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Inutile negare che la tutela della privacy abbia da sempre incontrato nell’attività
giornalistica un valido e serio antagonista, così da un lato l’affermarsi di una
coscienza sociale prima ancora che giuridica sull’importanza del primitivo “right to
be let alone” e dall’altro il diritto-dovere dei cittadini di essere informati e di
informare hanno costituito i due fuochi intorno ai quali si sono raccolti i diversi modi
di vedere un dualismo destinato a durare, con significative e fisiologiche storture,
all’interno di ambedue le sponde contrapposte. Difficile non sottolineare come le
inevitabili antinomie di un sistema in via di costruzione siano la diretta conseguenza
delle forze e dei valori in campo che sia nell’uno che nell’altro schieramento possono
armarsi di valide ideologie e rafforzati principi etici. La tutela della riservatezza e
con essa la tutela dei dati cosiddetti “sensibili” costituiscono un’insopprimibile
bisogno di intimità, qualcosa di difficilmente sacrificabile all’esigenza, sicuramente
primaria, di conoscenza “dell’altro” e del mondo sociale che ci circonda.
L’importanza di tale sfera della riservatezza è stata così fortemente avvertita
dall’uomo della strada che più di un autore non ha mancato di definire l’art. 22 della
legge 675 del 1996 una “riscrittura moderna del principio di eguaglianza”(1)
Se la barriera che il legislatore, prima in coscienza e poi in legge, ha cercato di
costruire intorno a quei dati che toccano la nostra più profonda intimità è
indiscutibile, così è da sottolineare parimenti, che i mezzi di comunicazione
assumono nei confronti della società e dei cittadini “una responsabilità morale che
deve essere sottolineata, segnatamente in un momento in cui l’informazione e la
comunicazione rivestono una grande importanza sia per lo sviluppo della
personalità dei cittadini, sia per l’evoluzione della società e della vita
democratica”(2)
Dipingere una situazione certamente non rosea nei rapporti tra privacy e giornalismo
può far storcere il naso a molti, ma la verità dei fatti (basti citare “l’accanimento
mediatico” nei confronti della vicenda di Cogne o il caso della ragazza affetta dal
morbo di Creutzfeldt – Jacob) è oggi un indiscutibile punto di partenza per costruire,
nel futuro, un giornalismo che sia maggiormente rispettoso degli individui che si
trovino in una condizione di scarsa protezione e maggior vulnerabilità. Soggetti che
certamente non potranno essere aiutati nel momento in cui le loro debolezze, fisiche
e mentali, siano messe sotto la lente di ingrandimento dell’attenzione morbosa della
(1) G. Alpa
(2) Consiglio d’Europa.Risoluzione n.1003 del 1° luglio 1993
3
società che li circonda. Molto dipenderà dagli elementi in campo, non potendo il
legislatore schierarsi dalla parte di una delle due posizioni antagoniste a rischio di
creare delle preclusioni difficilmente sostenibili e controllabili. Così ribadiamo che
molto dipenderà dai soggetti coinvolti, i quali supportati dalla dottrina e dal formante
legislativo, dovranno costruire un comune sentiero di crescita che sia maggiormente
rispettoso delle forze e dei diritti, al momento in competizione.
4
Capitolo 1. Profili storici della normativa sulla privacy.
1.1. Evoluzione storica. Breve sintesi
Nel ventennio che ha avuto quali principio e fine il 1956 ed il 1975 il diritto alla
riservatezza ha trovato nell’ordinamento nazionale un riconoscimento che una
sentenza della Corte di Cassazione a metà degli anni cinquanta sembrava
palesemente negargli. In circa vent’anni l’orientamento dei tribunali ha invertito la
rotta dando vita ad una radicale trasformazione di vedute che in nessun altro campo è
possibile scorgere, tenendo in considerazione che tale trasfigurazione è avvenuta a
legislazione sostanzialmente invariata.
Nel primo periodo repubblicano la giurisprudenza prevalente si esprimeva negando
l’esistenza di un diritto alla riservatezza. Significativa al riguardo appariva la
sentenza della Corte di Cassazione del 22 dicembre del 1956, nella quale il Supremo
Collegio, per la prima volta, affrontava la questione del riconoscimento di una
incisiva tutela della vita privata del soggetto. L’esordio certo non fu incoraggiante, in
quella sentenza la Cassazione negò marcatamente l’esistenza di un “generale diritto
alla riservatezza”. In tale sentenza la Corte operò una netta distinzione tra norme che
tutelano valori quali il decoro, reputazione ed onore e le disposizioni che proteggono
aspetti particolari della vita privata come l’immagine, il nome, la corrispondenza. Le
prime norme (onore, decoro…) erano, sostenne la Cassazione, espressione di quei
principi che tutelavano, in via generale, un nucleo di valori per cui (anche al di fuori
di espresse previsioni legislative) “ ogni offesa ad essi costituisce damnum iniura
datum e dà luogo ad azione per far cessare l’abuso ed ottenere risarcimento per
fatto illecito a norma dell’art. 2043”. Nel secondo gruppo di casi, prosegue la
Cassazione, “nessuna disposizione di legge autorizza a ritenere che sia sancito, come
principio generale, il rispetto assoluto dell’intimità della vita umana.” ne deriva che
“ fuori dai limiti fissati l’aspirazione alla privatezza non riceve protezione, salvo che
l’operato dell’agente, offendendo l’onore o il decoro o la reputazione della persona,
ricada nello schema generale del fatto illecito”(1) Facile intuire la posizione di netta
chiusura della Corte di Cassazione.
E’ del 1963 la sentenza del Supremo Collegio in cui quest’ultimo sembra voler
(1) Sentenza della Corte di Cassazione del 22 dicembre del 1956 n. 4487
5
invertire la rotta rispetto alla precedente pronuncia, esemplificativo delle intenzione
a-rebours della Corte è il contenuto della motivazione della sentenza a metà degli
anni sessanta “ di fronte al dissenso di gran parte della dottrina ed agli inconvenienti
che derivano da una assoluta esclusione di tutela giurisdizionale del riserbo della
vita privata (…) la corte è indotta al riesame della propria giurisprudenza”.
Agganciandosi all’articolo 2 della Costituzione, la Corte prosegue evidenziando un
diritto assoluto “di libera autodeterminazione nello svolgimento della personalità nei
limiti di solidarietà” diritto che verrebbe inequivocabilmente violato “se si divulgano
notizie della vita privata le quali, per tale loro natura, debbono ritenersi riservate, a
meno che non sussista un consenso anche implicito della persona, o data la natura
dell’attività o del fatto divulgato, non sussista un prevalente interesse pubblico di
conoscenza che va considerato con riguardo ai menzionati doveri di solidarietà
inerenti alla posizione assunta dal soggetto”.(2)
Percorso che si conclude nel 1975 con la sentenza n. 2129 che rovescia
completamente le tesi sostenute nel 1956 dalla stessa Corte di Cassazione ed afferma
l’esistenza nel nostro ordinamento di un marcato diritto alla riservatezza, consistente
“nella tutela di quelle situazioni e vicende strettamente personali e familiari, le
quali, anche se verificatesi fuori dal domicilio domestico, non hanno per i terzi un
interesse socialmente apprezzabile, contro le ingerenze che, sia pure compiute con
mezzi leciti, per scopi esclusivamente speculativi e senza offesa per l’onore, la
reputazione o il decoro, non siano giustificati da interessi pubblici preminenti”
prosegue la Suprema Corte “il diritto stesso non può essere negato ad alcune
categorie di persone solo in considerazione della loro notorietà, salvo che un reale
interesse sociale all’informazione od altre esigenze pubbliche lo esigano.”. Inoltre
aggiunge la Cassazione “E’ illecita la pubblicazione per fine di lucro di un servizio
fotografico su aspetti intimi di persona nota, anche se la pubblicazione non rechi
pregiudizio all’onore, alla reputazione o al decoro della persona stessa, in quanto
tale pubblicazione non è giustificata da un effettivo interesse sociale
all’informazione, corrispondente ad una sempre maggiore conoscenza della persona
nota e che non può identificarsi nella morbosa curiosità che parte del pubblico ha
per le vicende piccanti o scandalose svoltesi nella intimità della casa della persona
assurta a notorietà. Nei confronti di persone note il diritto di cronaca deve ritenersi
(2) Sentenza Corte di Cassazione n.990 del 1963
6
circoscritto dai limiti che l’evoluzione dottrinale e giurisprudenziale ha elaborato:
1) verità del fatto esposto; 2) rispondenza ad un interesse sociale all’informazione;
3) rispetto della riservatezza ed onorabilità” (3)
Limiti che verranno ripresi e sviluppati nella famosa sentenza del 1984 n. 5259 della
Sezione I civile della Corte di Cassazione: "Perché la divulgazione a mezzo stampa
di notizie lesive dell’onore possa considerarsi lecita espressione del diritto di
cronaca, e non comporti responsabilità civile per violazione del diritto all’onore,
devono ricorrere tre condizioni: 1)utilità sociale dell’informazione; 2) verità
oggettiva, o anche soltanto putativa purché frutto di diligente lavoro di ricerca; 3)
forma civile dell’esposizione dei fatti e della loro valutazione, che non ecceda lo
scopo informativo da conseguire e sia improntata a leale chiarezza, evitando forme
di offesa indiretta".(4)
Il diritto alla riservatezza negato a metà degli anni ’50 viene ora riconosciuto e
definito nei suoi elementi essenziali, i quali saranno oggetto di discussione in
separata sede. Così non è più il diritto del soggetto a non vedere pubblicate sul suo
conto notizie non vere, non è più il diritto di un individuo qualunque a non veder lesi
diritti fondamentali come l’onore e la reputazione, perché questo complesso di diritti
era già tutelato attraverso specifiche disposizioni o attraverso l’istituto del fatto
illecito. “ Il diritto alla riservatezza è diverso: è il diritto a mantenere riservati fatti e
notizie non in quanto lesivi di aspetti quali l’onore o la reputazione, ma perché
appartenenti ad una sfera di rapporti, quelli familiari, affettivi, sentimentali,
strettamente personali, che ciascuno può pretendere di mantenere riservati, intimi.
La violazione di tale diritto non consiste quindi nella divulgazione di dati falsi, o di
fatti disdicevoli atti a danneggiare aspetti della persona interessata, ma nella
violazione di uno spazio che il rispetto della personalità pretende essere precluso
alla pubblicità”(5)
In conclusione non è la reputazione del soggetto ad essere lesa, ma il suo diritto a
mantenere riservata ed intima una parte della propria vita. Sarà questa la linea
direttrice che, negli anni successivi, costituirà il terreno sul quale si muoveranno
(3) Sentenza Corte di Cassazione n. 2129 del 1975
(4) Sentenza Corte di Cassazione n. 5259 del 1984
(5) M.Segni. Trattamento dei dati e tutela della persona. Cuffaro, Ricciuto, Zeno-Zencovich (a cura
di ).
7
dottrina e giurisprudenza, e che, soprattutto, farà da sfondo alla emanazione della
legge sulla privacy nel 1996.
Il sentiero aperto dalla Corte di Cassazione verrà ben seguito da due successive
sentenze precedenti al 1996, pronunce che hanno goduto, all’epoca, di una certa
risonanza mediatica. La prima è una sentenza del Tribunale di Roma del 1986,
mentre il secondo caso è del 1991 e riguarda una sentenza del Pretore di Chieri.
La prima pronuncia coinvolgeva la rivista “Novella 2000” che in una delle sue più
note rubriche rendeva pubblici i numeri telefonici e gli indirizzi di alcuni tra i più
famosi volti dello spettacolo dell’epoca da Federico Fellini a Claudia Cardinale a
Monica Vitti ed, inoltre, aggiungeva una serie di informazioni personali, quali luoghi
frequentati ed orari abituali di uscita. I personaggi “noti” tirati in gioco dalla rubrica
riuscirono, lamentando una grave violazione della riservatezza, ad ottenere dal
pretore il sequestro della pubblicazione ex art. 700 c.p.c. e l’inibizione della ulteriore
pubblicazione della rubrica stessa. Numerosi erano i motivi di interesse di tale
sentenza; procedendo con ordine: l’affermazione che la notorietà non escludeva il
diritto alla riservatezza, anche se “Chi ha scelto la notorietà come dimensione
esistenziale del proprio agire, si presume abbia rinunciato a quella parte del proprio
diritto alla riservatezza direttamente correlata alla sua dimensione pubblica".(6)
Inoltre la sentenza precisava che nel caso di personaggi pubblici, il diritto di cronaca
si limitava al settore di attività che aveva determinato la notorietà del personaggio e
per il quale settore sussisteva un interesse pubblico alla divulgazione delle notizie,
escludendo quei fatti “che non hanno alcun rilievo sul loro ruolo o sulla loro vita
pubblica”.(art. 6, comma 2, Codice deontologico)
Ulteriore motivo di interesse della sentenza nasceva dalla considerazione che la
precedente divulgazione di notizie riservate da parte della persona interessata non
eliminava del tutto il diritto alla riservatezza sulle medesime notizie e non
consentiva, ad esempio, una nuova ed eventuale ricircolazione di quei dati in una
successiva pubblicazione.
La seconda significativa sentenza riguardava la vicenda di Serena Cruz, la bambina
sudamericana adottata da un famiglia italiana e che fu al centro all’epoca di una nota
e drammatica vicenda. Nel caso in questione il pretore non solo riconobbe l’esistenza
(6) Tribunale di Roma, 13 febbraio 1992
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di un diritto alla riservatezza, ma ribadì che, anche il personaggio “noto” non soffriva
di una “compressione illimitata” del diritto alla tutela dell’ immagine. L’aspetto
interessante di tale sentenza era la protagonista stessa della vicenda, un personaggio
che improvvisamente e casualmente aveva raggiunto una straordinaria notorietà, ma
aveva scelto, successivamente, di tornare alla vita normale. “Il giudice, in sede di
accertamento del fumus boni iuris e del periculum in mora, deve considerare
prevalente la protezione della personalità minorile, rispetto all'esercizio del diritto
all'informazione, allorché quest'ultimo abbia a svolgersi con la pubblicazione diffusa
e la divulgazione incontrollata dell'immagine del minore, balzato, non per sua
volontà, alla notorietà della cronaca nazionale a seguito di vicende giudiziarie di
carattere familiare a lui facenti capo”(7)
Tale principio è stato perfettamente accolto all’interno della motivazione della
sentenza dove si precisava “come debba operarsi una netta distinzione tra le ipotesi
di notorietà volontariamente raggiunta e mantenuta e quella di notorietà
involontaria e subita”.
In tale quadro normativo ed in un contesto oramai sensibile al problema della privacy
ha visto la luce la legge n. 675 del 1996, in recepimento della direttiva comunitaria
95/46/CE, e per la prima volta il diritto alla riservatezza ha ricevuto esplicito
riconoscimento nel nostro ordinamento.
1.2. Disciplina dei dati sensibili e dei dati idonei a rivelare lo stato
di salute nella l.n. 675 del 1996 e successive modifiche.
La l.n 675 del 1996 individuava all’art. 22, comma 1, i dati sensibili definendoli “I
dati personali idonei a rivelare l'origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche
o di altro genere, le opinioni politiche, l'adesione a partiti, sindacati, associazioni od
organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché i dati personali
idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale”. Successivamente la legge
distingueva tra trattamento dei medesimi dati effettuato da enti pubblici economici e
privati e trattamento effettuato da enti pubblici non economici costruendo un sistema
che considerava, ovviamente, diverse condizioni di liceità nell’utilizzazione di tali
(7) Provvedimento della pretura di Torino-Chieri del 19 dicembre 1989
9
tipologie di dati.
Da un lato si prevedeva una disciplina generale per il trattamento dei dati sensibili
per i privati e gli enti pubblici economici, così l’articolo 22, comma 1, stabiliva che
tali soggetti potevano trattare i dati sensibili solo con il consenso scritto
dell’interessato e previa autorizzazione del Garante. Dall’altro si disponeva una
normativa generale per il trattamento dei medesimi dati da parte degli “enti pubblici
non economici” che venivano ad assumere una posizione di specialità in quanto
potevano trattare tali dati senza il consenso dell’interessato e senza l’autorizzazione
del Garante a condizione che:
ξ i dati trattati fossero quelli contenuti nell’art.22, comma 1.
ξ il trattamento fosse previsto da un’apposita norma di legge, la quale doveva
specificare i tipi di dati che potevano essere trattati, le operazioni eseguibili e
le rilevanti finalità di interesse pubblico perseguite (articolo 5, comma 2
D.Lgs. n. 135/99 che modifica l’art. 22., comma 3, della l.n. 675/96
legislativa, venisse richiesto al Garante “l'individuazione delle attività, tra quelle
demandate ai medesimi soggetti dalla legge, che perseguono rilevanti finalità di
interesse pubblico e per le quali è conseguentemente autorizzato, ai sensi del
comma 2, il trattamento dei dati indicati al comma 1”
ξ nei casi in cui erano definite le finalità di rilevante interesse pubblico, ma non
erano specificati i tipi di dati che potevano essere trattati e le operazioni
eseguibili, gli enti pubblici potevano procedere al trattamento se
individuavano la finalità di rilevante interesse pubblico. In tale ultima ipotesi
vi era un unico onere a loro carico: identificare e rendere pubblici, secondo i
rispettivi ordinamenti, le operazioni e i tipi di dati strettamente pertinenti e
necessari per perseguire le finalità nei singoli casi (art. 5, comma 3, D.Lgs.
135/1999, che aggiunge il comma 3-bis all’articolo 22 della l.n. 675 del 96)
In tale sintetico quadro normativo è necessario porre l’attenzione sul percorso che la
normativa sulla privacy tracciava per il trattamento dei dati idonei a rivelare lo stato
di salute. Normativa che prevedeva un percorso speciale per due sole categorie di
soggetti: gli esercenti le professioni sanitarie e gli organismi sanitari pubblici (art. 23,
comma 1, l.n. 675/1996). All’interno di tale solco si pose fin da subito un problema
di intelaiatura che faceva scorgere una probabile antinomia normativa. Abbiamo
osservato che l’art. 22 definendo i dati sensibili includeva al loro interno i dati
inerenti lo stato di salute ed a norma del comma terzo, del medesimo articolo, tali
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dati inerenti lo stato di salute sarebbero ricaduti nella disciplina generale del
trattamento dei dati sensibili da parte di tutti gli enti pubblici. In sintesi, l’art. 22,
comma 3, aveva come destinatari la generalità degli enti pubblici, compresi gli
organismi sanitari pubblici, tale inglobamento avrebbe portato alla inaccettabile
paralisi del trattamento dei dati sanitari da parte di quest’ultimi organismi qualora vi
fosse stato un vuoto normativo.
Il Garante, al riguardo, intervenendo sull’art. 22 (prima che fosse modificato dal
D.Lgs. n. 135/99) con le Autorizzazioni n. 2 del 1997 e n. 2 del 1998
“Autorizzazioni al trattamento dei dati idonei a rivelare lo stato di salute e la
vita sessuale” aveva precisato che gli organismi sanitari pubblici avevano queste tre
possibili strade nel trattamento dei dati idonei a rivelare lo stato di salute:
ξ in via generale potevano trattare tali dati, se autorizzati da espressa
disposizione di legge (art. 22, comma 3, legge sulla privacy)
ξ in via transitoria potevano procedere al trattamento, anche in assenza della
espressa disposizione di legge, previa comunicazione al Garante
ξ in via residuale potevano operare anche in base alla norma speciale
dell’articolo 23, comma 1, che ammetteva la possibilità di trattare i dati sulla
salute qualora fossero presenti tali condizioni:
1. il trattamento era finalizzato alla tutela dell’incolumità fisica e della
salute dell’interessato. In tal caso era sufficiente il solo consenso
scritto (articolo 23, comma 1, l.n. 675/1996);
2. il trattamento era finalizzato alla tutela dell' incolumità fisica e della
salute di un terzo o della collettività, e non era possibile acquisire
il consenso dell’interessato. In tal caso era sufficiente la sola
autorizzazione preventiva del Garante (art. 23 comma 1, l.n. 675/96).
Concludendo gli organismi sanitari pubblici in mancanza di espressa previsione di
legge trovavano nell’articolo 23, per il solo trattamento dei dati inerenti lo stato di
salute, una via alternativa e residuale.
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1.3. Privacy e diritto di cronaca nella l.n. 675 del 1996
Non vi è dubbio che le norme della legge 675 del 1996 disciplinanti la materia
articolata e complessa dell’informazione fossero ispirate, nella loro originaria
formulazione, ad una protezione eccessivamente rigorosa di tutela dei dati personali.
Estrema riservatezza difficilmente compatibile con il ruolo che una stampa libera
occupava, occupa, in un paese democratico. In particolar modo i dati definiti
“sensibili” dal legislatore godevano di una barriera difficilmente scalfibile
dall’espletarsi sereno e corretto dell’attività giornalistica in generale. Inevitabile
sottolineare come nel caso dell’art. 25, in origine, per il trattamento dei dati
“maggiormente sensibili”, ossia dati idonei a rivelare le abitudini sessuali e lo stato
di salute dell’interessato, fosse richiesto sia il consenso scritto dell’interessato, sia la
previa autorizzazione del Garante. Doppia condizione certamente incompatibile con
l’esclusione, costituzionalmente garantita, di vincoli assoluti e di natura preventiva al
libero manifestarsi del pensiero. Dalla lettura combinata dell’art. 25, dell’art. 12, lett.
e) e dell’art. 20, lett. d) (1) risultava un triplice livello di protezione dei dati personali:
una prima blindatura assoluta, come già in precedenza scritto, era prevista per i dati
idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale, il cui trattamento da parte del
giornalista doveva passare per il consenso scritto dell’interessato e la previa
autorizzazione del Garante.
Ad un livello intermedio si collocavano due categorie di dati: da un lato, i dati
sensibili con l’esclusione dei dati sulla salute e vita sessuale, dall’altro, i dati
concernenti i provvedimenti giudiziari di cui all’art. 24. Riguardo al primo gruppo il
giornalista poteva evitare sia il consenso scritto dell’interessato sia la previa
autorizzazione del Garante, condizione necessaria era il rispetto dei limiti del diritto
di cronaca, in particolare quello “dell’essenzialità dell’informazione riguardo a
fatti d’interesse pubblico”. Ad integrazione va sottolineato che rispettare i limiti del
diritto di cronaca non evitava la previa autorizzazione del Garante, la quale poteva
esser messa in un angolo rispettando le regole del codice di deontologia.
(1) L’art. 12 e l’art. 20 introducevano, in relazione all’attività giornalistica, deroghe alla necessità del
consenso espresso dell’interessato in genere, nonché alla diffusione e comunicazione dei dati
personali che lo riguardavano
12
Riassumendo, in via ipotetica, era possibile il trattamento dei dati sensibili (esclusi
dati sulla salute e sulla vita sessuale) sottostando unicamente alla previa
autorizzazione del Garante. Diversamente il trattamento dei dati personali per i quali
era richiesto il consenso non poteva essere effettuato prescindendo
dall’autorizzazione del Garante. Tuttavia riguardo a tale ultima annotazione esisteva
più di una differente interpretazione che riteneva per i dati idonei a rivelare lo stato di
salute e la vita sessuale l’esistenza di “un regime ad hoc, in base al quale il
giornalista non necessita dell’autorizzazione del Garante, ma non può prescindere
dal consenso (scritto) dell’interessato” (G. Buttarelli).
In relazione al secondo gruppo di dati, i dati giudiziari di cui all’art. 24, il giornalista
poteva prescindere dalla sussistenza di una “ esplicita e specifica base autorizzatoria
del trattamento”(2) a norma dell’art. 25 che escludeva l’applicazione dell’art. 24 nello
svolgersi dell’attività giornalistica. Diverso ed ultimo livello era quello riservato ai
dati c.d. comuni che potevano essere trattati liberamente, a condizione che fossero
rispettate le disposizioni contenute nel codice di deontologia. Come già premesso
l’accoglienza che ebbe, all’epoca, la costruzione diretta a mediare tra diritto alla
riservatezza e attività giornalistica introdotta dalla l.n. 675 fu tutt’altro che positiva
sollevando le contestazioni sia dei diretti interessati, i giornalisti, che vedevano nella
scelta compiuta dal legislatore un bavaglio alla libertà di stampa, sia da taluni
esponenti della dottrina giuridica nostrana che sottolinearono l’evidente squilibrio
che si era introdotto nel nostro ordinamento a tutto favore dell’interesse del singolo.
Non solo, è necessario aggiungere che l’impronta data dal nostro legislatore al
riguardo si poneva in contraddizione rispetto al trend che caratterizzava l’intero
panorama internazionale. E’ altrettanto doveroso rilevare che con i decreti correttivi
ed integrativi successivi datati 1997 e 1998 sono venute meno le disposizioni più
contestate del testo originario, modifiche che hanno portato ad uno stravolgimento
del primitivo articolo 25 e del sistema in generale, riacquistando così importanza la
principale distinzione tra dati comuni e dati sensibili, offuscando ulteriori sub-
distinzioni. In particolare veniva meno l’intenzione del legislatore originario di
ritagliare all’interno dell’area dei dati
(2) Palmieri A. Trattamento dei dati personali e giornalismo: alla ricerca di un equilibrio stabile. In
R.Pardolesi (a cura di) Diritto alla riservatezza
13
sensibili un’isola impenetrabile quale era divenuta quella dei dati sulla salute e sulla
vita sessuale, c.d. dati “ipersensibili”.
L’art. 25 così come venne riformulato negava certamente la possibilità che il
giornalista potesse essere sottoposto a limiti preventivi (previa autorizzazione del
Garante e consenso scritto dell’interessato) che ormai costituivano un lontano e mai
amato ricordo; certo questo non voleva significare che l’attività giornalistica si
potesse svolgere senza alcun freno, rimanevano i limiti del diritto di cronaca, ma
all’epoca lo stravolgimento dell’originario art. 25 comportò uno spostamento
dell’asse della discussione che ebbe come obiettivo quello di definire concretamente
i “limiti del diritto di cronaca”. Quali erano questi limiti? Che significato aveva
l’espressione “essenzialità dell'informazione riguardo a fatti di interesse
pubblico” a cui faceva riferimento l’articolo 25?
Formula quest’ultima che evocava una nota sentenza della Cassazione del 1984 n.
5259, il cosiddetto “Decalogo del Giornalista” che faceva prevalere il diritto di
cronaca sul diritto alla privacy in presenza della cosiddetta utilità sociale, a cui
andava aggiunta la verità dei fatti esposti (anche putativa) e la forma civile
(continenza) dell’esposizione. Era la combinazione di questi tre elementi che
delineava il contenuto del diritto alla riservatezza e tracciava il confine tra questo e il
diritto di cronaca? Soprattutto quale incidenza aveva sui limiti al diritto di cronaca la
notorietà dell’interessato al trattamento?.
Un nuovo fronte di discussione si stava velocemente amalgamando e la risposta
sarebbe dovuta venire a breve.
Indiscutibilmente le coordinate fornite dal legislatore del ’96 e dal formante
giurisprudenziale, in parte accettate ed in parte rifiutate come è da sempre nell’ordine
delle cose, furono un punto di partenza importante per il legislatore, per la
giurisprudenza e per la dottrina successivi, ma ebbero il torto e nel medesimo istante
il pregio di essere poco concreti, apparendo più contenitori che rigorosi contenuti.
Tali carenze furono, probabilmente, la vera fortuna di tali coordinate “in un campo
dove qualsiasi irrigidimento rischiava di divenire soffocante” evitando così, che il
rimedio scelto fosse peggiore del male che si cercava di sanare.
14
1.4. Cosa è cambiato dopo l’introduzione del d.lgs. 196 del 2003
Il decreto legislativo del 30 giugno 2003, n.196 ha introdotto nel nostro sistema
legislativo il Testo Unico in materia di privacy, titolato “Codice in materia di
protezione dei dati personali”, passo inevitabile e largamente atteso.
Infatti nel 1996 fu approvata accanto alla legge 675 anche un’ampia legge delega
avente lo scopo di adeguare e completare la prima (la già citata l.n. 675) via via che
la sua applicazione pratica lo rendesse necessario anche alla luce delle norme di fonte
comunitaria ed internazionale. La legge delega ha avuto un tale successo che nel
periodo che va dalla sua approvazione fino a metà del 2003 gli interventi legislativi
correttivi ed integrativi sono stati numerosi, producendo una crescita incontrollata del
dato normativo che ha, come noto, disorientato l’interprete e gli operatori del diritto.
Così che la nuova normativa ha avuto da un lato il merito di mettere ordine nel
complicato intreccio normativo poco sopra evidenziato e dall’altro di dare
sistematicità ad una materia complessa ed amplissima, risultando, il nuovo Codice,
non uno strumento meramente compilativo, ma parzialmente innovativo. Parziale
innovazione dovuta anche al metodo di costruzione del decreto legislativo n.196 che
ha fatto opera di armonizzazione e di adeguamento ai principi elaborati dalla
dottrina nel corso degli anni e seguendo per il modellamento delle norme più
significative ed importanti le interpretazioni più forti delle giurisprudenza e delle
decisioni rese dal garante per la protezione dei dati personali.
Nell’esaminare le principali differenze tra la previgente disciplina e il d.lgs 196 del
2003 si è scelto di accogliere quale criterio espositivo l’ordine seguito dalle
disposizioni del Codice della privacy vigente, soffermandoci su ciascuna
disposizione che preveda differenze significative e, quindi marcate e/o parziali
innovazioni.
Un primo elemento di differenziazione è dato dall’arricchimento delle definizioni
che erano contenute nell’articolo 1 della l.n 675. Il nuovo Codice della privacy,
all’articolo 4, ha da un lato aggiunto definizioni che non erano presenti nella
normativa precedente, quali ad esempio quella di “dati giudiziari” e “dati
identificativi”, dall’altro ha chiarito nozioni già in precedenza formulate, quale quella
di “banca dati”. Inoltre è stata disciplinata la figura degli “incaricati” del trattamento,
ossia “le persone fisiche autorizzate a compiere operazioni di trattamento dal titolare o dal
responsabile;”. Nel titolo II della parte I il Codice detta la disciplina dei diritti
dell’interessato individuando in maniera specifica le informazioni che l’interessato
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ha diritto di ottenere dal titolare del trattamento; normativa che all’apparenza, in tal
specifico ambito, sembra esser conforme a ciò che era previsto dall’articolo 13 della
l.n. 675. Non è più previsto il diritto dell’interessato ad essere informato dal titolare
della possibilità di esercitare gratuitamente tale diritto e, soprattutto il diritto di
opposizione in base all’articolo 7, comma 4 ed all’articolo 10, commi 7, 8, 9 del
Codice non è gratuito essendo prevista la possibilità che venga richiesto “un
contributo spese non eccedente i costi effettivamente sopportati per la ricerca effettuata nel
caso specifico”.
L’aspetto più significativo in materia di esercizio dei diritti si rinviene all’interno dei
commi 3 e 4 dell’articolo 8. Disposizione che codifica quelli che erano stati i principi
già in precedenza affermati nelle decisioni e nei provvedimenti del Garante,
consentendo a quest’ultimo di svolgere accertamenti e controlli, anche su
segnalazione dell’interessato, riguardo ai trattamenti indicati nelle lettere comprese
tra a) ed h): “3. Il Garante, anche su segnalazione dell'interessato, nei casi di cui al comma
2, lettere a), b), d), e) ed f) provvede nei modi di cui agli articoli 157, 158 e 159 e, nei casi di
cui alle lettere c), g) ed h) del medesimo comma, provvede nei modi di cui all'articolo 160.
4. L'esercizio dei diritti di cui all'articolo 7, quando non riguarda dati di carattere oggettivo,
puo' avere luogo salvo che concerna la rettificazione o l'integrazione di dati personali di tipo
valutativo, relativi a giudizi, opinioni o ad altri apprezzamenti di tipo soggettivo, nonche'
l'indicazione di condotte da tenersi o di decisioni in via di assunzione da parte del titolare del
trattamento”
Le ipotesi previste dalle lettere tra a) ed h) del comma secondo dell’articolo 8,
specificano i casi in cui i diritti previsti dall’articolo 7 non possono essere esercitati
con richiesta al titolare od al responsabile del trattamento o con ricorso al Garante: “I
diritti di cui all'articolo 7 non possono essere esercitati con richiesta al titolare o al
responsabile o con ricorso ai sensi dell'articolo 145, se i trattamenti di dati personali sono
effettuati: […]” (1)
Nel ventaglio delle novità maggiormente rilevanti apportate dalla disciplina vigente
vi è sicuramente il ribaltamento del sistema delle notificazioni. La l.n. 675
all’articolo 7 prevedeva, in via generale, un obbligo di notificazione al Garante delle
caratteristiche principali dei trattamenti dei dati personali: “Il titolare che intenda
procedere ad un trattamento di dati personali soggetto al campo di applicazione della
presente legge è tenuto a darne notificazione al Garante se il trattamento, in ragione delle
relative modalità o della natura dei dati personali, sia suscettibile di recare pregiudizio ai
(1) La norma elenca a seguire i casi in cui non possono essere esercitati i diritti dall’interessato.