quell’epoca era stata rilevata un’elevata segmentazione dei mercati,
dovuta, oltre che all’imperfetta mobilità dei capitali, al rischio di
cambio insito in un sistema di cambi flessibili e nel diverso livello di
rischio che i mercati attribuivano ad investimenti emessi in Stati
diversi. Queste differenze dipendevano da fattori politici (quali la
fiducia nella stabilità dei governi) e da fattori economici (quali
inflazione, disoccupazione e bilancio pubblico), e trovavano evidenza
nei tassi di interesse, più elevati per attività emesse in Stati ritenuti più
rischiosi, e di cambio. Dopo la decisione di tentare di costituire
un’unità economica e monetaria europea, sono state adottate misure
volte appositamente a contenere la volatilità dei cambi fino a
raggiungere un sistema di cambi fissi, a rendere le politiche
economiche più omogenee e a rafforzare la fiducia dei mercati verso
la nuova moneta.
Alla luce di questo nuovo scenario, la tesi passa ad esaminare
l’evidenza empirica della convergenza dei tassi di interesse delle
nazioni che avrebbero costituito l’Unione europea, durante la fase di
transizione. Analizzando, per un periodo di circa dieci anni, secondo
la disponibilità di dati, i tassi di interesse a breve periodo
(rappresentati dai tassi interbancari a 1 mese) e a lungo periodo
(rappresentati dal benchmark sui bond decennali) si vede chiaramente
che, nel periodo, questi si avvicinano, fino a convergere
completamente dal 1 gennaio 1999. Questa è la prova che, nella neo-
creata Unione Europea, il premio al rischio internazionale, inteso
come premio politico e del tasso di cambio, è stato annullato e per un
investitore dovrebbe ora essere completamente indifferente acquistare
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attività emesse in un qualsiasi Stato dell’Unione. Allo stesso modo, si
nota che il premio al rischio è ancora presente verso le altre valute
mondiali.
Oltre alla verifica grafica, la tesi basa i suoi risultati anche su
un’analisi econometrica. Date le serie dei tassi di interesse dei singoli
Paesi considerati e quelli dell’Euro, l’analisi effettuata, sia con il
modello delle regressioni che con quello dei coefficienti variabili,
prova che la significatività della relazione tra tassi di interesse
dell’Euro e quello dei vari Paesi, sia di breve che di lungo periodo, è
variata in corrispondenza del gennaio 1999 e che la convergenza è
realizzata. Questo fatto empirico è perfettamente spiegato dalla teoria.
Quella data, infatti, rappresenta il passaggio da un sistema di politiche
economiche indipendenti ad un sistema accentrato sotto la guida della
Banca Centrale Europea. Infine, rappresentando le variazioni tra i
valori dei tassi di interesse a livello aggregato tramite l’indice di Gini,
si nota coma dal 1999 questo tenda a zero, ad ulteriore riprova che le
differenze tra gli Stati sono state notevolmente ridotte.
Dopo aver verificato i risultati del cambiamento di scenario avvenuto
in Europa, l’elaborato si sofferma ad analizzare il periodo di
transizione, presentando alcuni delle decisioni di politica economica
intraprese. Un’attenzione particolare è poi prestata al caso dell’Italia,
da sempre considerata paese piuttosto “rischioso” e della Grecia.
Quest’ultima, nonostante non sia stata considerata idonea a
partecipare da subito all’Unione Europea, è riuscita a rientrare nei
criteri stabiliti entro la data di introduzione fisica della nuova moneta
il 1 gennaio 2001.
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Per finire, si passano in rassegna i Paesi che, pur facendo parte della
Comunità Economica Europea, non hanno adottato l’Euro. In
particolare, la Svezia non fu ammessa tra i Paesi ritenuti idonei al
momento della decisione presa nel 1998 ed è ancora sotto
osservazione. La Danimarca ha liberamente deciso di non partecipare,
così come la Gran Bretagna che ha, però, già predisposto un piano per
il passaggio, qualora questo dovesse avvenire. Infine, si propone una
breve esposizione degli andamenti e delle politiche economiche delle
altre due principali valute con cui l’Euro si trova a confronto sulla
scena mondiale, il Dollaro e lo Yen.
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CAPITOLO 1
MODELLI DI PORTAFOGLIO
Dal 1 gennaio 1999, l’Unione Europea è entrata sulla scena mondiale.
Da questa data, undici paesi che fino ad allora avevano seguito
politiche monetarie indipendenti, si sono uniti per creare una nuova
unione monetaria. La chiave di volta di questo processo è stata la
determinazione dei tassi di cambio fissi, insieme al conseguimento di
politiche monetarie comuni.
L’idea originaria di Unione Europea, nacque poco dopo la Seconda
Guerra Mondiale. A quel tempo si tentò di operare con un sistema
denominato Breton Woods, che ancorava il tasso di cambio alle
riserve auree Americane. Quando questo sistema mostrò i suoi limiti e
fu abbandonato, si cercarono altri accordi per mantenere una certa
stabilità nel mercato dei cambi e dei tassi, europeo che, nel periodo dal
1370 al 1986, si era mostrato estremamente volatile. Proprio in quel
periodo di grande variabilità, molti economisti perfezionarono teorie
per cercare di spiegare i fattori determinanti il tasso di cambio e i
diversi effetti sulle politiche economiche nel caso in cui questo sia
fisso o flessibile. Il più classico è il monetary model il quale ipotizza
che i prezzi si aggiustino immediatamente, che la PPP sia soddisfatta
in ogni momento, che il tasso di cambio dipenda dalla domanda ed
offerta di moneta relativa nei vari Paesi e la domanda ed offerta di
bond sia irrilevante. Il Mundell-Fleming model presuppone prezzi
bloccati al livello dell’offerta aggregata e aggiustamenti solo a livello
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della bilancia dei pagamenti. Il Dornbush model offre un
compromesso tra i due differenziando tra breve periodo e lungo
periodo, tra mercato dei beni e delle attività finanziarie, che
compensano nel breve periodo la fissità dei prezzi reagendo in eccesso
sui tassi di rendimento. Accanto a questo, c’è il modello di portafoglio
(il cui massimo esponente è Branson) che sposta l’attenzione
completamente sui mercati finanziari a livello internazionale. Questo
modello, esposto negli anni ’80, si può ritenere molto interessante
perché mostra gli effetti di variazioni di tassi d’interesse e di cambio
sulle scelte di riallocazione di portafoglio degli investitori. La maggior
novità del modello è rappresentata del fatto che è preso in
considerazione un paniere di attività finanziarie non perfettamente
sostitute e un investitore che varia il suo portafoglio a livello
internazionale.
Dopo aver accennato al contesto storico-economico in cui i modelli di
portafoglio si sono sviluppati, il capitolo espone il modello di
Branson, considerato il più rappresentativo, nonché gli effetti del
settore finanziario su quello reale.
1.1 MODELLO DI BRANSON
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Branson formulò il suo modello intorno agli anni ’80, prendendo
spunti o distanziandosi dai modelli precedenti. Le attività sono
costituite da moneta corrente o liquidità, da attività finanziarie emesse
nella nazione di appartenenza (Bond o altro, ma emessi in moneta
locale e quindi non soggette a rischio di cambio) e attività finanziarie
emesse all’estero nella moneta del Paese di emissione.
Il modello poggia su numerose ipotesi: le attività non sono perfette
sostitute (c’è imperfetta mobilità dei capitali); gli individui sono
avversi al rischio; il livello di investimenti dipende dal tasso di
interesse garantito dall’investimento e dal livello di ricchezza nel
settore privato; i tassi d’interesse nei mercati finanziari si aggiustano
immediatamente.
Il fatto che le attività non siano perfette sostitute significa che, per gli
investitori, non è equivalente detenere denaro liquido, bond o altri
titoli a reddito fisso nazionali o esteri e preferiscono differenziare il
portafoglio su assets di diversi paesi. Esiste, dunque, un rischio di
cambio attaccato alle attività finanziarie denominate in valuta, rischio,
cioè, che una variazione del tasso di cambio tra l’inizio e la scadenza
dell’investimento modifichi il montante una volta riconvertito. Questo
rischio è oggi eliminato nell’area Euro, ma può ancora essere presente
verso le altre valute. Un mezzo per eliminarlo dall’intero mercato è
l’uso dei derivati (contratti a termine o opzioni) che però, oltre ad
essere costosi, vincolano al prezzo concordato, facendo perdere
eventuali effetti positivi. Anche le attività in valuta nazionale, seppur
non soggette al rischio di cambio, non sono indifferenti in quanto,
mentre la moneta liquida è sempre fruibile e di valore certo (a meno
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dell’inflazione), le attività a reddito fisso sono soggette al rischio di
tasso di interesse, inteso come rischio di prezzo e di reinvestimento.
Il premio al rischio è una diretta conseguenza di politiche monetarie
indipendenti, ma, anche in cambi flessibili,questa indipendenza può
essere ridotta, se esiste una domanda internazionale di moneta.
Nell’odierno sistema di cambi fissi, presente nell’Unione Europea, le
banche centrali hanno reso le attività perfette sostitute eliminando il
rischio di cambio.
L’ulteriore ipotesi, che diversifica maggiormente questo modello dal
modello monetario, è la CIRP (Covered Interest Rate Parità
assumption). Questa presuppone che gli individui siano avversi al
rischio, cioè che chiedano rendimenti maggiori per rischi maggiori.
Questa relazione crescente tra rendimento e rischio non è però lineare,
ma caratterizzata da curve d’indifferenza rivolte verso l’alto. Il rischio
di un’attività finanziaria è sempre misurato dalla standard deviation e
l’investitore cercherà sempre di posizionarsi sulla curva d’indifferenza
maggiore
In un’ottica di portafoglio, il rischio non va considerato isolatamente
ma va valutato il contributo aggiuntivo che ogni singolo investimento
dà al portafoglio (misurata dalla covarianza del ritorno dell’ultimo
investimento con i precedenti). Bisogna quindi cercare di inserire
assets che siano tra loro il meno correlati possibile, per ridurre il
rischio totale. La diversificazione può essere fatta sia per tipo di
attività (denaro, azioni, obbligazioni) o settore di attività, sia unendo i
mercati nazionale e internazionale.
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Sulla scena internazionale per l’investitore si possono delineare varie
possibili alternative di investimento. Riproponendo l’esempio di
Barnson, su un orizzonte temporale di un anno, un investitore inglese
può decidere o di acquistare solo titoli denominati in Sterline che
daranno un ritorno pari a £ (1+r) alla scadenza, o solo titoli
denominati in Dollari con un ritorno di $ (1+r*) /S o un mix dei due. Il
secondo caso ha però l’inconveniente che andrà riconvertito in
Sterline a un tasso futuro (forward) che non potrà essere che atteso e
quindi incerto.Il ritorno sarà £ (1+r*) (Se/S) e quindi più rischioso di
quello dell’investimento in moneta nazionale. Il premio al rischio è la
ricompensa, di solito in termini di un excessed return anticipato, che
un agente ottiene per sopportare un maggior rischio. Gli individui
avversi al rischio sono coloro che richiedono un premio al rischio
positivo per intraprendere l’azione, in modo che all’equilibrio il
ritorno sui due investimenti sia il medesimo.
La parità dunque richiede che (1+r) = (1+r*) Se/S. Siccome Se è il
tasso di cambio atteso alla fine dell’anno e S quello all’inizio, il loro
rapporto può essere equivalente a 1+∆se, con se tasso di
deprezzamento della moneta nazionale o aumento del prezzo della
moneta estera. Si può quindi riscrivere (1+r) = (1+r*) (1+∆se) =1+r*+
∆se+r*∆se ed eliminare l’ultimo termine come non significativo perché
prodotto di due tassi percentuali. Questa equazione è detta UIRP
(Uncovered Interest rate Parity) ed afferma che il tasso d’interesse
domestico deve essere maggiore del tasso di interesse estero, per un
ammontare uguale al deprezzamento atteso della moneta domestica.
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Le operazioni che hanno portato a questo comportano, però, certi
gradi di rischio. Un investitore avverso al rischio richiederà, dunque,
una componente aggiuntiva “p” per eliminarlo, facendo diventare
l’equazione r=r*+∆se+p. Per eliminare questa incertezza, è possibile
utilizzare un tasso di cambio a termine che, anche se permette di
ripristinare l’equilibrio, può far perdere variazioni vantaggiose del
tasso S. La nuova condizione è, quindi, (1+r) = (1+r*) (F/S), la quale
elimina il rischio e porta ad una condizione di arbitraggio. Riscrivendo
F/S come 1+f, dove f è la proporzione per cui il tasso di cambio a
termine eccede quello a pronti, si arriva a (1+r) = (1+r*) (1+f) e,
eliminando r*f perché non significativo, atteniamo r=r*+f. Questa è la
CIRP, in cui il tasso d’interesse domestico deve essere maggiore di
quello estero di un ammontare uguale al premio sulla valuta
domestica, racchiuso nel tasso a termine.
La CIRP poggia su alcune ipotesi come la libera circolazione dei
capitali, l’ampia disponibilità di informazione sui tassi a pronti e a
termine e costi di transazione trascurabili. Mentre le prime due
possono essere accettabili, così non è per la terza, soprattutto se si
usano altri strumenti di hedging (es.opzioni) diversi dai contratti
forward
Nel modello considerato, UIRP e CIRP possono valere
contemporaneamente quando f =∆se (condizione di unbiasedness), ma
possono anche differire. Quando sono diverse non si è all’equilibrio, il
rischio (inteso in senso sia positivo sia negativo come risultato non
certo) non è eliminato e un investitore non neutrale al rischio può
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richiedere un premio aggiuntivo, v , per intraprendere la transazione
portando f verso l’equilibrio di arbitraggio.
1.1.1 Il funzionamento del modello
Il modello di portafoglio, prendendo le distanze sia dal modello
monetario sia dal modello di Dornbush, permette un’analisi più
dettagliata dei mercati finanziari. Particolare attenzione è data al
paniere di attività, composto da denaro liquido, bond nazionali e
internazionali e a come l’individuo modifica il suo portafoglio
diversificando tra questi. La combinazione iniziale è determinata da
W, la ricchezza detenuta dal settore privato, mentre i riaggiustamenti
possono dipendere da vari fattori quali un cambiamento del livello di
ricchezza, una variazione del tasso di rendimento interno o estero.
Continuando a prendere come esempio Gran Bretagna e Stati Uniti, il
modello usa la Sterlina come moneta domestica e il Dollaro come
estera. La ricchezza iniziale è data da W=M+B+SF, con M (money) e
B (bond) fissi nel breve periodo.
Più in dettaglio, la domanda per ogni attività è considerata
interdipendente dalle altre (se W resta fisso), mentre una variazione
del livello di W porta aggiustamenti nelle quantità di ogni elemento,
sempre nell’intento finale di massimizzare il benessere futuro,
misurato dalla loro utilità. La domanda di ogni asset è, quindi, in
funzione di più fattori, in particolare:
M/P=m(r,r*+∆se)W/P m1<0,m2>0
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