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passaggio del giovane da una realtà all’altra comporta la necessità di
ridefinire e riorganizzare le sue strategie per affrontare con successo
le richieste alle quali è posto di fronte: in pratica, la fase precedente
non è adeguatamente propedeutica rispetto a quella successiva.
Sta emergendo con crescente chiarezza che il fattore-chiave
del successo negli studi e nel lavoro non si esaurisce nel possesso di
conoscenze di base e disciplinari più o meno approfondite, quanto
piuttosto nella capacità di trasferire tali conoscenze al di fuori del
contesto scolastico, per affrontare positivamente problematiche di
studio e, in prospettiva, situazioni lavorative non precedentemente
sperimentate.
Durante la permanenza nella scuola superiore, il ragazzo
tende ad utilizzare un metodo di studio basato sull’introiezione di
nozioni che gli permette semplicemente di accumulare concetti,
sistemandoli grossolanamente in modo da poterli recuperare se
sottoposto alla giusta sollecitazione da parte del docente. Questo
tipo di studio, o meglio di archiviazione di conoscenze, non è
finalizzato al desiderio di imparare, ma è spinto dall’esigenza di
superare il momento dell’interrogazione, dalla paura dell’errore
(vissuto sempre in negativo), dalla frustrazione per l’insuccesso di
fronte ad una valutazione negativa.
Se questo tipo di comportamento adottato dagli studenti può
essere funzionale nella scuola superiore, diventa disfunzionale nel
- 7 -
passaggio all’università e al mondo lavorativo. In questa nuova
realtà gli studenti si trovano a dover assimilare molte più nozioni,
ma sono al contempo sprovvisti dei meccanismi adeguati che
regolano l’accumulazione del sapere e la sua organizzazione in
funzione dei risultati da raggiungere.
All’università, infatti, la necessità di costruirsi una competenza
disciplinare più organica, di individuare e sviluppare le connessioni
tra discipline diverse, di programmare e organizzare con autonomia
crescente la propria attività, richiede competenze diverse rispetto a
quelle che, in generale, appaiono sufficienti per andar bene a scuola.
Risulta perciò chiaro che i giovani non sono in grado di
riorganizzare il proprio sapere in funzione del loro nuovo mestiere
di studenti universitari e, in prospettiva, di lavoratori.
Questa carenza, dal punto di vista dell’università, può essere
letta anche in riferimento a due elementi concreti, come la diffusa
percezione da parte dei docenti universitari del livello decrescente
della preparazione dei nuovi iscritti e altre più generali criticità che le
analisi relative alla qualità dei percorsi universitari italiani mettono in
luce.
La stessa insoddisfazione nei confronti dei giovani
provenienti dal sistema formativo è rilevabile anche dal lato delle
imprese; emerge, infatti, il divario tra il sistema di nozioni acquisite
dai giovani e la richiesta delle aziende di capacità operative,
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immediatamente spendibili nell’ambito lavorativo. Viene evidenziata
una carenza non tanto nella mancanza di conoscenze, quanto
nell’incapacità di applicarle efficacemente ed autonomamente, al di
fuori di una situazione di stimolo puntuale: si sostiene quindi che i
giovani non sappiano fare.
Da qui nasce la necessità di stabilire obiettivi
d’apprendimento condivisi, da definire e sviluppare in funzione
delle esigenze di tutti e tre gli ambiti in questione.
Durante il periodo di tirocinio svolto a Milano presso la
società di consulenza e ricerca Gruppo CLAS ho avuto
l’opportunità di partecipare a una serie di progetti sul passaggio dei
giovani dalla scuola superiore all’università e, in prospettiva, al
mondo del lavoro. Nello specifico, le tematiche trattate in questo
contesto possono essere riassunte nella domanda: “quali sono e
come possono essere sviluppate le competenze che i giovani
devono acquisire durante gli studi secondari per affrontare
con successo l’università e l’attività professionale?”.
La competenza in questa logica diventa quindi l’obiettivo
d’apprendimento condiviso al quale accennavamo poco sopra.
Il progetto si articola su tre aree descritte di seguito:
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1) “Valutazione degli apprendimenti”
1
nasce nel 2001 all’interno
del più ampio Progetto “Qualità, autonomia, innovazione del
sistema scuola” finanziato dalla Regione Lombardia (Progetti
FSE Obiettivo, Asse, Misura 3. C. 1
2
) e si è sviluppato grazie
all’attiva partecipazione del Polo Qualità di Milano,
Assolombarda, alcune Università
3
e scuole Superiori della
provincia di Milano, l’Ufficio Scolastico Regionale e la società di
consulenza e ricerca Gruppo CLAS.
1
Il progetto “Valutazione degli apprendimenti” costituisce un’articolazione del Progetto:
FSE 2000/2001 – Obiettivo Asse Misura 3.C.1 ID Progetto 20420 QUALITÀ,
AUTONOMIA, INNOVAZIONE DEL SISTEMA SCUOLA id. Ente 4891 – ITC
Schiaparelli-Gramsci via Settembrini, 4 – Milano.
2
L'Obiettivo 3, finanziato dal Fondo Sociale Europeo (FSE), riguarda tutto il territorio
dell'Unione ad eccezione delle regioni Obiettivo 1. In Italia interviene nelle regioni del
Centro-Nord: Valle d'Aosta, Piemonte, Liguria, Lombardia, Veneto, Provincia Autonoma di
Bolzano, Provincia Autonoma di Trento, Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna, Toscana,
Umbria, Marche, Lazio, Abruzzo. La programmazione degli interventi finalizzati al
conseguimento di tale Obiettivo in Italia è contenuta nel Quadro Comunitario di Sostegno
per l'Obiettivo 3 2000-2006 (QCS), approvato con decisione della Commissione 1120 del 18
luglio 2000. L'obiettivo 3 2000-2006 interviene finanziariamente per sostenere l'adeguamento
e la modernizzazione delle politiche e dei sistemi di educazione, di formazione e occupazione
e fornisce un quadro di riferimento per tutte le attività di sviluppo delle risorse umane
nell’ambito dei Fondi Strutturali. Tutte le attività sono complementari alla strategia europea
dell’occupazione. Inoltre l’Asse C è volta alla promozione e miglioramento della formazione
professionale, dell’istruzione, e dell’orientamento, nell’ambito di una politica di
apprendimento nell’intero arco della vita, al fine di: agevolare e migliorare l’accesso e
l’integrazione nel mercato del lavoro, migliorare e sostenere l’occupabilità e promuovere la
mobilità professionale; e la Misura 1 è volta ad adeguare il sistema della formazione
professionale e dell'istruzione.
3
Inizialmente il Politecnico di Milano, l'Università Cattolica e l'Università Bocconi.
Successivamente l'Università degli studi di Milano, l’Università di Milano – Bicocca e
l’Università di Trento.
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2) “Interventi integrati tra scuole superiori, le università e le
imprese milanesi per lo sviluppo delle competenze
strategiche richieste dall’università e dal mondo del lavoro”
a.s. 2002/2003
3) “Scuole, Università, Imprese” a.s. 2003/2004
I progetti erano focalizzati sul percorso che il giovane
intraprende nell’ambito universitario e in quello lavorativo, sulle
diverse problematiche che deve affrontare e di conseguenza
sull’individuazione delle strategie più efficaci per rispondere
positivamente alle nuove richieste che riceve: in pratica, sulle
competenze che deve possedere e su come le possa sviluppare
all’interno del suo percorso scolastico secondario, in modo che
questo risulti davvero propedeutico alle fasi successive del proprio
iter di studio o di attività professionale.
L’obiettivo generale della serie di progetti citati, centrati sul
concetto di competenza, è quindi quello di avvicinare il mondo
della scuola all'università e al lavoro in una logica di continuità che
conservi e valorizzi le ricchezze e le diversità dei loro sistemi
formativi.
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Il concetto di competenza è quindi al contempo una
possibile risposta alle criticità evidenziate in precedenza e la chiave
di lettura privilegiata dei progetti stessi.
- 12 -
PRIMA PARTE
Il concetto di competenza
e i suoi ambiti di applicazione
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1 Capitolo
LA COMPETENZA
1.1 Conoscenza e competenza
Uno dei problemi che da sempre hanno travagliato e
coinvolto l’uomo è il rapporto tra teoria e prassi. Nel pensiero greco
la teoria era assimilata alla speculazione o vita contemplativa.
Aristotele identificava la teoria con la beatitudine. In tal senso, la
teoria è opposta alla pratica e ad ogni attività interessata, che cioè
non sia finalizzata alla contemplazione.
La parola greca “theôria” ha infatti la stessa radice semantica
del verbo theàomai = osservo, contemplo. Sia nel mondo greco sia in
quello romano vi era una netta opposizione tra “scholé” e “ascholìa”,
tra “otium” e “negotium”. La “scholé” (da cui il latino “schola” e il nostro
scuola) e l’“otium” erano il tempo dedicato all’attività libera (arte,
filosofia, poesia, musica, ecc), mentre il tempo dedicato agli affari
pratici era “non otium”, “nec-otium” cioè “negotium”.
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Sappiamo che il linguaggio è il manifestarsi simbolico del
pensiero, il nostro modo di concepire il mondo
4
[Gadamer, 1989],
strettamente connesso al formarsi dei concetti e dei significati. Se
pensiamo all’evolversi del significato di “otium”, da valore positivo
ad una connotazione decisamente negativa, comprendiamo quanto
abbiano influito su tale evoluzione semantica i valori della società
mercantile e successivamente industriale, che si identificano con il
lavoro, l’attività, la produzione.
Ebbene, tale antinomia tra teoria e pratica, tra “otium” e
“negotium” è continuata fino ai nostri giorni. I due campi sono
apparsi troppo spesso separati, quasi inconciliabili. Pensiamo ad
esempio alla filosofia crociana dei distinti, che separa nettamente
l’estetica e la filosofia dalla pratica, costituita dall’economia e dalla
politica.
A seguito di ciò, si sono tenute eccessivamente separate la
cultura e l’apprendimento professionale e tecnico, mentre è sempre
più necessario superare tali barriere e rendere il più possibile
armonico il passaggio dal mondo scolastico a quello lavorativo: in
quest'ottica, si è sviluppato il concetto di competenza, che si
potrebbe definire sinteticamente “capacità di adattamento della
teoria alla situazione pratica”.
4
H.G. Gadamer, Verità e metodo, trad. e cura di Gianni Vattimo, Milano, Bompiani, 1989.
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È inoltre fondamentale capire che, data l’estrema complessità
della nostra società altamente tecnologica e l’estendersi esponenziale
dei mezzi di conoscenza e di comunicazione, il periodo
dell’apprendimento e della formazione non può essere limitato
all’età adolescenziale e giovanile, come accadeva un tempo, ma deve
estendersi a tutto l’arco della vita.
Inoltre si rende sempre più necessaria una competenza duttile
e adattabile a situazioni sempre nuove e a contesti in continuo
mutamento. Fino a pochi anni fa esistevano lavori e professioni
“stabili”, che richiedevano competenze determinate, valide anche
per tutta la vita lavorativa. Occorrevano anni per creare un buon
tecnico, un buon esperto, ma una volta acquisite le competenze
necessarie, difficilmente ne veniva messo in discussione il ruolo; le
mansioni e le funzioni erano ordinate in modo gerarchico. Ora
invece ogni attività lavorativa e professionale richiede una gran
capacità di adattamento e figure professionali, così concepite,
difficilmente si adatterebbero, nel breve periodo, ai cambiamenti
della modernità, se non potessero disporre di una possibilità
d’apprendimento continuo, per tutto l’arco della vita.
Ai lavoratori oggi si richiedono forse minori capacità manuali,
ma maggiori conoscenze e competenze intellettuali e culturali; non
più mansioni fisse e atti ripetitivi, ma piuttosto prontezza ad
apprendere in azienda, valorizzazione delle conoscenze e delle
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esperienze di cui sono in possesso, disponibilità al cambiamento e
all’assunzione di responsabilità.
Di qui sorge il concetto di long life learning, formazione
permanente, alla base del quale dovrebbe essere sviluppata la più
importante delle competenze, definita anche meta-competenza
5
, la
“competenza ad apprendere”, la continua capacità di imparare ad
imparare.
1.2 Dall’etimologia della parola al significato
E' interessante ricostruire la storia della parola competenza dal
significato originario latino di “cum-petere” = dirigersi insieme,
convergere (usato per esempio a proposito di strade, da cui
“compitum” = incrocio), fino al verbo italiano “competere” nel senso
di concorrere, ossia convergere verso un comune obiettivo, da cui
competizione per ottenere qualcosa
6
. Il termine competenza quindi
5
C. Montedoro, (a cura di), Apprendimento di competenze strategiche. L’innovazione dei processi
formativi nella società della conoscenza, Isfol strumenti e ricerche, Milano, Franco Angeli, 2003.
6
Alle origini “peto” deve avere inglobato i valori semantici di “pedo” = muovo i piedi, mi
muovo. Una base remota in questo senso è offerta dall’ebraico “patah” = aprirsi una strada,
camminare e dall’accadico “patiu” = aperto. Un altro significato di “peto” è chiedere (si pensi
al tedesco “bitten” = chiedere, pregare), da cui deriva la parola “petizione”. Dal sito:
www.bottegadellaformazione.it.
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non è entrato nell'italiano da una lingua straniera moderna
7
.
Pertanto, tenendo conto di questa valenza etimologica, possiamo
definire la competenza come “capacità di orientarsi in determinati campi,
potestà d’azione, autorità legittima per attinenza, spettanza”
8
. La
“competenza” è quindi la facoltà di giudicare o l’abilità di chi
conosce, la capacità di adattare le proprie conoscenze ad un
determinato contesto.
Il termine “competenza” oggi ha assunto un valore pregnante
molto forte rispetto al campo semantico di alcuni anni fa. Tuttavia,
proprio per il suo ampio uso, per una legge linguistica secondo cui
una parola troppo usata perde in incisività semantica, è diventata
polisemica e fonte di ambiguità concettuale, quasi uno slogan
ricorrente in prospettive disciplinari e in contesti diversi: è
largamente usata in vari settori, dalle scienze organizzative agli studi
psicologici cognitivi e socio-culturali, in ambito di valutazione e
certificazione nelle politiche del lavoro.
Si ritiene quindi necessario fare chiarezza concettuale su
questo termine, diventato oggi fondamentale anche nelle politiche
scolastiche e formative.
7
Il vocabolo latino “competentia” ha infatti fornito la base per le lingue neolatine (francese
compétence, spagnolo competencia, portoghese compêtencia) e non solo neolatine (inglese competence,
danese kompetence).
8
Definizione del JJ. Gilbert, La guida pedagogica, Roma, Armando Editore, 1981.