentale, dai quali dipende il carattere libero e cosciente delle
azioni umane nella sfera del diritto.
La capacità mentale rappresenta, invece, il supporto naturale della
imputabilità e domina l’intera scena della vicenda penale. La si
ritrova sia nel momento formativo della legge, poiché il destinatario
tipico della norma penale è il soggetto capace di intendere e di
volere, in grado di apprezzare il comando e di osservarlo: in questo
caso l’imputabilità è intesa come “capacità di obbligo”; sia nel
momento commissivo del reato, in quanto la violazione cosciente e
volontaria del precetto provenga da un soggetto avente l’attitudine a
compiere un’azione penalmente rilevante nella specie prevista dalla
legge: in tal caso l’imputabilità è intesa come presupposto o
capacità di pena.
La questione sulla natura giuridica dell’imputabilità è, comunque,
ancora aperta. L’imputabilità, infatti, ha da un lato, evidenti rapporti
con la capacità di diritto penale, che consiste nella idoneità
dell’uomo di essere titolare di diritto penale, cioè di essere
3
giudicato e condannato per un reato commesso, tanto che alcuni
considerano la capacità di diritto penale il presupposto
dell’imputabilità. Dall’altro non sono meno evidenti i rapporti tra
imputabilità e capacità di agire penale, che consiste nella attitudine
dell’individuo a compiere atti illeciti dai quali consegue l’effetto
della pena, altrimenti detta capacità di reato in quanto il soggetto
agente esercita personalmente l’attitudine a commettere la
violazione della legge e ne assume direttamente le conseguenze.
Il codice penale vigente adotta il criterio naturalistico della
volontarietà dell’azione umana rispetto al reato, nel presupposto che
l’uomo normale, cioè il soggetto che si adegua alle regole, possa
agire liberamente. Di conseguenza, l’adozione di tale criterio
consente di affermare il principio della responsabilità personale e di
giustificare razionalmente la punizione del reo. Infatti il Codice
Penale, dopo aver fissato la regola per cui “nessuno può essere
punito per un fatto preveduto dalla legge come reato se, al
momento in cui lo ha commesso, non era imputabile”, spiega che
“è imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere” (art. 85
C.p.).
La capacità di intendere consiste nell’attitudine a rendersi conto
degli atti compiuti, a comprenderne i motivi, il significato e le
relazioni con il mondo esteriore e quindi a prevedere la portata e le
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conseguenze della propria condotta, la così detta coscienza
dell’agire. Il soggette agente, infatti, avendo la capacità di
intendere, è in grado di discernere rettamente se le sue azioni siano
buone o cattive (valore morale), siano lecite o illecite (valore
giuridico), siano utili o dannose all’interesse comune (valore
sociale). Quello che più conta ai fini dell’imputabilità è, dunque, la
consapevolezza di compiere un’azione contraria e dannosa alla
collettività, conoscerne cioè il carattere antidoveroso e proibito in
vista degli interessi sociali violati dal proprio comportamento.
Per capacità di volere si intende la facoltà di autodeterminarsi in
base a motivi conosciuti e di scegliere liberamente la condotta
adatta allo scopo, ossia la libertà dei propri atti. Capacità di volere
vuol dire anche capacità di inibirsi, di resistere agli impulsi moventi
e di sapere frenare le forze impellenti dei sentimenti e del
tornaconto personale. La volontà può avere, allora, una
manifestazione esteriore, il fare, quando l’individuo prende la
decisione tra tendenze diverse e compie un’azione nella
consapevolezza del fine da raggiungere; ed una manifestazione
interiore, il non fare, quando egli, sapendosi dominare, si astiene
dall’agire pur essendo libero di farlo, perciò anche l’azione inibita
dai propri freni rappresenta un atto di volontà.
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Affinché sussista l’imputabilità è necessario il contemporaneo
possesso di entrambe le facoltà di intendere e di volere, la cui
sintesi condiziona la capacità di conformarsi alle scelte fatte in base
a motivi consapevoli, mentre per la esclusione della imputabilità
basta invece la mancanza di una sola delle due, perché un’azione
volontaria non è ammissibile senza la rappresentazione cosciente
dell’atto voluto. La legge ha posto, dunque, alla base
dell’imputabilità coscienza e volontà, essendo queste le facoltà più
importanti nel condizionare il comportamento dell’uomo.
Problema individuale e concreto dell’imputabilità si presenta solo
quando l’uomo ha commesso un’azione delittuosa, poiché è allora
che occorre accertare le facoltà mentali ai fini dell’applicazione
della pena o della misura di sicurezza o di entrambe. In ogni caso
l’imputabilità va riferita al momento della commissione del fatto,
ossia al tempo in cui il soggetto ha esplicato l’azione criminosa ed
ha commesso consapevolmente la violazione di cui egli deve
rispondere, cioè la sintesi della sua condotta.
L’imputabilità, legata com’è alla capacità mentale, segue il corso
naturale della vita umana: si acquista all’epoca della pubertà, si
perde o si attenua col sopraggiungere di fatti patologici e si estingue
con la morte.
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2. Fondamento dell’imputabilità
La dottrina discute vivamente intorno alla ragione per la quale è
richiesta l’imputabilità. La teoria tradizionale fa appello al libero
arbitrio e alla concezione retributiva della pena. La pena, in quanto
castigo per il male commesso ha un senso se il soggetto ha agito
liberamente e con piena consapevolezza. La imputabilità
esprimerebbe,dunque,i requisiti perché la condotta del soggetto
possa essere considerata consapevole e libera. Il soggetto, che ha
uno sviluppo intellettuale insufficiente o è infermo di mente, non è
punibile perché non può agire con piena consapevolezza e libertà e,
perciò, non può essere biasimato per il male commesso
1
. Al
contrario, gli autori della Scuola positiva negano il libero arbitrio e
la funzione retributiva della pena. Il determinismo causale non
lascerebbe spazio per la libertà del volere, considerata come una
illusione psicologica cagionata dall’ignoranza. Non avrebbe senso
perciò castigare il reo con la pena. In una rigida prospettiva
positivista, il diritto penale dovrebbe fare a meno dei concetti di
imputabilità e di pena, per sostituirli con quelli di pericolosità e di
1
SCARANO, Libera volontà e libero arbitrio nel diritto penale, Milano, 1937; BETTIOL-
PETTOELLO MANTOVANI, Diritto penale, cit., p. 459 ss. .
7
misura di sicurezza
2
. Una larga corrente intermedia ritiene che sia
opportuno evitare dispute filosofiche e psicologiche, dal momento
che la scienza del diritto penale può egualmente trarre le sue
conclusioni in tema di imputabilità, qualunque sia la soluzione data
al problema del libero arbitrio. In questo ambito di idee, la
questione viene impostata direttamente sul piano pratico. A
prescindere da quella che possa essere la soluzione teorica in tema
di libero arbitrio, si tratta di decidere se sia opportuno differenziare
le sanzioni penali, in rapporto alla presenza o meno di quel
coefficiente psichico che viene indicato come capacità di intendere
e di volere
3
. Purtroppo,neanche sul piano pratico le opinioni sono
del tutto concordi. Tuttavia,vi si può ritrovare un nucleo comune. I
soggetti che, secondo il modo comune di pensare, sono dotati di
capacità di intendere e di volere, non possono, in sede penalistica,
essere trattati alla stessa stregua degli incapaci. Contro una
soluzione del genere, non solo la coscienza sociale si ribellerebbe,
ma le stesse scienze criminologiche avrebbero da ridire, non fosse
altro perché il trattamento rieducativo deve essere diverso nei due
casi. Se l' imputabilità ha diritto di cittadinanza nel sistema penale,
ciò si deve alla esigenza di proporzionare la sanzione alla
2
Cfr. FERRI,La teoria dell’imputabilità e la negazione del libero arbitrio, Firenze, 1878.
3
GRISPIGNI, Diritto penale italiano, Milano, 1952, I, p.108 s.; FROSALI, Sistema, I, cit., p.
53 s.; ANTOLISEI, Manuale, cit., p. 611 ss.; SCHMIDHAUSER, Strafrecht, cit., p. 285 s.;
TAGLIARINI, Ripensamento su alcuni rapporti fra imputabilità, colpevolezza e pericolosità,
in Scritti Dell’Andro, II, cit., p. 941 .
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personalità del reo. Allo stato attuale del nostro diritto positivo,
questa proporzione è ottenuta sottoponendo a sanzioni dalla finalità
principalmente afflittiva i soli soggetti capaci di intendere e di
volere. Per converso, i soggetti incapaci di intendere e di volere
possono andare incontro soltanto alle sanzioni che mirano
principalmente alla emenda del reo.
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3. Cause di estinzione dell’imputabilità
Il Codice Penale stabilisce i casi in cui l’imputabilità è esclusa e
quelli in cui, pur essendo l’autore imputabile, la pena è ridotta.
Le cause di esclusione o di attenuazione, che tolgono o
diminuiscono la capacità di intendere o di volere, si distinguono in
due gruppi: cause fisiologiche, dipendenti cioè dall’età del soggetto;
cause patologiche, dovute a infermità (vizio di mente,
sordomutismo, intossicazione cronica da alcol o da stupefacenti), o
stati tossici acuti (ubriachezza, stupefazione).
Gli stati di incapacità procurata e preordinata, sono regolati dal
Codice Penale in modo da prevedere, nel primo caso l’incapacità
indotta in altra persona e, nel secondo, l’incapacità prodotta su sé
stessi, allo scopo di far commettere o di commettere un reato.
L’incapacità procurata è definita dal Codice Penale all’art. 86, per
cui “se taluno mette altri nello stato di incapacità di intendere o di
volere, al fine di fargli commettere un reato, del reato commesso
dalla persona resa incapace risponde chi ha cagionato lo stato di
incapacità”. E’ evidente che la persona resa incapace è solo uno
strumento inconsapevole dell’altrui potere. L’incube, oltre al delitto
commesso dalla persona resa incapace, risponderà anche del delitto
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di incapacità procurata mediante violenza (art. 613 C. p.). Il
succube, quando lo stato di incapacità è totale, andrà assolto;
altrimenti, in caso di incapacità di intendere o di volere solo
parziale, risponderà anch’egli del reato commesso.
La capacità mentale può essere soppressa con qualsiasi trattamento
idoneo, ad esempio, somministrando alcolici, stupefacenti o
sostanze ad azione analoga oppure agendo con la suggestione. In
ogni caso lo stato di incapacità deve essere procurato senza il
consenso dell’autore materiale del fatto.
Quanto alla capacità preordinata, l’art. 86 del Codice Penale
sancisce la regola secondo la quale l’imputabilità non è esclusa in
“chi si è messo in stato di incapacità di intendere o di volere, al
fine di commettere un reato o di prepararsi una scusa”. Il
fondamento dell’incriminazione sta nel principio delle Actiones
Liberae in Causa, riguardante le azioni delittuose compiute quando
il soggetto agente non aveva la capacità di intendere o di volere, ma
le aveva entrambe nel momento in cui egli si è procurato
intenzionalmente tale stato: si tratta, in tal caso, di azioni
involontarie nel momento consumativo, ma volontarie o libere nella
loro origine. In altri termini il soggetto si serve di sè stesso per
compiere il reato.
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L’incapacità preordinata non giova al colpevole, che risponde a
titolo di dolo del reato commesso; è il caso di chi, sapendo di non
essere in grado di compiere il delitto in condizioni normali, prende
sostanze eccitanti o allucinogene per commettere una rapina o un
omicidio; oppure di chi si procura l’incapacità per poi addurla come
scusante. Questa disposizione si applica, inoltre, anche ai reati
omissivi, quando il soggetto si pone in uno stato di narcosi allo
scopo deliberato di non compiere un’azione giuridicamente dovuta.
L’età minore è una causa di esclusione dell’imputabilità. Partendo
dal presupposto biologico che lo sviluppo mentale dell’uomo
procede per gradi dalla nascita fino al raggiungimento della
completa maturità psichica, il Codice Penale distingue tre periodi:
dalla nascita fino ai quattordici anni l’imputabilità è esclusa in
modo assoluto; dai quattordici anni compiuti fino ai diciotto anni
l’imputabilità va provata caso per caso; ed, infine, dai diciotto anni
compiuti in poi l’imputabilità è presunta perché si ritiene che
l’individuo maggiorenne abbia raggiunto il pieno possesso delle
facoltà mentali.
Il vizio di mente comprende quelle condizioni patologiche che
nell’individuo ultraquattordicenne escludono o attenuano
l’imputabilità, togliendo in tutto o in gran parte la capacità di
intendere o di volere. Tale espressione, usata dal Codice Penale,
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tiene distinto il Morbus dal Vitium, ossia sposta il concetto dalla
causa all’effetto, in quanto il vizio di mente è la risultante di un
disordine mentale prodotto da cause patologiche.
Il Codice Penale, all’art. 88, stabilisce che “non è imputabile chi,
nel momento in cui ha commesso il fatto, era, per infermità, in tale
stato di mente da escludere la capacità di intendere o di volere”. Il
vizio di mente totale ricorre, dunque, quando un processo morboso
di qualsiasi natura si ripercuote sulla sede delle funzioni psichiche e
le turba in modo da togliere al soggetto agente la capacità di
intendere o quella di volere o entrambe.
L’infermità che da luogo al vizio di mente può consistere in
un’alterazione psichica o fisica, funzionale o organica, acuta o
cronica, transitoria o permanente, continua o accessionabile,
congenita o acquisita; vi rientrano perciò le malattie psichiatriche,
quelle cerebrali e quelle somatiche. In ogni caso deve trattarsi di
un’infermità, ossia di stato patologico, che agisca in vario modo tale
da perturbare l’attività intellettivo-volitiva. L’esistenza del vizio di
mente deve essere valutata in relazione al soggetto, cioè in base alla
natura e al grado dell’alterazione psichica, ed in relazione al fatto
compiuto, in modo che esista congruenza tra l’anomalia mentale, il
comportamento del soggetto e la specie del reato commesso; in
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mancanza di questa relazione si potrà dubitare del vizio totale e
ammettere eventualmente il vizio parziale.
Il vizio di mente si dice totale quando la capacità di intendere o di
volere manca in modo assoluto; mentre è parziale quando la
capacità di intendere o di volere non è del tutto esclusa ma è
grandemente diminuita. Si ha, poi, vizio permanente se esso
dipende da un turbamento psichico protratto nel tempo in rapporto
con la stabilità e con la durevolezza dell’infermità che lo cagiona; si
ha vizio temporaneo se il disordine psichico è fugace, momentaneo,
transeunte, come avviene negli stati acuti infettivi o tossici.
La natura permanente o temporanea del vizio di mente non ha
rilievo ai fini dell’imputabilità, poiché un’alterazione mentale anche
transitoria può escludere l’imputabilità se è presente nel momento
in cui il soggetto ha commesso il fatto. Ha importanza, invece, il
grado totale o parziale del vizio, perché il primo esclude
l’imputabilità, mentre il secondo la lascia sussistere pur attenuando
la pena. Ha, inoltre, rilievo la distinzione tra malattia psichica o
somatica in ordine all’applicazione delle misure di sicurezza,
poiché il proscioglimento per totale infermità di mente rende
obbligatorio il ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario qualora
persista la pericolosità sociale derivante dall’infermità mentale
stessa, mentre tale riserva non sussiste nell’ipotesi di una malattia
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infettiva acuta che abbia prodotto una temporanea incapacità di
intendere o di volere.
Per quanto riguarda il vizio parziale di mente, previsto dall’art 89
del Codice Penale, affinché esso sussista occorre uno stato
patologico grave e di intensità tale da diminuire considerevolmente
il funzionamento dell’intelletto o della volontà. Il Codice Penale
basa la differenza tra vizio totale e vizio parziale, quest’ultimo
definito anche come semi-infermità mentale, su di un criterio
quantitativo, con esplicito riferimento al grado di riduzione della
capacità intellettivo-volitiva, da valutarsi con un giudizio di
approssimazione. Tuttavia non può trascurarsi il criterio qualitativo,
fondato sulla natura clinica dell’infermità. Infatti, una stessa
malattia mentale esclude o riduce i poteri dell’intelletto o della
volontà secondo l’entità delle sue manifestazioni, però in altri casi il
grado di incapacità mentale dipende dalla natura della malattia e
dalla qualità delle sue manifestazioni.
Circa la possibilità di applicare al vizio parziale di mente talune
attenuanti è opinione prevalente in dottrina e in giurisprudenza che
vi siano compatibilità con la diminuente della provocazione, in
quanto il seminfermo di mente può essere in grado di sentire con
maggiore intensità l’eventuale ingiustizia di un comportamento
altrui. Dubbia è, al contrario, la possibilità di porre a carico del
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seminfermo di mente l’aggravante dei motivi abbietti o futili, che
tali potrebbero non apparire nella mente sconvolta di costui.
L’imputabilità del sordomuto è così regolata dal Codice Penale:
“non è imputabile il soggetto che, nel momento in cui ha commesso
il fatto, non aveva, per causa della sua infermità, la capacità di
intendere o di volere”, art. 96. La pena è diminuita se la capacità di
intendere o di volere è grandemente scemata, ma non esclusa.
Questa disposizione ha voluto stabilire il principio che il
sordomutismo in sé non costituisce a priori una causa che influisce
sull’imputabilità, perciò spetta al giudice stabilire caso per caso se
tale infermità abbia modificato in varia misura la capacità di
intendere o di volere. Al sordomuto spetta pertanto lo stesso
trattamento riservato ai soggetti infradiciottenni ed è chiaro che
questo trattamento riguarda solo i sordomuti e non coloro che sono
sordi ma non muti o muti ma non sordi.
Vi sono due forme cliniche, il sordomuto congenito e quello
acquisito, che vanno considerate separatamente ai fini
dell’imputabilità. Il sordomutismo congenito consiste in un
mutismo determinatosi per una sordità innata o comparsa nei primi
anni di vita. In tali casi il sordomutismo può esercitare un’influenza
negativa sullo sviluppo psichico dell’individuo, causando un ritardo
dell’intelligenza e delle altre facoltà mentali dovuto alla difficoltà di