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Approfondire il rapporto tra tecnica e cultura con un particolare riguardo
alle semantiche assunte dall’automobile muovendo dalla sua invenzione fino ad
arrivare ai giorni nostri è, a mio avviso, centrale per una tesi di sociologia della
conoscenza che abbia per oggetto l’auto e la mobilità.
Il primo capitolo è una disquisizione sull’interpretazione del rapporto tra
tecnica e cultura nel ‘900 analizzando il pensiero di alcuni dei maggiori
intellettuali del periodo. Si fa riferimento principalmente alla visione
dicotomica che ha interessato la tecnica, ossia alle due immagini principali con
le quale gli intellettuali del secolo passato si sono identificati: la prima
immagine è quella della tecnica ritenuta onnipotente e cattiva, che può tutto,
che trasforma ogni stato di cose dato rendendolo conforme ad un disegno. Si fa
riferimento alle tecniche pesanti, sporche, produttive che sono l’applicazione
pratica di scienze come la meccanica, la chimica, la fisica. La tecnica allora
appare come fredda, calcolatrice, che guarda solo al risultato. La mossa
comune a tutta la riflessione sulla tecnica novecentesca è quella secondo la
quale parlare di tecnica implica necessariamente parlare di modernità. Le
somiglianze fra l’una e l’altra appaiono molte e significative: come la
modernità, la tecnica elabora un’ideologia del progresso, di una conquista
sempre maggiore a favore dell’uomo; tende a tramandare solo la storia dei
vincitori (in questo caso solo le tecniche che si sono affermate); induce un
consenso inconsapevole dettato dai miglioramenti materiali della vita che
realizza. Tuttavia le somiglianze si traducono nel fatto che accanto a possibilità
enormemente allargate ci troviamo di fronte anche a rischi più grandi.
La seconda immagine elaborata dagli intellettuali nel corso del Novecento
è quella decisamente positiva: qui la tecnica è meravigliosa, sovrumana, è la
conquista del possibile e dell’impossibile, è il superamento del limite. E’
un’immagine diffusa non tanto fra i filosofi, quanto fra gli scienziati, i
tecnologi e soprattutto nel senso comune. La tecnica è vista in questo caso
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come una bacchetta magica, è l’applicazione pratica di una scienza teorica.
L’apoteosi, la divinizzazione del presente e del futuro, la concezione del nuovo
come valore sono connesse a questa immagine in modo essenziale. Come nella
prima immagine la tecnica è onnipotente solo che qui è vista come benefica e si
identifica con ogni superamento di tecnologie precedenti. L’autonomia della
tecnica rappresenta il tratto comune ad entrambe le immagini sebbene la prima
ne attribuisca valore negativo e la seconda un valore positivo.
Si sviluppa così il discorso sul rovesciamento dei mezzi con i fini citando
autori come Hans Jonas, Lewis Mumford e Gunther Anders con la sua
megamacchina. Viene poi la volta della scuola di Francoforte con Habermas,
Horkeimer e Marcuse.
Heidegger poi vede la tecnica come disvelamento e la distingue
dall’essenza della tecnica che lui identifica con la metafisica. Secondo l’autore
la tecnica è imposizione poiché l’uomo è provocato da una potenza che si
manifesta nella tecnica ma che egli non può padroneggiare.
Gehlen, al contrario, ha una visione antropologica della tecnica, e fa
derivare dalla natura umana la produzione tecnologica, senza la quale l’uomo
non avrebbe potuto affermarsi. La tecnica, dunque, è stata uno dei più potenti
fattori culturali che hanno consentito all’uomo di compensare la sua deficienza
biologica e di adattarsi a tutti gli ambienti e di concettualizzare le delusioni.
Nell’ultimo paragrafo sul capitalismo e il crollo delle ideologie parlo della
razionalità tecnica in contrapposizione all’ideologia poiché esiste un rapporto
dialettico tra le due. Ogni ideologia, sia essa religiosa, politica, sociale, tende a
pensare se stessa come immutabile e capace di attraversare gli eventi della
storia senza farsi scalfire. Nel caso dovesse rinunciare ai suoi nuclei teorici di
fondo, perché smentiti dalla storia, l’ideologia si autodissolverebbe. La
razionalità tecnica, al contrario, ponendo se stessa fin dall’origine come
razionalità ipotetica, accetta di essere smentita dalla storia e, di fronte al
verificarsi di questa eventualità, è disposta a modificare quella parte di sé che
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dovesse essere smentita. Questa disponibilità è ciò che rende la razionalità
tecnica, a contrario dell’ideologia, formalmente eterna pur nella variazione
delle sue procedure, essendo tale variazione il suo punto di forza.
Il secondo capitolo è a carattere tematico e metto in evidenza alcuni
approcci allo studio dell’automobile e della mobilità in relazione alla società
con particolare riguardo agli studi di John Urry, un professore della Lancaster
University che si è dedicato alla ricerca di un nuovo paradigma della mobilità.
Partendo dall’analisi Path Dependence come metodologia per la ricerca
sociologica proseguo con la teoria della complessità che offre una nuova serie
di strumenti concettuali rivolti a spiegare la diversità e i cambiamenti che la
globalizzazione impone alle società contemporanee. La teoria della complessità
offre nuovi modi di pensare il classico dilemma delle scienze sociali, in
particolare, mi riferisco alla tensione tra la ricerca di una teoria generale e il
desiderio di conoscenze specifiche e contestuali. Il terzo paragrafo è dedicato
all’analisi dell’individuo e della struttura influenzati dalla logica emozionale
dell’automobile, in particolare evidenzio l’effetto paradossale di libertà e
coercizione che l’automobile ha sulla vita sociale. L’automobile obbliga ad
un’intensa flessibilità, forza le persone a gestire piccoli frammenti di tempo in
modo da contrastare i vincoli spazio-temporali che essa stessa produce. L’uomo
cerca, con l’auto, maggiore libertà da quei vincoli che la stessa automobile
produce. Nell’ultimo paragrafo espongo quelle che vengono definite “le tre età
dell’automobile” partendo dalla logica di status symbol, per poi passare alla
produzione di massa fino ad arrivare all’automobile come oggetto di
interazioni, sia chiaro che le tre fasi non sono indipendenti l’una dall’altra ma
ognuna rappresenta un superamento di quella precedente.
Nel terzo capitolo analizzo gli elementi innovativi della teoria di Urry
ossia il significato di ibrido come fusione tra componenti umane e meccaniche
e la sua legittimazione nel sistema dell’automobilità. Ho utilizzato un fatto di
cronaca per dimostrare la validità dell’impostazione teorica di Urry, il quale
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considera i sensi come determinanti nell’orientare l’azione dell’ibrido.
Successivamente ho definito il sistema sociale partendo dalla teoria dell’azione
sociale di Parsons, passando per i sistemi autopoietici di Luhmann e poi ho
spiegato l’idea di sistema di Urry mutuando il pensiero di Giddens
sull’ontologia sociale della prassi, con la quale l’Autore vuole superare la
visione della struttura e dell’agire come elementi contrapposti di un dualismo,
considerando tali termini inseparabili, complementari di una dualità. Ciò
costituisce un mutamento di ordine ontologico ed epistemologico e individua
un nuovo oggetto per l’analisi sociologica. Quello che deve essere compreso
non è come la struttura determini l’azione o come una combinazione di azioni
crei la struttura, ma come l’azione venga strutturata nei contesti quotidiani, nel
nostro caso come l’individuo possa far parte del sistema dell’automobilità.
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CAPITOLO I
IL RAPPORTO TRA TECNICA E CULTURA NEL
PENSIERO FILOSOFICO E SOCIOLOGICO
CONTEMPORANEO
1. Come hanno interpretato la tecnica gli intellettuali del novecento?
Per alcuni la tecnica è amica, per altri rappresenta una minaccia oscura: nei
tempi vicini a noi e nella vita di tutti i giorni, per alcuni si identifica nel
computer che semplifica la scrittura, mentre per altri è la causa
dell’inquinamento delle città in cui viviamo. I testi filosofici più apprezzati
hanno sostenuto posizioni del secondo tipo.
Quando parlano della tecnica come attività generalissima dell’uomo, gli
intellettuali del secolo appena passato e di questo secolo fanno riferimento ad
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immagini diverse della tecnica che, schematizzando, si possono ridurre a due: la
prima è quella di una tecnica onnipotente e cattiva; la seconda è quella di una
tecnica onnipotente ma buona.
La prima immagine è quella della tecnica che può tutto, che trasforma ogni
stato di cose dato rendendolo conforme ad un disegno. Si fa riferimento alle
tecniche pesanti, sporche, produttive che sono l’applicazione pratica di scienze
come la meccanica, la chimica, la fisica. La tecnica allora appare come fredda,
calcolatrice, che guarda solo al risultato.
In gran parte delle immagini della tecnica presenti nel novecento, questa
viene collegata in modo forte alla modernità. Si sostiene che la tecnica sia nata
con la modernità, per diventare poi un elemento ineliminabile dell’età
contemporanea. In questo caso la tecnica, come la modernità, è descritta con le
caratteristiche della precisione, matematizzazione, oggettività, progettualità,
dominio, sfruttamento, progresso, utopia, democrazia e anche di
antropocentrismo. La mossa comune a tutta la riflessione sulla tecnica
novecentesca è quella secondo la quale parlare di tecnica implica
necessariamente parlare di modernità. Le somiglianze fra l’una e l’altra
appaiono molte e significative: come la modernità, la tecnica elabora
un’ideologia del progresso, di una conquista sempre maggiore a favore
dell’uomo; tende tramandare solo la storia dei vincitori (in questo caso solo le
tecniche che si sono affermate); induce un consenso inconsapevole dettato dai
miglioramenti materiali della vita che realizza. Tuttavia le somiglianze si
traducono nel fatto che accanto a possibilità enormemente allargate ci troviamo
di fronte anche a rischi più grandi.
La seconda immagine elaborata dagli intellettuali nel corso del Novecento
è quella decisamente positiva: qui la tecnica è meravigliosa, sovrumana, è la
conquista del possibile e dell’impossibile, è il superamento del limite. E’
un’immagine diffusa non tanto fra i filosofi, quanto fra gli scienziati, i tecnologi
e soprattutto nel senso comune. La tecnica è vista in questo caso come una
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bacchetta magica, è l’applicazione pratica di una scienza teorica. L’apoteosi, la
divinizzazione del presente e del futuro, la concezione del nuovo come valore,
sono connesse a questa immagine in modo essenziale. Il presente tecnico non è
paragonabile con un’altra qualsiasi epoca non tecnica: oggi si vive meglio, si
muore più tardi, si nasce in modo più sicuro, si domina più efficientemente lo
spazio, si sfruttano più efficientemente le risorse naturali, si adeguano meglio i
mezzi agli scopi. L’ottimista è convinto che i guai provocati dalla tecnica
accadono sempre altrove e non lo riguardano mai direttamente. Come nella
prima immagine la tecnica è onnipotente solo che qui è vista come benefica e si
identifica con ogni superamento di tecnologie precedenti. La via della tecnica è
quella di un potere che non conosce ostacoli che procede in linea retta ad
andatura più che costante.
La tecnica possiede una caratteristica comune ad entrambe le immagini:
l’autonomia, l’unica differenza è che la prima immagine le attribuisce valore
negativo mentre la seconda le attribuisce valore positivo.
1.1 L’autonomia della tecnica
In Il principio responsabilità Hans Jonas ha dato questa definizione
dell’autonomia della tecnica:
[…]L’esperienza ci ha insegnato che gli sviluppi di volta in
volta avviati, con obiettivi a breve termine, dal fare tecnologico
presentano la tendenza a rendersi autonomi, ossia ad acquisire una
propria dinamica coattiva, un impeto automatico in forza del quale
non soltanto diventano irreversibili, com' è stato detto, ma acquistano
una funzione propulsiva al punto da trascendere la volontà e i piani
degli attori. Ciò a cui un tempo è stato dato avvio ci sottrae di mano la
legge dell’agire e i fatti compiuti sfociano nella normatività della
coazione a ripetere (…) qui più che altrove si verifica che, mentre
siamo liberi di fare il primo passo, al secondo e a tutti gli altri
successivi siamo già schiavi[…] (Jonas 1990, 41).
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Le parole di Jonas riportano al tema della tecnica che da serva si è fatta
padrona dunque del rovesciamento dei fini con i mezzi, al quale ha fatto
riferimento spesso la cultura umanistica.
Nello stesso testo però, Jonas sostiene la tesi secondo la quale gli oggetti
tecnici sono dei puri mezzi: gli oggetti inanimati non possiedono uno scopo
proprio ma solo lo scopo di chi li fabbrica. A prima vista sembra di trovarsi di
fronte a due tesi opposte fra loro, invece la tesi secondo la quale la tecnica è un
mero strumento non è in contraddizione con la tesi che vede l’autonomia della
tecnica. Le due posizioni sono entrambe presenti nella filosofia che riflette sulla
tecnica nel Novecento. Succede che la prima si rovescia nella seconda ossia la
tecnica come strumento fino a quando era poco sviluppata si trovava sotto il
pieno controllo dell’uomo, poi nel corso della storia diventa autonoma, acquista
scopi propri che alla fine diventano prevaricanti come scrive Lewis Mumford:
[…]Più che strumento d'efficacia pratica, la macchina dal 1750
in poi fu uno scopo a sé stante; progettata apparentemente per spianare
le vie dell’esistenza, la macchina rappresentò in realtà un obiettivo
valido in sé e per sé agli occhi dell’industriale, per l’inventore e per le
classi che con loro cooperavano[…] (Mumford 1968, 375).
La correzione dei mali della tecnica non può essere affidata alla tecnica
stessa e i due autori che ho citato sono d’accordo su questo punto: secondo
Mumford occorre un potere politico più forte per guidare la tecnica; secondo
Jonas la tecnica va riportata sotto il controllo della società.
Osvald Spengler inserisce la tesi dell’autonomia della tecnica nella
teorizzazione dell’Occidente e del suo tramonto. Il fatto che il mondo della
tecnica possieda una logica a parte si traduce nel termine ‘destino’:
l’inesorabilità per la quale ogni scoperta ne esige altre, senza nessun rapporto
con i bisogni e desideri dell’uomo.
La tesi dell’autonomia della tecnica è molto presente in L’operaio di Ernst
Junger (1932) il quale è convinto che l’ambito di quanto è umano possa e debba
modellarsi in futuro sull’esempio di quanto è meccanico: il mondo si avviava, a
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suo parere, a perdere quegli aspetti d' individualità e irregolarità dovuti alla
presenza dell’elemento umano. Lui era favorevole all’ingresso della tecnica nel
nostro mondo e non aveva rimpianti per il mondo dei valori e dell’individuo.
Gunther Anders afferma che gli apparecchi non sono più mezzi:
[…]è escluso che rappresentino ancora dei ‘mezzi’. Perché il
mezzo è per essenza qualche cosa di secondario; cioè è susseguente
alla libera determinazione del fine da raggiungere; è introdotto ex post
alla scopo di ‘mediare’ quel fine. Non sono ‘mezzi’ ma decisioni
preliminari: decisioni che vengono prese nei nostri riguardi prima che
tocchi a noi decidere. E, per essere precisi, non sono ‘decisioni
preliminari’, ma la decisione preliminare[…] (Anders 1963, p 12).
Inesorabile, automatica, assoluta e ferrea: questa è la logica della tecnica
che ci schiaccia completamente. Secondo Anders non si può più parlare di
singoli apparecchi in quanto le macchine esistenti tendono a diventare pezzi di
una sola macchina: è la megamacchina che possiede una propria volontà di
potenza che le permette di espandersi in modo inarrestabile secondo una logica
interna. Questo sistema tecnico è diventato il nostro ambiente naturale e come
tale non possiamo farne a meno.
1.2 La Scuola di Francoforte
Jurgen Habermas sosteneva che a differenza di quanto la tecnocrazia e i
tecnocrati vogliono far credere, la tecnica non va affatto avanti con le proprie
forze. Le scelte sono sempre orientate politicamente, anche quando vengono
mascherate da scelte ‘tecniche’. Qui l’autonomia della tecnica è solo apparente,
coincide in realtà con la falsa coscienza. Le tecniche non sono affatto
indifferenti a significati sociali e culturali, ma sono sempre di destra o di
sinistra, di una classe o di un’altra. Non è tecnicamente che le tecniche sono
diverse fra loro, ma lo sono per i significati politici e sociali che esse