II
strategico fondamentale nell’ambito della lotta alla disoccupazione
giovanile.
Anzi, è proprio con l’introduzione di nuove tecnologie che il problema
della professionalità del lavoratore è venuto in risalto, evidenziando la
necessità di una formazione continua durante tutto il rapporto di lavoro.
E’ tramontata così l’idea della professionalità intesa come patrimonio
accumulato da garantire nei confronti dell’impresa all’atto dell’assunzione
e si è creata invece, la concezione della professionalità come procedura che
inizia dal livello di qualificazione raggiunto nel sistema formativo e
continua nello svolgimento del rapporto di lavoro. E’ evidente, quindi, che
la formazione professionale dovrebbe essere strumento normale
dell’impresa per il raggiungimento dei suoi fini, non tanto di sopravvivenza
del mercato quanto di sviluppo e di espansione. In particolare, così come
evita l’obsolescenza degli impianti, l’impresa deve evitare
l’invecchiamento delle conoscenze dei lavoratori, perché entrambi
costituiscono un aggravio dei costi. E ciò dovrebbe avvenire non solo
attraverso studi esterni di tipo organizzativo, ma con il coinvolgimento di
tutti i partecipanti al processo produttivo interessati all’introduzione delle
innovazioni tecnologiche. Certamente, lo scopo in oggetto è perseguibile
anche con la frequenza a corsi teorici esterni all’azienda, ma il
collegamento con quest’ultima resta fondamentale, perché solo in essa è
possibile un efficace addestramento.
Oltre che continua e mirante ad accrescere lo sviluppo e la competitività
dell’impresa la formazione professionale deve, nello stesso tempo, favorire
lo sviluppo della personalità dei soggetti in formazione, promuovendo
III
modifiche significative nei loro atteggiamenti e comportamenti all’interno
dell’organizzazione lavorativa.
Infine, la formazione non deve limitarsi ad arginare la disoccupazione ma
creare nuovi posti di lavoro, attraverso la previsione dei nuovi fabbisogni
occupazionali. Un risultato al quale si è giunti con estremo ritardo se si
considera che, sino agli anni settanta, lo Stato italiano, ha dedicato ben
poco spazio alla formazione e niente all’elevazione professionale.
Assediato dalle numerose crisi aziendali, promuoveva in modo sufficiente
la cosiddetta riqualificazione professionale, un’attività ben diversa dalla
formazione.
Infatti, mentre la riqualificazione presuppone un livello professionale
inadeguato dei lavoratori rispetto alle nuove tecnologie tanto da mettere in
pericolo il posto di lavoro, per cui si cerca di rimediare, l’elevazione
professionale è collegata ad un rapporto di lavoro di cui non si prevede la
cessazione per crisi aziendale ma che tuttavia si attua in un concordato
piano sociale proprio per evitare e prevenire eventuali crisi.
Ultimo aspetto del problema “formazione”, analizzato nella prima parte
dell’elaborato riguarda l’esigenza di superare la distanza, ancora oggi
esistente, tra il mondo del lavoro e la scuola con il conseguente riferimento
alle riforme che sinora si sono mosse in questa direzione.
Nella seconda parte, a carattere specifico, sono state esaminate alcune
fattispecie di rapporti di lavoro, accomunate dalla particolare funzione di
favorire l'ingresso nel mercato del lavoro di soggetti in età giovanile. Ciò
mediante la valorizzazione dell'aspetto relativo alla formazione
IV
professionale del lavoratore ed il riconoscimento alle imprese di
agevolazioni ed incentivi di diversa natura.
Si tratta delle seguenti tipologie:
- contratto di formazione e lavoro
- contratto di apprendistato
- tirocini formativi e di orientamento
Esse sono riconducibili ad un unico genus, quello dei rapporti a contenuto
formativo, nonostante abbiano una diversa natura giuridica. Infatti, mentre
l'apprendistato ed il contratto di formazione sono rapporti speciali di lavoro
subordinato a causa mista, i tirocini formativi e di orientamento sono, ex
lege, espressamente esclusi dal novero dei contratti di lavoro subordinato
poiché non hanno natura contrattuale.
Condotta in modo analitico, la trattazione sull'argomento in oggetto investe
tutte le fasi del rapporto di lavoro: dalla costituzione allo svolgimento sino
alle cause di estinzione e risoluzione, con una particolare attenzione per
l'aspetto relativo agli obblighi formativi gravanti sul datore di lavoro.
Infine, l'ultimo capitolo è stato dedicato alla recente riforma del mercato del
lavoro, già prevista nel Libro bianco del Ministro Maroni (ottobre 2001),
ma realizzata effettivamente con l'entrata in vigore dei decreti di attuazione
della Legge delega (c.d. Legge BIAGI) n.30 del febbraio 2003. Una riforma
che ha per diversi aspetti innovato la disciplina vigente in materia di
rapporti a contenuto formativo e che si pone in stretta correlazione con la
riforma Moratti sull'obbligo di istruzione (n.53 del 2003). Le principali
novità riguardano:
- l'individuazione di tre diverse tipologie di apprendistato;
V
- la sostituzione dei contratti di inserimento ai contratti di formazione
- l'introduzione del tirocinio estivo.
1
CAPITOLO I
EVOLUZIONE STORICO-LEGISLATIVA
SOMMARIO: 1. Origini storiche della questione giovanile. - 2. I primi interventi legislativi in Italia e
in Europa. - 3. I giovani e la Costituzione. - 4. Sviluppo della formazione
professionale nella realtà italiana.
1. Origini storiche della questione giovanile
Il problema del lavoro giovanile nasce nell’epoca moderna, non perché i
giovani prima non lavorassero ma perché il loro lavoro era soggetto a
regole e principi diversi
1
. Infatti, mentre nella società romana
l’ordinamento giuridico riconosceva capacità e potere al pater cosicché era
in capo a questi che si instaurava il rapporto di lavoro eseguito dal
“minore”, è invece, nell’ordinamento corporativo
2
della società medioevale
che l’attività del giovane ha per la prima volta assunto rilevanza giuridica
autonoma rispetto a quella degli adulti. Nelle corporazioni il minore
lavoratore assumeva tipicamente il ruolo dell’apprendista, infatti, proprio in
tale contesto è sorto e si è sviluppato il contratto di apprendistato
3
. Gli
apprendisti potevano prestare la loro opera a partire dal compimento del
decimo anno di età fino al quattordicesimo, si dedicavano
all’apprendimento dell’arte o del mestiere, vivevano nella bottega del
maestro e vi rimanevano fino a quando non avessero perfettamente
assimilato i suoi insegnamenti. A dimostrazione di ciò, c’era il fatto che,
secondo gli Statuti delle corporazioni medioevali, poteva esercitare l’arte o
1
Cfr. OLIVELLI, Il lavoro dei giovani, 1981, p.9;
2
Sull’ordinamento corporativo, cfr. DAL PANE, Storia del lavoro in Italia dagli inizi del secolo XVIII al
1815, Milano, 1958, p.253ss. e FANFANI, Storia del lavoro in Italia dalla fine del sec. XV agli inizi del
XVIII, Milano, 1959, p.167ss.;
2
il mestiere solo chi fosse in grado di offrire sufficienti garanzie di
competenza. Risultato questo, che poteva ritenersi conseguito solo dopo
numerosi anni di apprendistato.
La corporazione regolava dettagliatamente il periodo di tirocinio, attraverso
gli statuti che disponevano circa il limite di età, il numero massimo di
apprendisti impiegabili e i metodi di insegnamento.
Benché non fosse pienamente capace di agire, il minore poteva in teoria
obbligarsi personalmente, ma in genere erano i genitori a farlo, anche
contro la sua volontà.
Oggetto del rapporto di lavoro intercorrente tra il giovane e il maestro non
era la prestazione dell’attività lavorativa ma l’apprendimento, cosicché, da
un punto di vista strettamente giuridico, esso si riteneva
4
riconducibile alla
LOCATIO OPERIS piuttosto che alla locatio operarum. Tale sistema, però,
si dimostrò inidoneo ad assicurare alle imprese medio – grandi quella
qualificazione professionale della manodopera di cui tanto abbisognavano.
Fu questo il primo segnale della decadenza del sistema corporativo
5
mentre
la definitiva scomparsa delle istituzioni corporative e con esse
dell’accennato tipo di formazione professionale si verificò con l’intervento
della rivoluzione industriale dietro l’impulso delle idee illuministiche e del
liberalismo economico sociale imperante. E fu proprio con l’avvento
dell’era industriale che nacque il problema dell’impiego della manodopera
3
Si veda sul punto RUDAN, Il contratto di tirocinio, Milano, 1966, p.40ss.;
4
Cfr. RUDAN, Il contratto di tirocinio, 1966, p.47ss.;
5
Sin dal sec. XVI l’accento si era spostato dall’insegnamento al lavoro fornito dal giovane, cfr.
OLIVELLI, Il lavoro dei giovani, 1981, p.1ss.; sui motivi della decadenza delle corporazioni cfr. DAL
PANE, Il tramonto delle corporazioni in Italia, Milano, 1940, p. 22ss. e Storia del lavoro in Italia dagli
inizi del secolo XVIII al 1815, Milano, 1958, p.253ss.;
3
giovanile e più in generale del necessario intervento dello Stato a
protezione dei lavoratori più deboli.
Con il passaggio dall’economia artigiana e contadina a quella capitalistica
basata sulla divisione e organizzazione scientifica del lavoro, venne meno
quel bisogno di manodopera specializzata che caratterizzava soprattutto le
grandi imprese. La ratio andava ricercata nel fatto che, con
l’automatizzazione dei processi produttivi, le prestazioni richieste ai
lavoratori si risolvevano nella condotta e controllo delle macchine cioè
attività che si adattavano bene anche alle cosiddette “mezze - forze” (donne
e bambini). In questo modo, i giovani si trovarono a svolgere, in luoghi
molto diversi dalla bottega artigiana, molteplici attività connotate
dall’assenza di pretese formative cioè di addestramento. Ciò significava, da
un punto di vista giuridico, che l’elemento fondamentale del rapporto di
lavoro non era più la formazione (tipica invece del periodo corporativo) ma
l’attività lavorativa. Dunque, il rapporto assumeva sempre più la
configurazione di una LOCATIO OPERARUM, caratterizzata da tutti
quegli elementi che saranno detti tipici della subordinazione
6
.
Venuta meno la dipendenza gerarchica dal “maestro”, il giovane lavoratore,
anche se ancora privo della capacità di stipulare contratti di lavoro, era a
tutti gli effetti parte del rapporto, in virtù del regime liberale fondato sui
principi di uguaglianza e libertà degli individui, benché generante
condizioni di oggettiva inferiorità.
Al declino della formazione professionale si deve aggiungere l’impiego in
condizioni di particolare debolezza o addirittura di aperto sfruttamento.
6
Sulla natura giuridica del rapporto di apprendistato, dopo la fine dell’ordinamento corporativo si veda
OLIVELLI, Il lavoro dei giovani, 1981, p.13;
4
I giovani, infatti, non solo venivano impiegati in qualsiasi tipo di attività
lavorativa e di condizione ambientale, comprese quelle più massacranti,
pericolose ed insalubri ma (a causa della ritenuta inferiorità e minore
redditività della loro prestazione) ricevevano in cambio una remunerazione
di gran lunga inferiore
7
rispetto a quella dei lavoratori adulti. Ne derivava,
oltre alla lesione dell’integrità fisica e morale dei giovani anche una
pericolosa concorrenza per i lavoratori adulti con conseguenze sui salari
che tendevano ad abbassarsi a livello di quelli delle “mezze - forze”, fino a
determinare in certi periodi la disoccupazione.
Da qui prese data, l’intervento delle organizzazioni operaie che si stavano
già formando e, di seguito, quello a più riprese dello Stato
8
mirante, almeno
all’inizio, a conservare la forza lavoro nelle migliori condizioni e a
potenziarla in funzione del rafforzamento e dell’espansione dell’assetto
economico.
In seguito , con la trasformazione dell’assetto istituzionale dello stato il fine
della protezione si è spostato verso la sviluppo della persona umana
coerentemente con l’art.2Cost. nella parte in cui riconosce a ciascuno
titolarità di diritti inviolabili in funzione della piena espansione della
personalità individuale e sociale.
7
Tutti i contratti di categoria precedenti al 1970, prevedevano un trattamento retributivo inferiore per i
lavoratori più giovani senza alcuna giustificazione se non l’età. Questa normativa, in contrasto con quella
costituzionale (art.37), solo alla fine degli anni 70, fu sottoposta al giudizio della magistratura.
Cfr. OLIVELLI, Il lavoro dei giovani, 1981, p.4;
8
L’esigenza di protezione del lavoro produttivo, specie subordinato, trova nella legislazione il mezzo per
creare un legame fra l’organizzazione capitalistica e le forze del lavoro che questa utilizza, disciplinando i
rapporti fra le diverse classi, promuovendo l’organizzazione delle categorie, regolando la formazione e lo
svolgimento del rapporto di lavoro, limitando i danni che da esso possono derivare.
Tale intervento, dapprima indiretto (come la tolleranza dell’associazionismo operaio), è stato
successivamente inteso a predisporre limiti assoluti o relativi all’autonomia individuale nei confronti
dello svolgimento dell’attività lavorativa, nonché a proteggere gli interessi della parte più debole,
5
2. I primi interventi legislativi in Italia e in Europa
In tutti i paesi ad economia progressivamente industrializzata il primo
problema affrontato dal legislatore è stato quello delle cosiddette “mezze -
forze”, cioè quello di limitare e comunque di disciplinare l’impiego dei
minori e delle donne.
Questa speciale regolamentazione è necessaria per impedire che giovani e
donne prestino lavoro in condizioni usuranti per il loro debole organismo e
pregiudizievole per il loro sviluppo.
Fu in Inghilterra, nel 1802, che ebbe inizio la legislazione sociale con il
primo provvedimento legislativo sul lavoro dei fanciulli nelle fabbriche
(legge Peel)
9
. Tale intervento vietava il lavoro notturno e la promiscuità,
fissava l’orario di lavoro in dodici ore settimanali e obbligava a fornire una
certa istruzione. La legge, però, fu scarsamente applicata e limitata al
settore della lana e del cotone. Seguirono altri provvedimenti
10
che
tendevano a limitare l’età di ammissione al lavoro, controllavano l’orario di
lavoro, il lavoro notturno e prevedevano un controllo medico sanitario.
attraverso una serie di deroghe al diritto comune (es. art.2113 c.c.). Cfr. OLIVELLI, Il lavoro dei
giovani,1981, p.5;
9
La storia dell’Inghilterra dell’800, il primo paese a subire l’industrializzazione con tutte le sue
conseguenze, è ricca di episodi, di lotte e di interventi legati a questo problema. In proposito si ricorda
come dopo la legge del 1767 i ragazzi mantenuti dalle parrocchie potevano essere messi a tirocinio in
qualche fabbrica, dove rimanevano fino a ventuno anni a disposizione del proprietario senza alcuna
retribuzione.
Questo diede origine ad una vera e propria tratta dei fanciulli, che venivano acquistati direttamente o
affittati nelle fiere o sui pubblici mercati e anche in Italia si verificò lo stesso fenomeno. Dopo la legge
Peel si passò ai cosiddetti fanciulli liberi, cioè non forniti dalle parrocchie, ai quali veniva corrisposto un
salario irrisorio, senza diritto ad alloggio e vitto. Il mercato era agevolato dai genitori spinti dalla miseria.
Bimbi dai cinque ai dieci anni erano impiegati nelle miniere, nelle vetrerie e soprattutto nelle industrie
tessili: l’ambiente di lavoro era squallido, non esisteva orario o regolamentazione alcuna. Cfr.
GRADILONE, Storia del sindacalismo in Inghilterra, Milano, 1957, p.48;
10
Il Cotton Mill Act del 1819; il Lord Althrop Act del 1833, che stabilì la distinzione tra i fanciulli (dai
nove ai tredici anni) e gli adolescenti (dai tredici ai diciotto) e impose l’obbligo scolastico; il Coal Mining
Act nel 1842; il PrinkWork Act del 1845 e quindi le leggi 1867, 1871, 1878. Cfr. OLIVELLI, Il lavoro
dei giovani, 1981, p.14;
6
Nel 1814 si ebbe, pure, la prima regolamentazione del tirocinio che,
secondo il giudizio degli storici, restò una specie di “schiavitù industriale”
a causa del potere riconosciuto ai genitori di impiegare anche forzatamente
i propri figli presso un’impresa.
La stessa situazione che caratterizzava l’Inghilterra si verificò in tutti gli
Stati dell’Europa ove numerosi furono i provvedimenti in materia
11
.
Anche in Italia, benché in ritardo rispetto agli altri Stati, si sentì l’esigenza
di un intervento legislativo a favore dei minori.
Tuttavia, se già, prima dell’unità, fu emanata, nel Regno di Sardegna, la
L.20 novembre 1859, contenente le prime norme di tutela del lavoro
minorile, dopo l’Unità si ebbe solo una “leggina” del 1873 che escludeva i
minori di anni diciotto dai mestieri girovaghi.
Nel 1886 si ebbe la legge n.2652, che stabilì a nove anni il limite minimo di
età di ammissione al lavoro, fissò l’orario delle donne negli opifici e tentò
di operare un collegamento fra i problemi del lavoro e le esigenze
scolastiche.
Negli anni successivi, la legislazione sociale incontrò gravi resistenze e fu
solo nel 1902 che venne elaborato un nuovo provvedimento,
12
racchiuso in
un testo unico emanato con R.D. 10 novembre 1907, n.816. Con tale
provvedimento si predispose una tutela unica per le donne e i fanciulli, in
ragione della presunta analogia di esigenze sia fisiche che morali, venne
11
In Francia la prima legge fu introdotta nel 1841 e stabiliva il limite assoluto per lo svolgimento
dell’attività lavorativa non prima di nove anni, in Prussia e in Austria il primo intervento risale al 1839, in
Baviera e in Lussemburgo nel 1840, nei Paesi Bassi nel 1874 e in Belgio nel 1889. La genesi comune di
tutti questi provvedimenti è lo stato di profonda miseria ed ingiustizia in cui versano le classi più povere
costrette a vivere con il lavoro delle industrie. Cfr. OLIVELLI, Il lavoro dei giovani, 1981, p.15;
12
Su un progetto presentato da Filippo Turati e Anna Kuliscioff che conteneva una prima forma di
assicurazione obbligatoria per la maternità;
7
stabilito il divieto assoluto di lavoro notturno per tutte le donne e i maschi
minori di quindici anni nonché il divieto di lavori sotterranei per qualsiasi
donna.
Il problema del lavoro giovanile non rimase, tuttavia, un fatto interno ma fu
oggetto di diverse convenzioni internazionali
13
.
Per adeguare il sistema formativo interno alle disposizioni dell’OIL, venne
emanata la L.653/1934 che fu la prima, e per lungo tempo anche l’unica,
regolamentazione organica della materia. Essa fu, poi, modificata con la
L.325/196
14
la quale portò il limite minimo di età da quattordici a quindici
anni, sia pure con la previsione di numerose deroghe.
Al contrario, in materia di apprendistato, bisognò attendere il R.D.
n.1906/1938 per una regolamentazione organica del rapporto la quale, per
la prima volta, pose l’accento sull’aspetto dell’educazione che il minore
deve ricevere sia nell’impresa che nei corsi professionali.
In particolare, si regolavano il limite di età minimo e massimo, il
collocamento, gli obblighi del datore, la durata del rapporto, l’orario, la
misura della retribuzione assunta per la prima volta come vero e proprio
obbligo dell’imprenditore. Questa disciplina, in vigore fino al 1955,
contribuì a dare al rapporto l’attuale configurazione giuridica e venne in
parte riprodotta nel codice civile del 1942 agli artt.2130-2134.
13
Convenzione internazionale di Washington dopo il trattato di Versailles, quelle di Genova 1920, di
Ginevra 1921, 1932, 1937, che si occuparono di stabilire il limite di ammissione al lavoro e di formulare
regole particolari per i vari settori. La Conferenza di Montreal nel 1946 e a San Francisco nel 1948 sul
lavoro notturno;
14
Su tale legge si veda MAZZARINO, La tutela del lavoro minorile, in Riv. giur. lav.,1968, I, p.190;
OLIVELLI, La tutela del lavoro minorile nella nuova legge 17 ottobre 1967 n. 977, in Lav. e Sicurezza
Sociale, 1967, p.183ss.; DE PAOLA, Tutela del lavoro dei fanciulli e degli adolescenti, in Lavoro e
Sicurezza Sociale, 1973, p.223;
8
3. I giovani e la Costituzione
Le trasformazioni economico – sociali del secondo dopoguerra nonché i
principi del nuovo Stato repubblicano sanciti nella Costituzione hanno
investito il significato del lavoro femminile e minorile, e, di seguito,
modificato il fine stesso di una legislazione speciale per i giovani e le
donne
15
.
Sin dai primi interventi dello Stato, verso la fine del secolo scorso, la tutela
di questi soggetti è stata concepita in termini unitari e spesso formulata
contestualmente poiché, rispetto ad un processo produttivo che richiedeva
uno sforzo prevalentemente fisico e muscolare, essi si dimostravano così
inadeguati da ispirare l’appellativo di “mezze - forze”. Di qui la
predisposizione di istituti giuridici aventi natura protezionistica cioè
miranti a contenere le condizioni di lavoro nei limiti delle possibilità e della
resistenza fisica dei giovani e delle donne.
Quando il continuo progresso tecnico ha progressivamente sostituito allo
sforzo fisico l’impiego di qualità intellettive, il concetto di “mezze - forze”,
inizialmente posto alla base della tutela comune, si è risolto in una
espressione priva di significato.
Cosicché, ferma restando la necessità di una tutela normativa del lavoro
minorile e femminile, le relative discipline hanno finito con l’avvertire
l’opportunità di rispondere a criteri e finalità in parte autonome. Infatti,
sebbene il criterio ispiratore sia il medesimo, e cioè, la realizzazione della
personalità umana, diverso é il modo in cui questo si pone e si specifica
16
.
15
Cfr. OLIVELLI, Il lavoro dei giovani,1981, p.29;
16
A proposito della presa di coscienza che, alla base della legislazione speciale del lavoro minorile e
femminile, ci siano esigenze diverse si veda MAZZARINO A.G., La tutela del lavoro minorile, in Riv.
giur.lav.,1968, I p.193ss.;
9
Relativamente ai minori, il progresso tecnologico, se per un verso, ha
rafforzato la necessità di una protezione più intensa ed efficace, come ha
dimostrato lo stesso art.37Cost., commi 2 e 3,
17
per l’altro, ha evidenziato
la necessità di una adeguata preparazione sia generica che specifica, e
innanzitutto l’opportunità di un preciso orientamento professionale ai sensi
dell’art.35Cost..
Per quanto riguarda le donne, fermi restando gli strumenti di protezione
della maternità, i servizi sociali, le istituzioni dedicate all’infanzia, prevale
l’esigenza di assicurare l’inserimento a parità degli uomini nel mondo del
lavoro, in modo che possa essere accolto il loro duplice compito di
lavoratrici e madri. Fondamento normativo di questa constatazione è in
quelle disposizioni costituzionali che proclamano l’uguaglianza giuridica e
la pari dignità sociale senza limitazioni basate sul sesso (art.3, 28, 29,
51Cost.) e che prescrivono, come strumento per la attuazione di questi
principi, la rimozione di tutti gli ostacoli che impediscono lo sviluppo della
persona umana.
In ogni caso, al di là della diversa intensità con la quale si impone, per
ciascuna delle due categorie, il bisogno di una disciplina protezionistica,
non mancano punti di coincidenza negli interessi da raggiungere, come
l’elevazione professionale e il diritto al lavoro, ex art.35Cost.
18
.
Infatti, il primo comma del suddetto articolo deferisce alla Repubblica il
compito di “tutelare il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”, sul
17
Cfr. TREU T., Lavoro femminile e uguaglianza, Bari, 1977, p.206, la differenza più esplicita fra donne
e minori nell’art.37Cost., sarebbe proprio la mancanza di previsione di una disciplina speciale per le
donne;
18
A proposito del riconoscimento, alla base della legislazione sul lavoro minorile e femminile, di interessi
comuni, si veda OLIVELLI, Il lavoro dei giovani,1981, p.35ss.;
10
presupposto, si ritiene, che il lavoro sia strumento necessario per
l’affermazione della personalità e non semplicemente un mezzo di
guadagno
19
. Il “valore” del lavoro in questo senso, è stato confermato dallo
stesso Sommo Pontefice in alcuni discorsi tenuti nel maggio 1980 e nei
quali così si è espresso in questi termini : “il lavoro è la dimensione
fondamentale dell’esistenza dell’uomo sulla terra; deve aiutarlo a diventare
migliore, spiritualmente più maturo, più responsabile perché egli possa
realizzare la sua vocazione sulla terra sia come persona irripetibile, sia nella
comunità con gli altri”
20
. In sostanza, rispetto alla tutela della persona, il
lavoro si presenta sotto due aspetti. Se il primo è quello della necessità di
preservare la salute, l’integrità fisica e psichica, sulle quali l’attività
lavorativa potrebbe incidere negativamente, il secondo è l’insufficienza di
un atteggiamento “protettivo” consistente solo in limiti e vincoli alla
costituzione e allo svolgimento del rapporto di lavoro. Di conseguenza,
compito dell’ordinamento, a norma della Costituzione, è provvedere ad una
graduale trasformazione dell’assetto sociale ed economico, così da creare le
condizioni per il pieno sviluppo della persona umana intervenendo anche
nella fase che precede il costituirsi del rapporto di lavoro (mediante il
collocamento e la formazione professionale).
19
L’espressione è del MORTATI, Il lavoro nella Costituzione, in Il dir. lav., 1954, p. 152.
20
Cfr. OLIVELLI, Il lavoro dei giovani, 1981, p.41;