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C’ero anche io all’incontro misterioso fra le tante culture e le
differenti religioni, all’evento straordinario di inizio millennio tenutosi in
Italia, ero un giovane fra milioni, tutti uguali, tutti diversi, che si
accingevano a vivere, per la prima volta o forse l’ultima, la GIORNATA
MONDIALE DELLA GIOVENTU’ (confidenzialmente la GMG).
Oltre che come giovane, però, ero lì in uniforme da volontario di
accoglienza in ambito logistico, quelli a cui è chiesto di eliminare ogni
barriera per far spazio alla condivisione e alla convivenza nel rispetto di
tutti, quelli a cui era richiesto di essere ovunque e a tutte le condizioni,
perché se hai accettato è ovvio che non hai riserve. Per cui con la mia
bell’uniforme blu, il mio pass e il vademecum del buon volontario mi sono
spostata in ogni dove e a qualsiasi ora, dal centro della Capitale
all’estrema periferia, passando per metropolitane e stazioni ed è in questi
spostamenti che ho avuto il mio colpo di fulmine...
Ovunque mi trovassi, qualunque fosse la realtà a cui,
momentaneamente, adattarsi, il contesto era sempre identico: metri,
chilometri, spazi condivisi di colori, regole, firme e messaggi di mittenti
indefiniti e sconosciuti, ai miei occhi.
Ovunque mi trovassi c’erano adolescenti dai vestiti larghi, con gli
anfibi o le scarpe da ginnastica senza stringhe, con t-shirt alla moda o
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felpe con cappuccio, che, di notte, armati di bombolette colorate e con
motivi rap nelle orecchie, facevano spazio ai loro pensieri, lasciavano
impronte della loro aggregazione, sceglievano accuratamente le loro tele di
cemento, per fare il proprio “pezzo”, per trasferire la propria impronta, dal
foglio alla parete, non interessandosi all’esclusività, ma alla perfezione, da
esprimere ovunque potesse essere letta e magari capita la mattina
seguente, senza prediligere un determinato luogo, spostandosi dai parchi
di periferia alle pareti e ai vagoni della metropolitana o a quelli depositati
in stazione centrale, dal quartiere di Fara Sabina, all’EUR ovunque, senza
esclusione di colpi.
Ovunque mi trovassi, a colorare le mie giornate e i miei spostamenti
c’era sempre lei, quell’anima irrequieta che accompagna puntualmente
me e voi in ogni spostamento, anche oggi, anche se non ci fate più caso:
l’anima indelebile dell’Hip hop, cultura africana giunta in Italia dopo
aver attraversato innumerevoli frontiere che hanno avuto come punto di
partenza un luogo circoscritto, il Bronx. L’unica, azzardo l’ipotesi, che
dall’era del rock ’n roll sia stata così dirompente.
È stata – ed è diventata nell’immaginario collettivo – l’allegoria del
riscatto di una comunità di uomini e donne che trovano nel Dj-ing, nella
musica Rap, nel Writing e nella Break - dance, l’occasione di ribellarsi
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pacificamente alla miseria del ghetto, la cultura rivelatasi come
l’eccezione a conferma della regola. Come i giovani della GMG, infatti,
ha sfidato, vincendo, la convinzione di chi crede che due culture diverse
non possano coesistere senza che una delle due si annulli. Essa
rappresenta un’innovazione profonda nella black culture. Il messaggio
che l’Hip hop manda al mondo, al di là dal contenuto delle canzoni, è
che chiunque può produrre musica se è capace di salire su un palco a
rappare o scratchare con due piatti o lanciare un messaggio se è capace di
usare l’aerosol art.
Parlo e condivido con voi la passione per quella cultura che ormai
troviamo riprodotta in ogni realtà urbana, non solo quelle che
s’interessano di adolescenza. Degli esempi? Basta prestare attenzione alle
varie forme di pubblicità, da quella del nostro gestore telefonico a quella
dell’automobile dei nostri sogni. Per la diffusione sul mercato della
maggior parte dei prodotti a largo consumo, i pubblicitari si servono
degli stili, ma anche dei capolavori, musicali e grafici, di alcuni fra i
migliori rappresentanti dell’Hip hop. E non solo. L’Hip hop ha
contaminato anche le grandi gioiellerie, firme come Cartier o Irina
Volkonvski si sono serviti di evidenti richiami al fenomeno in
argomento per le loro nuove creazioni e, la manifestazione, non è
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neanche sfuggita agli stilisti della Sugar Babe o Heatherette che per le
passerelle di moda hanno ripreso l’arte in questione.
Parlo e voglio condividere con voi i miei studi su qualcosa che va
ben oltre la moda, è un movimento culturale, ben distinto dal semplice
fenomeno commerciale che si vorrebbe far coincidere con una stagione
limitata, realtà che nell’anno appena terminato si è tra l’altro espressa sul
grande palco dell’Ariston, pista di decollo di molti cantautori, prodotto
nostrano ligure: il Festival di Sanremo. Ad oltre venticinque anni dalla
sua nascita, l’Hip hop non è più un fenomeno per pochi
appassionati. Oggi i più giovani riscoprono il confronto a microfono
aperto in stile old school. I campionatori più raffinati riprendono suoni che
s’ispirano a quel periodo. Il rap torna a diffondere messaggi. Lo slogan
più ricercato nella nuova scuola? Education and entertrainment, lanciato
a suo tempo dall’affermato KRS One, sicché anche lo stile ritrova il suo
sapore originario: mettere in scena non la tecnica, ma la passione e la creatività.
Parlo e voglio condividere con voi le mie ricerche su questa cultura,
sulla sua storia, i suoi contesti, sui suoi artisti di strada: persone che
popolano la notte, gli artisti delle pareti_Writer_, delle acrobazie _ Break -
dance_ scandite da un giradischi manipolato_Turntablism_, delle frasi rimate_
Rap _con un’unica intenzione: tentare di convincere anche i più
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scettici, attraverso un cammino che mi porterà a descrivere tale cultura
dalla sua nascita alla stessa diffusione in tutto il mondo, anche nelle
realtà locali più prossime a noi, che questa grande eccezione, non è più,
solo, un atto di vandalismo, attribuibile a chi imbratta le belle e tristi
pareti delle nostre città, ma, con gli opportuni atti educativi e magari
legislativi, esso sta diventando e potrebbe continuare a farlo, una vera e
propria forma d’arte condivisa volontariamente da tutti.
Del resto è proprio nel corso dei miei studi che ho appreso di
quelle realtà difficili da far comprendere in cui risiedono, ma non sono destinati
a viverci per sempre, persone su cui nessuno scommetterebbe mai,
perché è troppo dispendioso, perché le entrate sono spesso inferiori alle
uscite, tanto che si è spesso tentati dal lasciar perdere, ma non lo si fa,
perché noi non ci occupiamo di economia, bensì di persone…
Parlo e condivido con voi la mia prima scommessa in un mondo
ancora ovattato come può essere la carta di una tesi, dal quale spero avrà
inizio la pratica di ciò che mi è stato insegnato.
È una gran pretesa, è vero, ma del resto la vita è un rischio che bisogna
correre…
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CAPITOLO PRIMO
I fatti
1.1. Fuori dal pregiudizio universale: la Zulu Nation
"Ecco spuntare da un mondo lontano
l'ultimo mostro peloso e gigante
l'unico esempio rimasto di mostro a sei zampe...
(...) dicono che sia capace di uccidere un uomo,
non per difendersi, ma solo perché non è buono
dicono loro che sono cronisti d'assalto,
classe di uomini scelti e di gente sicura,
ma l'unica cosa evidente,
l'unica cosa evidente è che
il mostro ha paura.
Il mostro ha paura..."
SAMUELE BERSANI ‘Il mostro
1
"La morte corporale è l'unica cosa certa della vita" sentenziano gli
anziani del mio paese e "solo di essa bisogna avere paura"; questa, però, è
un timore che non mi tocca più da qualche tempo, perché sono abituata
all'idea, non solo per effetto degli eventi grigi della mia vita, ma anche
perché sono stata educata nei principi della religione cristiana, ove la
gente insegna che oltre la vita terrena ce n’è un’eterna a cui si giunge
dopo la morte della carne e, credo, che se s’insegnano tali cose è perché
si crede fermamente in esse. Per cui avere paura di una cosa positiva, per
un cristiano, è, di fatto, uno spreco di tempo.
1
SAMUELE BERSANI ‘ Il mostro ’ da Che vita
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C'è, invece, una paura che m'insidia. È la morte della mia irripetibilità,
l'eliminazione del mio essere persona, per far spazio alla logica del
conformismo.
Quotidianamente, infatti, ogni essere umano è oggetto della
minuziosa analisi attraverso il microscopio elettronico detenuto
dall'opinione pubblica. Ogni istante della nostra vita, siamo osservati per
quel che diciamo, facciamo, per le posizioni che non prendiamo, per
l'origine che abbiamo, per i vestiti che indossiamo, per il gruppo etnico al
quale apparteniamo e molto, molto ancora. Ogni giorno il nostro essere
è catalogato e archiviato in rigide impronte, che non fanno caso ai
fattori distintivi di ognuno di noi, bensì a quelli omologanti che la società ci
attribuisce senza possibilità d’appello.
Ognuno ha la sua bell'etichetta alla quale sembra non si possa
sfuggire, neanche quando le regole dell'opinione dominante divengono
dannose o incorrono in errori madornali. Qualsiasi libro di storia ci narra
di massacri di innocenti generati nella maggior parte dalle regole del
pregiudizio razziale, che non da' spazio all'unicità dell'uomo, ma si
accontenta di massificare gli esseri, alienandoli dalle loro personalità. In tal
modo, effettivamente, è più facile controllare i singoli esseri al fine di
evitare una ribellione contro la realtà che rende disumani. Anche perché,
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riflettiamoci un attimo, sembra ovvio pensarla così, chi agisce in gruppo
ha più vantaggi, uno fra tutti la protezione; se, infatti, il gruppo incorre in
un errore, nessuno andrà mai a chiedere al singolo componente che
questo paghi per la sua responsabilità, perché non solo la responsabilità è
condivisa, ma il gruppo ha sempre una forza superiore rispetto al singolo
colpito dall'errore, in quanto questi è più debole, è unico.
Gli immigrati, per esempio, se volessimo dare spazio alla razionalità
selettiva delle razze, appartengono a una razza di numero inferiore e,
soprattutto, sono ospiti in una nazione con una razza dominante, perché
di numero superiore, anche se al di là di questa ratio selettiva "al mondo c’è
solo una razza: quella umana".
2
Ordunque, sarebbe concretizzabile un’insurrezione contro
l'opinione dilagante, anche se essa è sbagliata, da parte di un soggetto di
razza inferiore, per cultura o per budget economico, che sa di essere
ospitato presso una nazione altrui e che si ipotizza gli dia seppur in
minima parte ciò che cerca? Dubito fortemente, anche se l’insurrezione
fosse basata su elementi evidenti.
"Quell’uomo mi fa paura, mamma" sussurrò Judy
"Perché, figlia mia?"
"Perché è nero come una scarpa"
2
Slogan di apertura de “La notte delle stelle”. Cerimonia in memoria del Cinquantesimo
Anno dall’Olocausto - 27 gennaio 1995 -
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"Non è il primo nero che vedi, Judy. Lo sai che c'è gente di diverso colore ed è bene che sia così. Noi
bianchi siamo in minoranza"
"Io vedo più bianchi che neri, mamma!"
"Questo è solo un pezzo di mondo, Judy. In Africa ci sono più neri che bianchi.
In Cina hanno la pelle gialla e se noi vivessimo a sud del confine saremmo bestie rare,
la gente per strada rimarrebbe sbalordita dinnanzi i tuoi capelli così chiari."
"Però quell'uomo mi fa paura!"
"La pelle non conta niente. Guardagli gli occhi, sembra un uomo buono"
3
Già, gli occhi, "la lanterna del nostro corpo" come si evince dal
Vangelo di Luca (11,34), l'organo che riverbera a pieno il nostro animo,
eppure, ci si affida sempre meno a tale riflesso, per fidarci,
paradossalmente, di quello che guardano i nostri occhi, talvolta offuscati
dai giudizi che in precedenza ci si è fatti di una persona e del suo modo
di essere, giudizi che spesso si distanziano molto dall'essenza del vedere.
Accade, allora, che nelle relazioni con i nostri simili, ogni gesto,
ogni frase, ogni espressione venga giudicata non per quel che è, ma per
quel che sembra, questo perché nella maggior parte delle situazioni,
siamo guidati da "atteggiamenti, non confermati empiricamente, che
ingiustificatamente si rivelano sfavorevoli a chi appartiene a determinati gruppi
sociali"
4
, per cui, anche, se talvolta sembriamo predisposti ad ascoltare quanto
3
ALLENDE I."Il piano Infinito" (El plan infinito), Feltrinelli, Milano, 1992, pag. 17
4
ATTILI G. "Introduzione alla psicologia sociale", Saem grafica, Formello, 2001, pag. 260
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gli altri ci vogliono dire, di fatto, lo facciamo solo per verificare che
quanto è pronunciato dal nostro interlocutore, si confà, con l'idea che di
questi ci siamo fatti precedentemente.
Se poi, l’ipotesi è, stranamente smascherata dalla realtà, come spesso
accade, ci rifiutiamo in ogni caso di accertarla, spingendoci talvolta anche a
risoluzioni estreme.
"Se qualcuno ti dice che non sei più lo stesso e che sei cambiato, non credergli, era lui
che si era sbagliato prima." (Aldo Moro)
Spesso, ancora, purtroppo, mi capita di parlare con un vastissimo
numero di persone, anziane o giovani che siano, che si rivolgano a
determinate persone come se dirigessero il loro sguardo ad impotenti e
‘inumane’ categorie e, nella maggior parte delle situazioni, il concetto di persona
viene eluso per dar spazio a pre-giudizi, ormai, neanche più percepiti come
tali, tanto da considerare esatte le proprie posizioni rispetto all’animo ed
alle sensazioni che vivono queste persone.
Mi riferisco, per esempio, a quelle situazioni in cui si parla
dell’omosessualità o per classificare qualcuno con gerghi indicibili o come
se fosse il pettegolezzo dell’ora del tè, dimenticando che c’è gente che
lotta e soffre da sempre per far accettare la propria realtà, diversa che sia,
ma indiscutibilmente propria e, attenzione, non perché debba
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rimanere una condizione o scelta da isolare, ma perché, a mio avviso,
l’uso e l’abuso dell’argomento sono spesso sintomo di una perpetua
caccia alle streghe e, non si tratta di un caso isolato.
Mi riferisco, ancora, a quelle situazioni in cui l’epiteto negretto è
usato come un termine simpatico per indicare la categoria di piccoli
selvaggi, ma la simpatia si perde se si pensa a tutte le lotte contro la
ghettizzazione dei ‘negri’, grandi o piccoli che fossero. Cioè mi riferisco a
quelle noncuranti attribuzioni che fanno di una categoria troppo spesso
dispregiativa, un sinonimo per particolari soggetti che crediamo al di
fuori del nostro quadro esistenziale, oppure ai margini, tanto che la
nostra retina non si sforza neanche più di metterli a fuoco se non per
uso personale, possibilmente monouso, stile se lo conosci lo eviti e se lo eviti
non ti uccide.
In merito, credo, sia capitato a tutti, di sentire o di utilizzare, la
parola zulù come attribuzione verso un soggetto che ignora alcune
conoscenze e vuole rimanere radicato in quest’incoscienza rifiutando gli
stimoli di crescita interiore e intellettiva. A proposito, invece, il dizionario
della lingua italiana
5
da' tale definizione: "Ogni membro della tribù bantu
appartenente ad un vasto gruppo di popolazioni negre stanziate in Africa
meridionale".
5
Vocabolario della lingua italiana 'Devoto-Oli’, CDE, Milano, 1997
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Per bantu, poi ricorro al seguente significato "Chi appartiene alla
famiglia linguistica di popoli dell'Africa nera insediatisi nelle zone al di sotto del
quinto parallelo a Nord
6
". L’uso dell'appellativo in questione, dunque, va
ben oltre la definizione di “persona incivile e incolta". Ancora una volta,
l’abuso è ingiustificato.
Infastidisce solo a pensarci, eppure accade in ogni istante della
nostra vita, anche quando appartenere ad una categoria non sembra
dannoso. Si è tutti una grande famiglia, una massa compressa tra le regole
dell'omologazione a cui nessuno pare possa ribellarsi. Eppure qualcuno lo
ha fatto, proprio utilizzando astutamente un termine dispregiativo per
sfuggire agli schemi, un Ulisse della nostra epoca, il "Padrino" di quel
flusso culturale che è l’Hip hop. Uno sconosciuto che non solo ha fatto
udire la sua voce al mondo, ma la sua parola è stata così influente, che il
mondo lo ha anche ascoltato, permettendo alla sua dottrina e ai precetti di
essa di diffondersi da un piccolo quartiere di New York alle realtà dei
cinque continenti, forza salvifica per milioni di giovani caduti nell’isola
sperduta del ghetto.
6
ibidem
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È lui che ha portato molte persone a ribellarsi senza violenza alla
cultura dominante, utilizzando la lama tagliente ed arguta della lingua,
rielaborando il concetto di cultura per andare contro la cultura di chi
vorrebbe sopprimere l'identità degli uomini e lui è Afrika Bambaataa, il
fondatore della Zulu Nation, appunto, l’organizzazione che prova ad
andare oltre il conformismo e il pregiudizio usando come strumento
l'ignoranza, attraverso cui rinnegare l'opprimente civiltà che uccide le
coscienze e la creatività. Incivili è la prima regola; ‘siate zulù’, non solo
dell'Africa Nera, l'esponente in questione è, infatti, Sudafricano, ma zulù
pari a ignoranti e incolti. Del resto, meglio “ignoranti” che stereotipati.
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1.2. Ulisse contro il Ciclope: Afrika Bambaataa
“Oh amici, ‘Nessuno’ mi uccide cauto o con chiara violenza!”
E gli altri, con rapidi modi, così replicarono allora:
“Ma se nessuno violenza ti fa e sei da solo,
ad un male potente che Zeus ti manda non puoi sottrarti;
ti resta soltanto di alzare preghiere al padre tuo Poseidone”
Così avendo detto, sui propri passi tornarono
ed io risi entro me…”
Odissea La beffa a Polifemo
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Afrika Bambaataa è da sempre "considerato uno dei tre grandi
esponenti del rap, del djing e del break-beat"
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, il nonno dell’ Hip hop, a
cui si deve la dilagante diffusione del movimento nei cinque continenti in
breve tempo.
Afrika nasce nel 1958 nel Bronx (New York) ed offre il meglio di
sé nel campo della produzione discografica nella prima metà degli anni
'80. Leader riconosciuto del movimento, Bambaataa duetta con, il
"Padrino" James Brown, suo equivalente soul, nel singolo UNITY. Nel
1985 è protagonista del singolo SUN CITY a firma dell'ARTISTS
UNITED AGAINST APARTHEID, benefit per il sudafricano African
National Congress ideato da Quincy Jones.
Diverse documentazioni attestano che la prima volta in cui "Bam"
(così definito nell'ambiente dell’Hip hop) utilizza l'aggettivo zulù, è nel
1973. È un giovanissimo aderente alla gang Black Spades, secondo
7
Omero “Odissea”, Libro nono
8
FERRARI P.“Hip hop”, Atlanti universali Giunti, Firenze 2000, pag. 15