Transizione democratica e disgregazione nazionale
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Oggetto di questa nostra ricerca sono i fenomeni disgregativi e i conflitti
centro-periferia che hanno marcato le recenti transizioni in Unione Sovietica,
Iugoslavia e Cecoslovacchia. Nel trattare di questi paesi, prendiamo in
considerazione tutti e soli i casi in cui si è avuto un assetto istituzionale di tipo
etnofederale, una transizione da un regime socialista e un esito disgregativo di
tale transizione.
Comparando questi tre casi analizziamo, in particolare, il diverso grado di
mobilitazione di risorse violente da cui sono stati caratterizzati i processi
disgregativi. La scelta di occuparci di tale variabile è motivata dal particolare
interesse che rivestono i fenomeni di disgregazione violenta e, in un certo senso,
dall’attualità di un simile argomento. Insistere sul grado di mobilitazione violenta
come una delle caratteristiche più rilevanti dei fenomeni disgregativi è forse
superfluo. Se la dissoluzione di stati multinazionali è per forza di cose il prodotto
di un conflitto centro-periferia, non sempre tale conflitto passa attraverso forme
di mobilitazione violenta. Non sempre, insomma, il venir meno dello stato
plurinazionale e la sua sostituzione da parte di diversi stati nazionali comporta
anche il venir meno di quel monopolio legittimo dell'uso della forza che
dovrebbe caratterizzare il potere statuale. Va da sé che quando invece ciò accade,
le conseguenze per le popolazioni che abitano le regioni interessate da conflitti
violenti possono essere devastanti.
Anche dopo il più superficiale dei confronti, quanto accaduto nelle tre
federazioni che analizziamo non può che apparire ben diverso proprio dal punto
di vista della mobilitazione violenta. In Cecoslovacchia si è avuta una
separazione pacifica e virtualmente indolore, che ha condotto alla costituzione di
uno stato nazionale ceco e di uno stato nazionale slovacco. In Unione Sovietica il
processo disgregativo si è accompagnato a numerose forme di conflitto
interetnico e, per quello che a noi interessa, di conflitto centro-periferia. Vi sono
certamente stati episodi di violenza, citiamo tra tutti il caso dei paesi baltici,
dovuti a rivendicazioni autonomiste e indipendentiste delle periferie. Siamo, nel
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caso dell’URSS, di fronte a un quadro complesso in cui, se guardiamo a tutte e
quindici le repubbliche costituenti l’unione, si sono avute differenti risposte dal
centro e dalla periferia che hanno prodotto un panorama in cui alcune separazioni
sono avvenute in assenza di mobilitazione violenta e altre invece hanno
comportato significativi episodi di violenza. Quanto è accaduto in Iugoslavia è
tristemente noto: escluso il caso della Macedonia, vi è stato un ricorso alle armi
generalizzato ed esteso che ha trasformato il processo di disgregazione in una
vera e propria guerra civile. Sebbene sia molto diverso ciò che è avvenuto in
Slovenia da quello che è accaduto in Croazia e in Bosnia-Erzegovina, tutte queste
repubbliche sono state comunque coinvolte in guerre che, pur di durata e
intensità ben differenti, hanno assunto le forme di conflitti armati su vasta scala.
Possiamo dire, generalizzando, che la dissoluzione iugoslava è stata
caratterizzata da un livello di violenza drammaticamente elevato. Una violenza
che, almeno inizialmente, è riconducibile al tentativo di tenere insieme un paese
che, se le cose fossero andate diversamente, sarebbe forse risultato più simile a
una grande Serbia che non a una federazione o a una confederazione.
Prima di occuparci, attraverso la comparazione, delle modalità di
disgregazione, vogliamo analizzare (lo riteniamo necessario) il perché della
disgregazione. Nel farlo, ci rifacciamo a quell’approccio istituzionalista che ha
posto l’accento sul ruolo, appunto, delle istituzioni nel determinare tali tipi di
fenomeni.
In Cecoslovacchia il sistema è caratterizzato da un autoritarismo
accentratore che rende, in realtà, il partito unico la sola forza a detenere il potere.
A differenza che in URSS non vi sono neppure le enormi distanze geografiche,
né le nette differenze culturali che renderebbero necessaria una vera e propria
politica delle nazionalità che, come vedremo, in Unione Sovietica sortisce
comunque alcuni significativi effetti. Siamo dunque di fronte a uno scheletro
istituzionale di facciata dallo scarso significato effettivo, sia se si esamina il
formale funzionamento degli organi di potere, sia d’altra parte, se si guarda alle
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pratiche e ai comportamenti informali, alle direttive non scritte, che
accompagnano il funzionamento delle istituzioni cecoslovacche. Il grado di
democrazia e pluralismo di questo sistema politico è dunque basso e, a fronte di
un medio o elevato grado di autonomia e decentramento formalmente previsto,
quanto accade in realtà è che tale autonomia resta limitata.
Tornando all’URSS, la politica sovietica delle nazionalità si
contraddistingue per un sistema federale complesso e asimmetrico che,
formalmente, garantisce forme più o meno ampie di autogoverno alle diverse
unità etnico-territoriali che compongono la federazione. Tuttavia, durante il
periodo autoritario, più che uno scheletro istituzionale svuotato dal potere
accentratore del partito, hanno avuto importanza quelle politiche di
indigenizzazione e di promozione dell’autonomia culturale che hanno contribuito
a costruire e rafforzare coscienze nazionali ed élite etniche. Come nel caso
precedente, dunque, siamo di fronte a un sistema politico scarsamente
democratico, in cui vengono formalmente garantiti autonomia e decentramento
piuttosto accentuati. L’autonomia effettiva, pur non corrispondendo a quella
prevista dalle leggi e dalla costituzione, conserva tuttavia un certo rilievo, per i
motivi di cui abbiamo appena detto.
La Iugoslavia, in particolare dopo le riforme del 1974, si configura come
un sistema caratterizzato da un marcato policentrismo: ai diversi soggetti federali
viene garantita un’autonomia che è temperata ma non annullata dall’influenza di
un partito che rispecchia anch’esso la struttura istituzionale di tipo confederale
peculiare alle istituzioni politiche in senso stretto. Particolare rilevanza assumono
infatti in Iugoslavia i requisiti di unanimità e varie forme di diritto di veto che
garantiscono ai principali gruppi etnici la possibilità di esercitare una
significativa influenza sul funzionamento delle istituzioni federali. Politiche di
promozione delle specificità linguistiche e culturali, la costituzione di quote
etniche nell’ambito delle stesse repubbliche e province completano questo
quadro, contraddistinto inoltre dall’istituzione di formazioni di tipo militare
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dipendenti da repubbliche e province. In questo paese si ha quindi elevata
autonomia per i soggetti federali, sia formale che sostanziale. Il regime resta
comunque di tipo non democratico, sebbene connotato da un grado di
democrazia e pluralismo in generale superiore a quello degli altri due casi.
Sistemi federali basati su una divisione etnica del territorio, politiche delle
nazionalità volte a salvaguardare le specificità culturali dei diversi gruppi etnici,
la creazione di quadri locali nelle periferie di queste federazioni (per citare solo
alcune delle più importanti tra le politiche che sono state adottate dai regimi
socialisti nel gestire la diversità etnica) hanno verosimilmente creato alcune
precondizioni per lo sviluppo di sentimenti nazionali che, nei casi più estremi,
prima di tali politiche neppure esistevano. Vi sono poi cause istituzionali della
disgregazione più direttamente legate al funzionamento stesso delle istituzioni e
ai meccanismi di bilanciamento tra diversi poteri locali e tra poteri locali e
centrali. Tali meccanismi, spesso privi di reale significato durante il periodo
autoritario caratterizzato dal potere accentratore del partito, sono divenuti
rilevanti, venuta meno o ridottasi (con la liberalizzazione o la democratizzazione)
l’influenza di quest’ultimo e hanno finito per favorire quelle impasse istituzionali
che hanno poi facilitato la dissoluzione delle federazioni plurinazionali. Le
istituzioni hanno perso quindi la capacità di mediare i conflitti centro-periferia
(come pure i conflitti inter- e intraperiferici), favorendo in questo modo soluzioni
al conflitto di tipo disgregativo.
In che misura la strada seguita da questi paesi durante la fase di
transizione si è differenziata e in che misura ha giocato un qualche ruolo nel
definire le modalità violente o meno dei processi disgregativi? Anche se
guardiamo a questo aspetto le differenze tra quanto accaduto in URSS, Iugoslavia
e Cecoslovacchia sono molteplici. Esaminando quest’ultimo caso, ci accorgiamo
di come si sia passati, nell’arco di pochissimo tempo, da un regime
post-totalitario a un sistema politico che si è mosso a grandi passi verso una
democrazia compiuta. L’URSS rappresenta un caso intermedio. Gorbaèëv ha
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tentato a più riprese, con modalità differenti, di riformare il sistema. Alle spinte
centrifughe l’ultimo leader sovietico ha risposto spesso da
“riformatore-conservatore”. Il sistema è poi crollato, con più di uno scossone,
dopo il fallimento del golpe dell’agosto del 1991 e con la definitiva vittoria di
El’cin, il grande riformatore. Se guardiamo infine ai cambiamenti nel sistema
politico iugoslavo, ci accorgiamo che la nuova costituzione del 1974 e la morte
di Tito rappresentano due importanti punti di passaggio e di cambiamento
dell’assetto politico del paese. Una lenta transizione, un profondo mutamento,
sono iniziati proprio da questo momento. Si è a questo punto creata una
situazione in cui le rivendicazioni delle periferie sono divenute sempre più forti
mentre il centro (o, se si preferisce, la componente serba in seno alla federazione)
ha mosso nella direzione opposta o, addirittura, ha sviluppato un nazionalismo
uguale e contrario a quello delle repubbliche più periferiche.
Riassumendo, nel caso cecoslovacco si è avuta una veloce caduta del
regime post-totalitario e una rapida sostituzione della vecchia classe dirigente
con una nuova élite democraticamente legittimata. Negli altri due casi, al
contrario, si è avuta una transizione estremamente discontinua in cui
fondamentale è stato il ruolo delle élite comuniste e che, nel caso della
federazione balcanica, è durata più di un decennio, mentre in Unione Sovietica è
iniziata poco dopo la salita al potere di Gorbaèëv ed è durata circa cinque anni.
Altra caratteristica delle transizioni che è variata nei tre casi in esame è
quella che definiamo come polarizzazione centro-periferia. In Cecoslovacchia la
distinzione tra hard-liners e soft-liners è difficilmente sovrapponibile con quella
tra classi dirigenti locali e classi dirigenti del centro. In Unione Sovietica si sono
avute invece significative discrasie per quello che concerne l’orientamento alle
riforme delle élite repubblicane e delle élite del centro. In Iugoslavia è stato lo
stesso dibattito sulle riforme e sul decentramento che si è avuto tra le leadership
repubblicane a dare origine a spinte tra loro in forte contrasto.
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La regolarità che emerge nell’ambito dei casi trattati è dunque che
transizioni iniziate come liberalizzazioni promosse dalle élite autoritarie o
post-totalitarie, maggiormente discontinue, più lente e caratterizzate da una
maggiore polarizzazione centro-periferia, danno origine a disgregazioni in
generale più violente (ovviamente in presenza dei presupposti etnici e
istituzionali perché ciò accada).
Nello spiegare questo fenomeno poniamo l’accento sulla nascita, in
seguito alla maggiore apertura del sistema politico, di rivendicazioni delle
periferie. I fenomeni di mobilitazione violenta centro-periferia hanno luogo
dunque proprio quando il centro risponde in modo non democratico a spinte della
periferia, che tuttavia possono manifestarsi proprio grazie a una riduzione della
pressione autoritaria. Evidentemente, una maggiore polarizzazione
centro-periferia non può che favorire ulteriormente quei fenomeni di conflitto
che, in simili contesti, più facilmente divengono di tipo violento.
Le fasi di liberalizzazione hanno come obiettivo il raggiungimento di un
certo grado di pluralismo soprattutto nell’ambito della società civile e (assai
meno) all’interno delle stesso istituzioni politiche. Esse dunque vengono guidate
da settori delle élite autoritarie (o post-totalitarie) non impegnate in una completa
trasformazione democratica del sistema politico, quanto piuttosto nel tentare di
consolidare un regime non democratico attraverso una sua (più o meno profonda)
riforma. D’altro lato, è inevitabile che in federazioni multietniche come quelle
che stiamo esaminando, a una maggiore “apertura” al centro corrisponda la
nascita di rivendicazioni di autonomia provenienti dalle periferie in cui sono già
presenti istituzioni locali, che divengono rapidamente un importante spazio di
azione politica. Quella rottura degli equilibri che caratterizza le fasi di
liberalizzazione assume in questi casi le forme di una disgregazione violenta.
Ove possono rimanere assenti le precondizioni per uno sviluppo democratico, vi
è comunque la possibilità che le rivendicazioni nazionali delle periferie possano
ottenere più ampi spazi di espressione. Ma, come detto, non si è in presenza di
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una democratizzazione. Quella tensione che, durante le fasi di liberalizzazione,
coinvolge società civile, hard-liners e soft-liners all’interno delle élite, in tali
contesti diviene, forse in misura ancora maggiore, tensione e conflitto
centro-periferia. E’ in situazioni come queste che la risposta del centro,
soprattutto durante quelle fasi di involuzione autoritaria che marcano le
transizioni discontinue, può essere violenta. Fenomeni di mobilitazione di risorse
violente avvengono proprio quando siamo in presenza di un regime che si trova
“in mezzo al guado”. Si ha una situazione, dunque, in cui si è consentito che
nelle periferie etniche rivendicazioni nazionali trovino maggiori possibilità di
manifestarsi. D’altra parte lo stesso regime resta non democratico e, quando le
élite o alcuni settori di esse (ad esempio gli apparati militari e repressivi),
percepiscono la minaccia di pressioni che vadano a minare le basi del proprio
potere, reagiscono con i mezzi che hanno a disposizione, che includono anche
risposte di natura militare, coercitiva o simili. Parallelamente, se nelle periferie vi
sono maggiori possibilità per dare voce alle proprie rivendicazioni, in realtà le
periferie stesse sono ancora parte di un sistema non democratico, in cui lo
strumento della mobilitazione violenta diventa l’unico mezzo a disposizione per
avanzare le proprie istanze.
Un importante fattore nel determinare l’esito disgregativo che ha marcato
le transizioni in Unione Sovietica e in Iugoslavia è stato il fatto che le prime
consultazioni multipartitiche si sono svolte a livello repubblicano e non federale.
Ciò ha contributo a rendere un nazionalismo etnico non inclusivo la forza più
dinamica in un panorama politico in cui il centro è rimasto debole e soprattutto
privo di qualsiasi tipo di legittimazione. E’ poi vero che una reazione violenta dal
centro si è avuta quando le periferie hanno giocato, oltre alla carta del
nazionalismo, quella del pluralismo politico, e ciò è accaduto, appunto, nei paesi
baltici e in Slovenia. In tal caso l’azione degli apparati repressivi è stata volta
anche a difendere le prerogative di un apparato di potere non democratico, oltre
che, più in generale, a tenere in piedi una federazione autoritaria. Vi è poi
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qualche episodio di segno opposto, in cui cioè la resistenza delle élite locali al
cambiamento è divenuta il catalizzatore di forme di mobilitazione violenta e di
una possibile risposta autoritaria o coercitiva da parte del centro. In conclusione
possiamo dire che la polarizzazione centro-periferia, sebbene non sovrapponibile
a una semplice crescita delle rivendicazioni nazionali delle periferie, è
certamente legata a filo doppio a fenomeni di mobilitazione etnica e, più
specificamente, pare essere stato uno dei fattori che hanno favorito forme di
mobilitazione anti-centro. Questo è accaduto nei casi in cui un maggiore
pluralismo politico nella periferia ha consentito la nascita di movimenti di
ispirazione nazionale, la cui azione ha suscitato una reazione da parte di un
centro ancora caratterizzato in senso autoritario. Oppure, più raramente, ove le
leadership locali hanno rivestito di una patina di nazionalismo quello che è stato
in realtà un tentativo di opporsi alle riforme. Oltre agli episodi di questo tipo che
hanno coinvolto l’Asia centrale, e in particolare il Kazachstan, è possibile
chiedersi se quanto accaduto nella stessa Serbia non possa essere analizzato
facendo uso di una spiegazione di questo tipo. A nostro avviso, i richiami
nazionalisti e demagogici che hanno dominato il panorama politico serbo
possono essere considerati come uno degli strumenti di cui la classe dirigente
locale si è dotata per opporsi a una ulteriore liberalizzazione e/o
democratizzazione del sistema politico iugoslavo. In questo senso la
polarizzazione centro-periferia e, in particolare, la contrapposizione tra Slovenia
e Serbia, ha avuto una funzione rilevante come catalizzatore dei diversi
sentimenti nazionali.
In conclusione, il risultato più significativo del nostro lavoro è
l’individuazione di un legame che unisce le modalità di transizione alle modalità
con cui hanno luogo i processi disgregativi. Ferme restando le precondizioni
istituzionali di cui abbiamo detto, un primo gruppo di fattori (in parte correlati tra
loro) che accrescono il grado di mobilitazione violenta da cui sono caratterizzati
tali fenomeni è costituito dalla presenza di fasi iniziali di liberalizzazione e da
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durata e discontinuità più elevate delle fasi di transizione. Un’altra variabile, che
ha sempre un effetto di segno positivo sulla mobilitazione di risorse violente, è il
grado di polarizzazione centro-periferia che contraddistingue la fase di
transizione.
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