2
cui Moretti svolge solo il ruolo di interprete (Padre padrone, Paolo e Vittorio
Taviani, 1978; Riso in bianco: Nanni Moretti atleta di se stesso, Marco Colti,
1984; Domani accadrà, Daniele Luchetti, 1988; Il portaborse, Daniele Luchetti,
1991; La seconda volta, Mimmo Calopresti, 1995 e Te lo leggo negli occhi,
Valia Santella, 2004). La motivazione sottesa a questa scelta risiede nel fatto che
i nove lungometraggi – che coprono un arco di tempo lungo quasi trenta anni -
rappresentano senza dubbio la parte più consistente e significativa del lavoro
dell’autore romano.
Il percorso di ricerca sui processi di teratologizzazione nel cinema di
Nanni Moretti è lungo e complesso poiché abbraccia una moltitudine di aspetti
tra loro intersecati. E’ necessaria, perciò, una strutturazione rigorosa che, da un
lato, dipani la matassa e permetta di ottenere una visione chiara ed esaustiva
dell’argomento, dall’altro, renda conto dell’unitarietà del tema trattato. In altre
parole, poiché la mostruosità si declina in svariate forme e riguarda parecchi
personaggi e diversi ambiti, è necessario dapprima scomporla in singole unità e,
successivamente, ricomporla per evidenziarne la diffusione omogenea nell’opera
e la presenza in settori specifici.
In virtù di tale complessità, al fine di semplificare l’analisi, l’universo
morettiano è stato dunque diviso in due grandi sfere relative alla società e al
protagonista – personaggio interpretato sempre da Moretti e che, nella maggior
parte dei casi, porta il nome di Michele Apicella.
Inizialmente ci si è concentrati sullo studio della mostruosità sociale,
esaminando in che modo la deformità morale si manifesti in coloro che ruotano
attorno al personaggio principale. In seguito, una larga parte della trattazione è
stata dedicata alla mostruosità - morale e fisica, in questo caso - del
protagonista, soffermandoci con particolare attenzione sulle sue varie
inclinazioni mostruose.
Le due sfere, tuttavia - come è logico immaginare - non rappresentano
compartimenti stagni, ermeticamente chiusi nella loro essenza, bensì entrano
3
costantemente in contatto tra loro nel corso delle narrazioni. Dai loro incessanti
processi relazionali si generano giudizi reciproci che spesso rivelano il contrasto
ideologico esistente tra i due attanti. Affianco alla mostruosità oggettiva della
società e di Michele, esiste dunque una deformità soggettiva, cioè colta dallo
sguardo critico di una delle due sfere nei confronti dell’altra. Così, l’occhio
mostruoso di Michele coglie la degenerazione sociale anche quando questa non
è obiettivamente presente e lo stesso fa la società nei confronti del protagonista.
Dopo l’analisi oggettiva della mostruosità, giunge quindi lo studio di tale
deformità soggettiva.
Non bisogna tuttavia scordare che, come accennato sopra, la mostruosità
sociale e quella di Michele non sono realmente separate ma, intrecciandosi di
continuo, formano una deformità coesa e pervasiva. Esistono in particolare
quattro ambiti nei quali si può assistere a radicali manifestazioni di mostruosità
da parte di entrambi gli attanti: la comunicazione, l’ossessione, il corpo e lo
spazio. Dopo la separazione iniziale, dunque, le due sfere si ricongiungono
tramite un’indagine specifica volta a cogliere la mostruosità in seno a ciascuno
dei settori sopraccitati. Dapprima ci si è occupati di studiare in che modo i tratti
mostruosi fino a quel momento rintracciati si manifestino all’interno dell’ambito
comunicativo, in seguito ci si è concentrati sulla mostruosità insita nelle
ossessioni sociali e del protagonista e sulla deformità che emerge dai movimenti
del corpo e, infine, dalla costruzione degli spazi.
Prima di intraprendere l’analisi del cinema di Moretti, tuttavia, si è
ritenuto opportuno effettuare una breve digressione storica atta a relazionare
l’oggetto di studio ai processi di teratologizzazione presenti nel mondo antico e
nel cinema italiano. L’approfondimento è dunque preceduto da uno sguardo che
indaga l’esistenza di personaggi moralmente mostruosi già nella letteratura
greca e latina e che si sposta poi sulla produzione filmica italiana notando come
- prima e dopo I Mostri di Risi - molti autori si dedichino alla pratica di
tratteggiare una società aberrante nella sua essenza.
4
Lo strumento principale d’analisi è costituito, ovviamente, dallo studio
dettagliato dei nove lungometraggi, esaminati minuziosamente in ogni singolo
aspetto. L’analisi pragmatica è stata però imprescindibilmente affiancata dallo
studio attento dei testi critici relativi al cinema italiano, al “genere” del grottesco
e all’opera di Moretti. Al termine della trattazione è inoltre presente
un’appendice fotografica a cui rimandiamo per la visione dei fotogrammi più
significativi.
5
1. Processi di teratologizzazione pre-morettiani
La letteratura e - in seguito - il cinema italiano sono stati spesso
attraversati dalla presenza di mostri che di volta in volta si sono offerti al
pubblico in maniera diversa: li abbiamo individuati grazie alla loro fisicità
raccapricciante o al loro comportamento anomalo, fuori dai canoni sociali - che
li lega frequentemente alla maschera - oppure abbiamo riscontrato nello stesso
personaggio entrambi i caratteri.
La trattazione non si concentra dunque, in questa sede, sull’analisi dei
mostri fisici, tipici di una parte della cultura medievale, della letteratura
2
e di
gran parte del cinema horror, ma va alla ricerca di quei processi che riguardano
la trasformazione di personaggi comuni in mostri, per così dire, “sociali”.
Questo processo può, ovviamente, comprendere anche la trasfigurazione fisica,
ma sempre come punto complementare alla mostruosità interiore e non come
punto di partenza.
Si è scelto, in questo capitolo, di tracciare una breve mappa, che non
pretende di essere esaustiva, dei mostri presenti all’origine della letteratura e del
cinema italiano. In particolare, si è preferito limitare il campo letterario alle
influenze greco-latine che, come noto, hanno ricoperto un ruolo di grande rilievo
nel successivo sviluppo della produzione letteraria italiana e spesso anche in
quella cinematografica, come si vedrà meglio in seguito.
Il fine è quello di presentare un primo quadro di riferimento da cui partire
per approfondire lo studio dei processi teratologici nel cinema di Moretti,
individuando, eventualmente, punti in comune e differenze.
2
Si veda a questo proposito Leslie Fiedler, Freaks: myths and images of the secret self,
Simon and Schuster, New York, 1979, cap.10 dedicato proprio all’influenza dei mostri nella
letteratura.
6
1.1 I mostri del mondo classico
I processi di teratologizzazione della realtà quotidiana e dei personaggi
che la abitano, affondano le radici in tempi molto lontani da quelli che in questa
sede verranno presi in esame.
Più di 2000 anni prima dell’esordio di Moretti, in quella stessa Roma che
funge spesso da scenario – e, allo stesso tempo, da protagonista - allo sviluppo
dei suoi intrecci, un celeberrimo poeta latino, noto come Quinto Orazio Flacco
(Venosa, 65 a.C. – Roma, 8 a.C.), si dilettava a descrivere la quotidianità con
toni sagaci, trasformando spesso in mostri i diversi tipi sociali che comparivano
nelle sue opere. Orazio, come del resto gli autori che seguiranno il suo esempio,
utilizzava per questa operazione la satira ovvero l’unico genere, all’epoca, che
potesse garantire al poeta la presenza di uno spazio atto alla trattazione del
quotidiano e alla discussione di problemi inerenti i rapporti sociali. E’ proprio
nei suoi due libri di Satire, pubblicati nel 35 e nel 30 a.C., che rintracciamo una
rappresentazione comica del quotidiano attuata con accenti che sfiorano il
grottesco. Così, ad esempio, il poeta descrive un contadino fin troppo
parsimonioso nel mangiare:
“Avidieno, che si porta addosso un soprannome, “Cane”, tratto dalla verità delle
cose, mangia olive di cinque anni e corniole selvatiche e non vuol saperne di
versare un vino che non sia già guasto e un olio il cui odore non potresti
sopportare, anche se, vestito di bianca toga, sta festeggiando il banchetto del
giorno dopo le nozze o il compleanno o qualche altro giorno di festa, di sua mano
lo istilla sui cavoli da un orcio di due libbre, mentre con l’aceto vecchio
largheggia”
3
3
Satira 2, 2, vv. 55-62; trad. Mario Labate da Quinto Orazio Flacco, Satire, Biblioteca
Universale Rizzoli, Milano, 1992, pp. 217- 219.
7
Nella quinta satira Orazio immagina il dialogo tra Ulisse e Tiresia,
l’indovino tebano che, anche dagli Inferi, svela le sue profezie e, in questo caso,
funge anche da consigliere per l’eroe che va in cerca di ricchezze. Egli infatti
così si rivolge a Odisseo:
“Va’ in caccia, dovunque, di testamenti di vecchi, e se uno o due furbacchioni,
rosicchiata la punta dell’amo, sapranno fuggire le insidie, non deporre la speranza
e l’arte non tralasciare, gabbato una volta”
4
Più avanti gli suggerirà anche di cedere le grazie di Penelope a un ricco
offerente, per poter usufruire in seguito dei suoi doni. L’indovino viene così
descritto come un uomo senza scrupoli e senza morale, pronto a ingannare
ingenui e facoltosi vecchietti pur di ottenerne l’eredità. Insomma, Tiresia è un
mostro. E, nonostante in questo caso l’ambientazione sia favolistica e i due
personaggi mitologici, è chiaro il riferimento dell’autore a una precisa categoria
sociale, quella degli arrampicatori e degli avidi che già aveva colpito nei
sermones precedenti. Tiresia è dunque una maschera utilizzata per parlare
ancora una volta del quotidiano e della sua mostruosità.
Orazio analizza i difetti e i vizi umani senza l’intento di riformare la
società, senza cioè la pretesa di convertire alla virtù. Egli instaura un rapporto di
complicità con l’ascoltatore che diventa quasi un compagno del poeta poiché ne
condivide lo stesso stile di vita. I vizi sono così guardati con un sorriso, con
benevola ironia.
Un altro esemplare caso di descrizione di personaggi mostruosi ma
comuni, si trova in uno degli unici due romanzi latini che ci sono pervenuti: il
Satyricon. L’opera è attribuita a Petronio, il cosiddetto elegantiae arbiter citato
da Tacito e di cui non si hanno notizie certe a parte quella riguardante la morte
avvenuta nel 66 d.C.. Il testo risulta particolarmente interessante per la sua
4
Satira 2, 5, vv. 23-26; trad. Mario Labate da Quinto Orazio Flacco, op. cit., p. 283.
8
impronta realistica: l’autore, infatti, descrive luoghi quotidiani, tipici e
fondamentali per la cultura romana del tempo e tipologie di personaggi
altrettanto diffuse (per esempio il parassita, il ricco stupido e il poetastro)
accompagnando le loro caricature con il linguaggio d'ogni giorno, lontano da
quello utilizzato solitamente nella prosa classica. Petronio intende dunque
intensificare il realismo attraverso il lessico popolare, facendo esprimere i suoi
protagonisti nel modo in cui si sarebbe espresso realmente un romano a quei
tempi: un’operazione che verrà ripresa molto spesso nel cinema italiano che si è
avvalso delle varie inflessioni regionali, di gerghi e sgrammaticature per rendere
più verosimili e caratteristici i personaggi. Non a caso, lo stesso Fellini scelse
questo romanzo per trarne uno dei suoi film più celebri e così commenta le
figure dei due protagonisti:
“Encolpio e Ascilto, due studenti metà vitelloni, metà capelloni, come se ne
possono vedere ai giorni nostri a Piazza di Spagna, a Parigi, ad Amsterdam, a
Londra, che passano da un’avventura all’altra, anche la più sciagurata, senza la
minima remora, con l’innocente naturalezza e la splendida vitalità di due giovani
animali. (…) Del tutto insensibili ai criteri sovente ricattatori dell’affettività
convenzionale, non hanno nemmeno il culto dell’amicizia che considerano un
sentimento precario e contraddittorio e sono pronti a tradirsi e rinnegarsi in ogni
momento.”
5
La scena in cui emerge maggiormente la mostruosità di tutti i personaggi
nel loro complesso è quella celebre della cena a casa di Trimalcione che viene
magistralmente sintetizzata dalle parole di Huysmans nel suo À rebours:
“Sono personaggi abbozzati con un solo tratto di penna, stravaccati attorno a una
tavola, intenti a scambiarsi parole insulse da avvinazzati, a snocciolare massime
da rimbambiti, motti stupidi, col muso rivolto a Trimalcione che si netta i denti,
5
Federico Fellini, Fellini Satyricon, Cappelli, Bologna, 1969, p. 108.
9
offre pitali ai convitati, li intrattiene sulle condizioni di salute delle proprie viscere
e fa vento invitando i convitati a fare altrettanto.”
6
Petronio non esprime alcun giudizio critico sulla dissolutezza dei costumi
che descrive: la narrazione è infatti condotta in prima persona da Encolpio che si
trova immerso fino al collo in quell’ambiente. Nel romanzo non c’è mai una
visione positiva che si contrappone alla degenerazione che viene mostrata e,
anche nei casi in cui compaiano dei personaggi moralisti, emerge con chiarezza
che questi non sono per nulla superiori ai viziosi. Non c’è alcuna traccia,
dunque, della predicazione, dell’invettiva.
Senza dubbio però il maggior creatore di mostri del mondo romano è stato
Aulo Persio Flacco, giovane poeta vissuto tra il 34 e il 62 d.C.. Anche lui
utilizza la satira per denunciare la corruzione e il vizio della società
contemporanea. Persio dipinge quadri estremamente realistici ricorrendo spesso
al campo lessicale del corpo e del sesso: il degrado morale è legato alla
mostruosità fisica e le immagini sono tanto crude e vivide da dare l’impressione
di poter vedere con i propri occhi i personaggi di cui parla. Il poeta ama
deformare il reale in modo macabro, esagerare i toni delle descrizioni. La terza
satira, ad esempio, ci presenta la morte di un crapulone che, incurante degli
avvertimenti, si bagna durante il banchetto e trova così la morte. Questo,
dunque, l’affresco di Persio:
“E così, gonfio di crapula, cala in bagno il ventre biancastro, mentre dalla gola
esalano lentamente miasmi sulfurei; ma poi, quando riprova a bere, lo assale un
tremito e gli fa cadere dalle mani la coppa di vin caldo; i denti scoperti sbattono
insieme, e dalle labbra dischiuse rigurgitano unti i cibi.”
7
6
Joris-Karl Huysmans, À rebours, 1884, trad. it. Controcorrente, Edizioni Frassinelli,
Milano, 1995, p. 30.
7
Satire 3 v. 98 e segg.; trad. Ettore Barelli da Gian Biagio Conte, Emilio Pianezzola, Storia e
testi della letteratura latina, vol. 3, Le Monnier, Firenze, 1995, p. 192.
10
Da questa orribile scena di morte, si passa poi a quella del cadavere
esposto in cui il personaggio è ancora più ripugnante nonostante la ricchezza e
lo sfarzo usate nel funerale. Persio si differenzia dagli altri due autori citati per
l’atteggiamento con cui tratta i vizi. Non ritroviamo più la comprensione del
poeta per le debolezze umane: in Persio c’è moralismo arcigno, invettiva,
volontà di smascherare il vizio per combatterlo, nonostante le indicazioni sul
recte vivere siano molto rare.
La figura del mostro calato nella quotidianità compare anche nella cultura
greca, ma in maniera differente rispetto a quanto abbiamo visto accadere nel
mondo latino. Uno dei mostri greci più celebri è Tersite, personaggio
raccapricciante nella sua fisicità e moralità che compare nel secondo libro
dell’Iliade. Nella cultura greca, infatti, la stoltezza e l’immoralità (o anche
l’amoralità) erano sempre coniugati a un aspetto mostruoso, così come il valore
era proprio di uomini e donne fisicamente gradevoli. Si tratta del principio della
καλοκαγαθία (kalokagathia, parola formata dall’unione dei termini καλός καί
αγαθός), secondo la quale la bellezza (τό καλόν) è sempre accompagnata dal
valore (αγαθός) e, viceversa, il vizio è accompagnato alla deformità fisica.
Nell’Iliade, Tersite viene descritto come gobbo, guercio, con le gambe arcuate,
semicalvo e soprattutto vile, calunniatore e spregevole, tanto da venire percosso
da Ulisse che lo riduce così al silenzio.
La cultura greca non possiede personaggi colti nella loro quotidianità e
caratterizzati da una mostruosità vibrante quanto quella riscontrata nel mondo
latino: sebbene si raggiungano toni grotteschi, la deformità morale è sempre
moderata. Tuttavia è utile citare alcuni casi in cui compaiono ritratti sagaci di
cittadini comuni.
Anacreonte, poeta del VI secolo a.C. dedito soprattutto alla trattazione di
temi legati alla sfera amorosa, ci offre uno schizzo aggressivo e grottesco di un
nemico politico. Artemone, oggetto dell’invettiva, viene descritto come un
11
individuo che, da una condizione di assoluta miseria economica e morale
8
, è poi
passato all’esibizione del lusso portando “pendagli d’oro” e viaggiando in
carrozza. La descrizione è utile anche per delineare il particolare periodo storico
in cui viveva il poeta poiché riprende il tema della sovversione dei valori che
rende irriconoscibile la città.
La commedia greca è concentrata in particolare sulla trattazione di temi
quotidiani e ben noti al pubblico. Spesso il potere della commedia risiede nella
presentazione di tipi umani e situazioni tramite toni esagerati e deformanti:
l’iperbole risulta essere uno dei migliori espedienti per realizzare la comicità. Il
più grande commediografo dell’antichità fu Aristofane (445 - 380 circa a.C.) di
cui possiamo apprezzare ancora oggi una moltitudine di opere. Nella Lisistrata
(411 a.C.), per esempio, possiamo trovare alcune descrizioni mostruose. La
commedia racconta la lotta delle donne greche, capeggiate da Lisistrata, per far
cessare la guerra in atto. Si tratta di una lotta silenziosa, ingaggiata contro i
propri uomini tramite l’uso del ricatto: esse non si concederanno sessualmente
finché non verrà decretata la pace. Da questa situazione derivano scene di
seduzione da cui gli uomini escono sempre più frustrati e da cui emerge la
mostruosità delle donne, ferme ad ogni costo nei loro principi e pronte per
questo anche all’inganno dei propri mariti. Ancora una volta non si tratta però
della mostruosità ritrovata nelle opere latine perché, sebbene le donne abbiano
comportamenti ingiusti, questi derivano da un alto ideale - quello della pace - e
in ogni caso non sono caratterizzate da vizi. In definitiva, la mostruosità reale
che emerge dalla commedia è quella degli uomini e della guerra, anche se
l’amoralità del conflitto non è presentata con toni grotteschi o deformanti.
8
“portava (…) una pelle di bue spelacchiata (…); se la faceva con le pescivendole (…) e
spesso infilò il collo dentro la gogna e fu messo alla ruota ed ebbe la schiena striata dallo
staffile, barba e capelli strappati” Anacreonte, frammento 82, trad. it. Guido Paduano da
Guido Paduano, Antologia della cultura greca, vol. 1, Zanichelli, Bologna, 1990, pp. 509-
511.
12
Una buona galleria di personaggi che si avvicinano alla mostruosità è
quella che ci propone Teofrasto (371 - 286 a.C.) con i Caratteri, opera costituita
da trenta bozzetti di tipi umani in cui compaiono vizi universalmente
riconosciuti ma calati nel costume attico. Le descrizioni vivaci creano caratteri
per certi versi spaventosi ma il tono grottesco non raggiunge mai l’apice della
mostruosità.
13
1.2 I mostri nel cinema italiano
L’approdo del mostruoso nel cinema italiano avviene negli anni Sessanta,
un’epoca in cui il Paese viene investito da grandi trasformazioni sociali che si
ripercuotono anche sul linguaggio cinematografico. Il cinema non dipinge più la
realtà con tratti patetici o commedici, come avveniva negli anni Cinquanta, ma
con toni sempre più grotteschi. Il mondo e i soggetti che lo abitano sono
entrambi alterati, deformati, non è più possibile giungere a un’armonia tra i due
elementi.
I personaggi non cercano più l’integrazione, tema caro alla commedia
italiana, ma sono succubi di “desideri e pulsioni incontenibili nelle forme e nei
codici del vivere comune”
9
che li portano, di conseguenza, a rinnegare e a
combattere contro quei valori, come il matrimonio o l’impiego fisso, che erano
fondamentali nel decennio precedente. La struttura episodica soppianta
l’organicità narrativa, la maschera sostituisce il personaggio, il tic rimpiazza il
comportamento e l’espressività lascia il posto alla mostruosità del volto.
E’ la società ad essere diventata mostruosa e non c’è altro modo per
raccontarla se non mostrarne apertamente, senza veli, la deformità che non
permette alcun tipo di fuga concreta al soggetto ma gli lascia solo la possibilità
si soccombere o di trasformarsi egli stesso in mostro per sopravvivere al suo
interno.
Il grottesco rivela il lato oscuro e orrido della società: per questo nell’atto
di creazione di un mostro c’è sempre la presenza del grottesco, l’abbassamento
dall’alto verso il basso ovvero lo spostamento di ciò che appartiene all’ambito
spirituale verso la sfera del materiale e corporeo. Tuttavia non si può affermare
che il grottesco generi sempre mostri. Basta pensare al cinema di De Sica-
9
Roberto De Gaetano, Il corpo e la maschera. Il grottesco nel cinema italiano, Bulzoni
Editore, Roma, 1999, p. 37.
14
Zavattini con il loro Miracolo a Milano (1951) per accorgersi che qui la
deformazione sociale, colta nella vita di una baraccopoli, non diventa mostruosa
come poi accadrà, per esempio, con Ettore Scola in Brutti, sporchi e cattivi
(1976). Con De Sica-Zavattini il grottesco diventa favolistico e in questo caso è
la materialità che si converte in spiritualità: nell’ultima scena i protagonisti
volano nel cielo a cavallo delle scope lasciandosi alle spalle - o, per meglio dire,
sotto i piedi - la quotidianità e i suoi problemi.
La mostruosità compare in maniera dichiarata per la prima volta nella
commedia grottesca con I Mostri (1963) di Dino Risi che, con lo stesso titolo, ne
esplicita la presenza. Il film, composto da venti episodi di cui sono protagonisti
Ugo Tognazzi e Vittorio Gassman, descrive la società italiana dei primi anni
sessanta evidenziandone i vizi e la mostruosità. Cinismo, disonestà, ipocrisia,
smania di apparire, vanità sono solo alcuni dei tratti peggiori che caratterizzano i
personaggi che agiscono soltanto sotto la spinta dei propri interessi personali.
Non vi è più una trama unitaria, l’azione stessa si riduce al vizio e la società
diventa una galleria di tipi, di macchiette definite dai loro tic e da particolari
modi di parlare. La mostruosità si fa ancora più forte nell’episodio La nobile
arte che chiude il film: nell’ultima scena, i due protagonisti giocano sulla
spiaggia con un aquilone mentre uno dei due, un ex pugile ridotto quasi allo
stato larvale (Vittorio Gassman), è sulla carrozzella. Il tono grottesco sancisce
così l’impossibilità di rinascita, la totale mancanza di speranza verso un esito
positivo e il messaggio che ci giunge è che dal mostruoso non ci sia via d’uscita.
Già prima, tuttavia, con Divorzio all’italiana (1961) di Pietro Germi
apparivano i primi personaggi mostruosi: in una calda Sicilia profondamente
ancorata alle proprie tradizioni, il barone Cefalù (Marcello Mastroianni)
architetta la propria deriva sociale per liberarsi della consorte. Ancora una volta
i personaggi sono definiti dai tic, dalle loro particolarità linguistiche e da tratti
fisici esagerati. La mostruosità è insita nella società che ha regole troppo rigide e
severe, nella moglie del barone (Daniela Rocca), eccessivamente brutta e
15
opprimente nei confronti del marito, nell’amante di lei (Leopoldo Trieste),
anch’egli brutto e incapace. Il barone si adegua a questa mostruosità per
giungere a un fine - sposare sua cugina Angela (Stefania Sandrelli) - che appare
sproporzionatamente ridicolo rispetto ai mezzi utilizzati. Cefalù organizza
dapprima l’adulterio da parte della moglie, quindi compie il delitto d’onore che
lo porterà in carcere. Anche in questo caso la mostruosità viene rafforzata nel
finale e non lascia note positive: l’amore non può trionfare in un mondo
mostruoso e così il barone verrà realmente tradito dalla sua novella sposa solo
pochi mesi dopo il matrimonio.
Parlando di mostri, e quindi di grottesco, non si può tralasciare un autore
come Federico Fellini, definito da De Gaetano “il più grande autore grottesco
del cinema italiano”
10
. Fellini è un amante della teratologizzazione: il suo
cinema è letteralmente popolato da figure mostruose - donne eccessivamente
prosperose, uomini altissimi o nani, personaggi troppo magri o troppo grassi
11
.
Nella migliore tradizione grottesca, Fellini tocca gli estremi e li contrappone, ma
è raro che ci sia una corrispondenza tra la deformazione fisica e quella morale.
Tuttavia è possibile rintracciare alcuni casi in cui compare la mostruosità così
come qui è intesa.
Nel Fellini-Satyricon (1969) si riprende, come già accennato, il celebre
testo di Petronio ed è in particolare con la scena del banchetto – uno dei motivi
centrali del grottesco - che emerge la mostruosità. Nell’atto del mangiare e del
bere, infatti, ci si libera delle costrizioni sociali e fanno capolino i vizi dei
personaggi
12
.
Un altro importante riferimento alla presenza del mostruoso nella
quotidianità si trova in I Clowns (1970), film dedicato all’universo circense. È
10
Roberto De Gaetano, op. cit., p. 60.
11
Una caratteristica sottolineata più volte anche da Leslie Fiedler, op. cit.. Si vedano in
particolare le pp. 132-133.
12
Fiedler nota però come nel film siano presenti anche veri e propri personaggi mostruosi
come, per esempio, un ermafrodita. Rimandiamo per approfondimenti su questa tipologia di
mostruosità a Leslie Fiedler, op. cit., cap. 7.