queste posizioni contrapposte è emersa altresì un’ipotesi
interpretativa «trasversale», che tende a sottolineare gli elementi di
differenziazione all’interno delle due categorie occupazionali, e che
negano la possibilità di attribuire una comune appartenenza di
classe a «tutti» i lavoratori dequalificati dei servizi, in ragione della
transitorietà oggettiva e soggettiva che caratterizza la loro
condizione occupazionale (G. Esping-Andersen, ‘93).
Riferendoci a questo dibattito, attraverso una rassegna critica della
letteratura sociologica sull’argomento, l'obiettivo che ci siamo
proposti con la nostra indagine è stato quello di individuare le
caratteristiche sociali e occupazionali degli operai dei servizi, tanto
a livello nazionale, che locale, e di tracciarne l’evoluzione nel corso
dell’ultimo ventennio. In particolare, attraverso l’analisi dei dati
istituzionali, e in una prospettiva comparativa fra la realtà locale e
quella nazionale, intendiamo individuare le figure sociali prevalenti
di operaio dei servizi e i principali elementi di differenziazione del
suo profilo socio-anagrafico, rispetto a quello dell’operaio
dell’industria. Sulla base dei risultati di questa analisi, ci
proponiamo di verificare le ipotesi di omogeneità/differenziazione
del proletariato dei servizi.
Attraverso un’indagine diretta sugli addetti alla ristorazione in
provincia di Catania, intendiamo ricostruire, invece, i
comportamenti lavorativi e gli atteggiamenti rispetto al lavoro di un
campione di lavoratori del settore, per verificare in che misura la
loro condizione occupazionale, il vissuto del lavoro attuale, le
strategie e le aspirazioni lavorative si differenzino in relazione
all’età, al genere, alla posizione nella famiglia e, soprattutto, al
livello di istruzione.
L’indagine è articolata in due parti : la prima parte di questo lavoro
è dedicata all’analisi delle tendenze evolutive del lavoro operaio
nel mutamento della struttura occupazionale italiana dell'ultimo
ventennio; la seconda parte, all'analisi dei risultati di un'indagine
diretta condotta in provincia di Catania attraverso interviste ad un
gruppo di lavoratori del settore della ristorazione.
In particolare, nel primo capitolo cercheremo di tratteggiare la
dinamica del mercato del lavoro e del sistema occupazionale negli
anni del miracolo economico per individuare, in una prospettiva
comparativa con il contesto europeo, le peculiarità della «via
italiana al fordismo».
Nel secondo capitolo tracceremo le principali tendenze evolutive
della domanda di lavoro in Italia nell’ultimo ventennio,
individuando gli effetti prodotti dalla ristrutturazione produttiva e
organizzativa nel settore industriale e la dinamica della
terziarizzazione. Riferendoci alla letteratura sociologica sui modelli
nazionali di terziarizzazione in Europa e negli USA, cercheremo di
individuare i caratteri distintivi del «modello italiano» ; infine,
attraverso l’analisi dei dati istituzionali, ripercorreremo le fasi del
processo di terziarizzazione in Italia negli anni ottanta e novanta.
La prima parte si conclude con un capitolo dedicato alla
terziarizzazione professionale e alla trasformazione delle categorie
occupazionali in Italia ; in particolare analizzeremo la crescita del
lavoro autonomo e del lavoro impiegatizio che si contrappone alla
caduta del lavoro operaio ; i principali fattori di mutamento del
sistema occupazionale e le trasformazioni del lavoro operaio
nell’industria ; le caratteristiche e la dinamica del lavoro manuale
nei servizi. Infine, riferendoci alla letteratura sociologica
sull’argomento discuteremo le ipotesi sull’appartenenza di classe
dei lavoratori dequalificati dei servizi nella società postindustriale.
La seconda parte del lavoro sarà introdotta da un capitolo che
tratteggerà le principali tendenze evolutive del mercato del lavoro
in Sicilia e nelle provincia di Catania, con particolare riferimento al
processo di terziarizzazione e all’evoluzione del lavoro operaio nel
settore alberghiero e della ristorazione. Nel quinto e nel sesto
capitolo saranno analizzati i risultati dell’indagine diretta. Nel
quinto capitolo cercheremo di individuare il profilo socio-
anagrafico degli intervistati, riferendoci alle loro caratteristiche
ascritte (età, genere, origine sociale), allo status socio-economico e
alla posizione nella famiglia, al livello di istruzione e ai percorsi
scolastici.
L’ultimo capitolo sarà dedicato all’analisi del rapporto degli
intervistati con il lavoro. Verranno ricostruiti i loro percorsi
lavorativi, le loro attuali condizioni occupazionali e le strategie di
ricerca di un nuovo lavoro. All’analisi dei comportamenti lavorativi
si affiancherà la ricostruzione degli atteggiamenti degli intervistati
rispetto al lavoro attuale, delle loro aspirazioni occupazionali per il
futuro, dei significati che attribuiscono al lavoro.
Attraverso i risultati di quest’analisi cercheremo di verificare se e
in che misura la condizione occupazionale, oggettiva e soggettiva,
del lavoratore dequalificato della ristorazione si differenzi in
relazione alle sue caratteristiche socio-anagrafiche e alla sua cultura
del lavoro.
PARTE PRIMA
IL LAVORO OPERAIO NEL MUTAMENTO DEL SISTEMA
OCCUPAZIONALE ITALIANO DELL’ULTIMO
VENTENNIO
CAPITOLO PRIMO
FORDISMO E STRUTTURA DI CLASSE IN ITALIA
1.1 Sistema occupazionale e mutamento sociale in Italia :
le tendenze evolutive del secondo dopoguerra.
A partire dalla seconda metà del ventesimo secolo, si assiste in
Italia
all'accelerazione del processo di modernizzazione che riguarda non
soltanto lo sviluppo dell'industrializzazione, il mutamento della
base produttiva e l'incremento dei livelli di reddito della
popolazione, ma altresì importanti trasformazioni sociali :
dall'innalzamento dei livelli di istruzione al mutamento degli stili di
vita di una popolazione sempre più urbanizzata; dall'ampliamento
dei diritti di cittadinanza al cambiamento del sistema di
stratificazione sociale.
Le trasformazioni della struttura occupazionale che accompagnano
questi processi possono rappresentare un punto di vista analitico
significativo per ricostruire la dinamica del mutamento sociale del
nostro paese nel corso del secondo dopoguerra
Guardando ai cambiamenti della struttura occupazionale in Italia, si
possono individuare due fasi evolutive principali : la prima che
copre gli anni cinquanta e sessanta, segnata dal calo
dell’occupazione agricola e dalla crescita di quella industriale
manifatturiera ; la seconda, che registra il declino dell’occupazione
industriale e l’espansione di quello del terziario. Agli inizi degli
anni settanta si determina, infatti, un'inversione delle principali
tendenze evolutive del mercato del lavoro che segna una cesura
rispetto al ventennio precedente.
In primo luogo, gli indicatori statistici rilevano sostanziali
cambiamenti di segno nell'andamento dell'occupazione, della
disoccupazione e della partecipazione.
In secondo luogo, si registra un crescente processo di
terziarizzazione che muta la struttura dell'occupazione e la
fisionomia delle professioni, e si accompagna ad un costante
declino dell'occupazione industriale manifatturiera.
Infine, il mutamento del sistema occupazionale sembra prefigurare
un mutamento più generale del modello di società : si registra la
crisi della società industriale e del modello sociale fordista, fondato
sul primato della grande impresa e dello stato sociale, e si profila
l'avvento di una nuova società dei servizi, post-fordista,
tecnocratica, volta a soddisfare nuovi bisogni di qualità della vita.
Questi processi di mutamento riguardano tutti i paesi a capitalismo
maturo, ma nel nostro paese presentano significative peculiarità,
che nascono dall'intreccio fra continuità storiche e fattori di
mutamento. Guardando alle trasformazioni del sistema
occupazionale in una prospettiva comparativa con il contesto
europeo, tenteremo perciò di individuare i "principali caratteri
distintivi della via italiana" al fordismo e al post-fordismo.
1.2 L'evoluzione del mercato del lavoro in Italia negli anni del
«miracolo economico»
I termini "miracolo economico" o "boom economico" di solito
vengono usati per indicare i grandi mutamenti che hanno
trasformato la struttura dell'economia italiana durante i "gloriosi
anni cinquanta e sessanta" (Bagnasco, 1996).
In quegli anni, in Italia si accelera il processo di
industrializzazione, crescono i livelli della produzione e si
accorciano le distanze che separano il nostro paese dai principali
partners europei.
Ma è anche vero che negli stessi anni si registrano profonde
trasformazioni nel mercato del lavoro, che ne consolidano alcuni
tratti peculiari, costanti storiche nello sviluppo economico italiano
del secondo dopoguerra : l'andamento parallelo di occupazione e
disoccupazione; la bassa partecipazione femminile al lavoro; la
balcanizzazione crescente.
Queste caratteristiche peculiari, cominciano a profilarsi già a
partire dagli anni cinquanta, allorché la crescita dell'occupazione
extragricola e l'intensificazione dei flussi migratori, contribuiscono
ad allentare le gravi tensioni occupazionali dell'immediato
dopoguerra : in questi anni si riduce infatti la sottoccupazione nelle
campagne, mentre viene progressivamente riassorbita l'ampia
disoccupazione urbano-industriale delle grandi città del Nord.
Nel 1963, il tasso di disoccupazione raggiunge il minimo storico
(3,9%). Tuttavia, già all'inizio degli anni sessanta comincia a
profilarsi un primo paradosso dello sviluppo del mercato del lavoro
in Italia.
La crescita economica non riesce a tradursi nel nostro paese in un
ampliamento complessivo della base occupazionale : a partire dal
1962, l'occupazione comincia a diminuire e si riduce
progressivamente per tutto il decennio.
Questo "precoce" sviluppo senza occupazione (M. Salvati, 1976),
non si traduce però in un aumento dei livelli di disoccupazione,
poiché gran parte della forza lavoro espulsa (soprattutto donne,
giovani e anziani) anziché ingrossare le fila della disoccupazione,
confluisce verso la popolazione non attiva.
Tale situazione, nel corso degli anni configura una sorta di
andamento parallelo tra occupazione, disoccupazione e
partecipazione che riguarda l'intero territorio nazionale : tanto al
Nord che al Sud alla caduta dell'occupazione si accompagna la
diminuzione della disoccupazione e il crollo del tasso di attività.
Nel Mezzogiorno però, la caduta dell'occupazione è più forte che al
Centro-Nord, inoltre si verifica una notevole riduzione delle forze
di lavoro dovuto al massiccio esodo delle nuove leve verso l'estero
o verso le regioni Nord occidentali. Essendo la riduzione delle
forze di lavoro maggiore di quella dell'occupazione, l'effetto
complessivo è un forte calo del tasso di disoccupazione che dal 14-
15% raggiunto nel 1956-1957, passa a poco più del 5% nel 1963.
Nel Centro-Nord, il livello dell'occupazione diminuisce poco; per
quanto riguarda l'offerta di lavoro, si registra una maggiore
riduzione dovuta alla minore partecipazione di giovani e donne di
queste regioni che escono dal mercato del lavoro, solo in parte
compensata dall'immissione di maschi adulti meridionali. Il tasso di
disoccupazione si riduce perciò così come nel Mezzogiorno.
In tal modo si accorciano le distanze tra Nord e Sud, pur se la
struttura del mercato del lavoro nelle due aree del paese rimane
nettamente differenziata.
Questo andamento peculiare del mercato del lavoro che non si
registra negli altri paesi industrializzati, è imputabile a mutamenti
che intervengono tanto dal lato della domanda che dal lato
dell'offerta.
Dal lato dell'offerta, si registra un mutamento dei modelli di
partecipazione al mercato del lavoro veicolato dalle profonde
trasformazioni economiche e socioculturali che accompagnano il
processo di urbanizzazione, e da importanti riforme istituzionali : la
regolamentazione degli orari di lavoro e la riforma del sistema
scolastico e di quello pensionistico, contribuiscono a ridurre il
tempo dedicato al lavoro nelle biografie individuali.
Con l'estensione dell'obbligo scolastico a 14 anni, la scuola assorbe
molti di quei giovani che in passato venivano precocemente avviati
al lavoro.
Per gli anziani, la prospettiva di riscuotere la pensione diventa un
modo per dichiarare la loro uscita definitiva dal mercato del
lavoro.
Questi processi, scandiscono la tendenza alla riduzione del tasso di
attività maschile, ma non riescono a spiegare il crollo complessivo
della partecipazione negli anni sessanta in quanto è
prevalentemente imputabile alla caduta dell'occupazione femminile
in agricoltura e nei settori manifatturieri tradizionali, in particolare
quello tessile.
L'uscita delle donne dal sistema occupazionale, è spiegata perciò
non solo da mutamenti socioculturali (la trasformazione della
struttura della famiglia e della divisione sessuale del lavoro in
contesti urbani), ma anche dalle profonde trasformazioni che
cambiano la fisionomia della domanda di lavoro.
Queste riguardano soprattutto la composizione settoriale
dell'occupazione. In effetti, nel corso degli anni sessanta, la
creazione di nuovi posti di lavoro e il relativo aumento
dell'occupazione si verificano maggiormente nei settori
manifatturieri, nell'edilizia, nei trasporti e nei servizi. Questo
andamento positivo, non riesce a compensare però il crollo
dell'occupazione agricola (tutti i valori annui sono di segno
negativo infatti il calo percentuale sul totale degli occupati è di -
3,7%) che si accompagna a un massiccio esodo dalle campagne
verso le zone industrializzate del Nord-Italia o all'estero.
E' appunto l'industria che in questi anni diviene il settore trainante
della nostra economia, in particolare i settori specializzati nella
produzione di beni di consumo durevoli per i mercati esteri, dove si
registra un aumento annuo della quota complessiva di occupati
pari allo +0,9% (per gli uomini +1,7% e una riduzione per le donne
pari a -1%). I settori in espansione (meccanico e chimico)
attraggono forza lavoro prevalentemente maschile (giovani e
adulti) in gran parte immigrata, mentre i processi di crisi e di
ristrutturazione industriale nei settori tradizionali (soprattutto
tessile) determinano una forte espulsione di forza lavoro
prevalentemente femminile (ciò equivale ad un effetto sostituzione
a livello macro).
Nel settore industriale manifatturiero, l'occupazione aumenta del
17% (tra il 1966 e il 1971 vengono assunti un milione di giovani),
parimenti al suo interno cresce l'occupazione nella grande impresa :
nelle unità con più di 500 addetti l'occupazione supera il 26%
dell'occupazione dipendente industriale.
Pertanto, nel corso degli anni sessanta si determina la maggiore
espansione della classe operaia "centrale", ovvero quella occupata
nelle grandi fabbriche organizzate secondo il modello fordista e
taylorista.
Questa componente della classe operaia nel corso del decennio
rafforza il suo potere negoziale, facendosi protagonista di quel
"ciclo di lotte" che prosegue in modo intenso fino a metà anni
settanta. Ma se la classe operaia centrale ha avuto un ruolo decisivo
nel mercato del lavoro, nel sistema delle relazioni industriali e nel
sistema politico del nostro paese la sua incidenza sul totale
dell'occupazione è stata complessivamente ridotta (non supera il
26% dell'occupazione dipendente industriale), e la sua crescita ha
riguardato soprattutto il Nord-Ovest del paese ed è stata molto
limitata nel tempo (un decennio) : "la classe operaia centrale
compare tardi in Italia e declina rapidamente" (E.Reyneri, 1996,
pag.240).
Invece, più stabile permane nelle diverse fasi dello sviluppo
economico la quota di operai occupati nelle piccole imprese (il c.d.
proletariato periferico).
Costanti storiche dello sviluppo economico italiano rispetto agli
altri paesi industrializzati, la maggiore incidenza dell'occupazione
"secondaria" nelle piccole e piccolissime imprese e la
segmentazione del mercato del lavoro, rappresentano le
"peculiarità" della via italiana al fordismo, frutto di retaggi storici e
di scelte politiche.
Sulle peculiarità del modello di sviluppo in Italia, si accende nel
corso degli anni settanta un ampio dibattito che coinvolge sociologi
ed economisti e tende a sottolineare i dualismi e le discontinuità
generati dalla crescita economica.
In particolare, A.Graziani (1969) imputa il dualismo produttivo
intersettoriale e il dualismo territoriale al modello di sviluppo
trainato dalle esportazioni di beni di consumo durevoli.
Il dualismo intersettoriale, riguarda lo squilibrio produttivo fra
aziende che operano nei settori dell'esportazione e quelle dei settori
tradizionali (agricoltura, edilizia, servizi, piccolo commercio) che
soddisfano la domanda interna. Le aziende esportatrici, sotto lo
stimolo della concorrenza internazionale, sono indotte ad avviare
processi di ammodernamento tecnico e organizzativo creando in
questo modo un aumento della produttività e maggiori garanzie di
reddito e occupazione per la forza lavoro occupata.
Dall'altro lato, nei settori tradizionali le imprese che soddisfano la
domanda interna presentano dei livelli di produttività nettamente
inferiori e occupano forza lavoro "secondaria", poco garantita e
flessibile. Questi settori, si configurano come "settori spugna" in
cui viene congelata l'offerta di lavoro "eccedente".
Il concentrarsi al Nord delle imprese esportatrici più moderne,
accentua d'altra parte il tradizionale dualismo fra il Nord e il Sud
del paese. Massimo Paci (1992), ha spiegato invece il dualismo
infrasettoriale fra piccole e grandi imprese, con la collocazione
subalterna dell'economia italiana nella divisione internazionale del
lavoro e con la specializzazione in produzioni ad alta intensità di
lavoro. Questi vincoli economici, spiegherebbero il perdurante
intreccio fra agricoltura e industria e la precoce segmentazione del
mercato del lavoro.
Infine, in anni più recenti Reyneri (1996) cerca di spiegare i
processi di segmentazione del mercato del lavoro in Italia e la sua
peculiarità rispetto al contesto europeo, imputandoli alla diversa
scansione temporale del processo di modernizzazione. L'Italia
avrebbe raggiunto il culmine del processo di modernizzazione
(passaggio dalla società contadina alla società industriale) in tempi
più rapidi rispetto ai paesi di più antica industrializzazione e in una
fase storica in cui l'industria, a causa dei processi di innovazione
tecnologica, non riesce a creare molti posti di lavoro.
Gli storici processi dell'urbanizzazione e del travaso di occupazione
dall'agricoltura all'industria e al terziario, avrebbero perciò
determinato uno squilibrio strutturale fra domanda e offerta,
comportando una maggiore segmentazione del mercato del lavoro e
notevoli problemi di regolazione statuale della popolazione
eccedente (politiche di "congelamento" della forza lavoro e di
sostegno assistenziale alla sottoccupazione e ai settori
improduttivi).
1.3 Il «fordismo all’italiana» : immagini della società e struttura
di classe.
Lo sviluppo dell'industrializzazione e la crescita del proletariato
industriale, specialmente della sua componente centrale, sono due
processi che caratterizzano in modo rilevante il mutamento sociale
nel nostro paese negli anni 1955-1975 al punto che, nel corso degli
anni settanta tanto nell'opinione pubblica quanto nel dibattito
scientifico, si afferma "un'immagine industrialista" della società
italiana (M.Paci, 1996, pag.714).
Secondo questa interpretazione, la struttura sociale del nostro paese
viene concepita "per lungo tempo come una sorta di gigantesco
calco dell'industria, la quale, forniva le risorse essenziali e creava le
condizioni di riproduzione delle classi sociali" (M.L.Bianco, 1996,
pag.2).
Ma bisogna sottolineare che la rilevanza di questi fenomeni
riguarda soprattutto le aree di più antica industrializzazione, vale a
dire le regioni del Nord-Ovest dell'Italia, ed è in una città come
Torino che si possono osservare le caratteristiche principali di una
struttura sociale modellata dalle dinamiche industriali, vale a dire
"rigida, con forma piramidale a base molto allargata" (ibidem),
fondata su un modello meritocratico di accesso alle risorse e di
mobilità sociali.
"A lungo è sembrato che la società si riproducesse sulla base di
capitali, titoli di studio e abilità, contribuendo all'affermarsi anche
fra i sociologi dell'immagine spersonalizzata del mercato" (ibidem).
Secondo questo modello, l'allocazione alle diverse posizioni sociali
dipende dalle differenti risorse e capacità di mercato dei soggetti.
Al vertice della piramide sociale si collocano gli appartenenti della
classe imprenditoriale, stratificata al suo interno dall'entità dei
capitali controllati; in una posizione intermedia vi sono coloro che
possiedono un'istruzione piuttosto elevata e offrono sul mercato del
lavoro competenze piuttosto rare che consentono di accedere alle
posizioni impiegatizie e tecniche e di percorrere la carriera. La base
di questa struttura sociale, è costituita prevalentemente da
lavoratori poco istruiti e con bassa qualificazione, generalmente
provenienti da settori extraindustriali che vivono come promozioni
sociali l'accesso al lavoro operaio industriale garantito.
Anche nel nostro paese nel corso degli anni settanta, la struttura
sociale viene da più parti disegnata secondo il modello della società
industriale. Così a titolo di esempio, Luciano Gallino nel
ripercorrere l'evoluzione delle diverse formazioni economico-
sociali nel nostro paese, sottolinea la rilevanza nella società italiana
degli anni settanta delle classi industriali e del modello
tecnocratico, individuando una generale tendenza alla
omogeneizzazione della struttura di classe (tanto per le classi
dominanti che per quelle subalterne).
Per quanto riguarda le classi dominanti, queste sono costituite da :
imprenditori indipendenti; alti dirigenti; tecnici. Tra i primi
rientrano "tutti coloro che controllano e dirigono personalmente e
direttamente aziende industriali, commerciali o agricole, piccole e
medie", si tratta di "una classe di dimensioni e importanza
notevole" ma "il suo prestigio è sopraffatto da quello degli alti
dirigenti" (L.Gallino, 1970, pag.129).
In effetti questi ultimi, dal dopoguerra in poi hanno raggiunto i
massimi livelli di "ricchezza, prestigio e potere", fino a diventare la
"formazione dominante della società italiana" (L.Gallino, 1970,
pag.131).
Infine, i tecnici sono "coloro che concepiscono, elaborano e
mantengono in funzione l'apparato tecnologico della produzione e
della circolazione di beni e servizi", e l'alta professionalità e
competenza ha permesso loro di essere la "forza centrale" sia del
settore industriale che dei servizi, ma resta il fatto che nei rapporti
di gerarchia all'interno delle imprese, essi "si comportano
abitualmente, in tutte le situazioni importanti, in maniera conforme
agli interessi degli alti dirigenti" (L.Gallino, 1970, pag.139, 145).
Sul versante opposto a quello delle classi dominanti, vi si colloca la
classe subalterna, la quale è costituita dai lavoratori dell'industria e
in particolare dagli "operai, inclusi i cosiddetti colletti bianchi che
non sono dirigenti, tecnici o intellettuali" (L.Gallino, 1970,
pag.145).
Nella formazione contemporanea, la classe degli operai "accresce
le sue dimensioni", essa è più omogenea al suo interno e, a livello