2
Ma ciò può essere fatto con cognizione di causa solo premettendo, nel capitolo 2,
un’analisi delle politiche implementate nei primi periodi della programmazione,
comprensiva delle loro conseguenze. In essa è stata ripercorsa l’evoluzione storica del
processo di convergenza, secondo tre punti di vista: quello degli Stati, del complesso
delle regioni e delle regioni all’interno delle singole nazioni. Confrontandone i risultati
è emersa una parziale disomogeneità, le cui ragioni sono spiegate dal modello di Martin,
che ipotizza anche una serie di interventi per riequilibrare la situazione. Inoltre, gli
indicatori di convergenza sono stati scorporati, e le loro componenti analizzate una ad
una per capire su quali puntare per migliorarne il rendimento. Il capitolo passa in
rassegna le performance degli Stati membri nei due cicli che hanno preceduto quello in
corso, a partire dal 1989, esaminando i movimenti dei principali indicatori e le riforme
intraprese in ciascun ciclo.
Il terzo capitolo è dedicato ai risultati raggiunti in Italia grazie agli aiuti strutturali: dal
potenziamento della convergenza tra le regioni a quella dell’Italia rispetto all’Europa.
Sono stati riportati gli stanziamenti degli ultimi cicli e descritti alcuni esempi di progetti
andati a buon fine. Purtroppo, la situazione italiana non è migliorata quanto ci si sarebbe
augurati, e il Mezzogiorno è ancora fortemente arretrato rispetto al Centro-Nord, che ha
saputo usare gli aiuti in modo più efficace. Solo l’Abruzzo e, ultimamente, il Molise,
regioni entrambe vicine a quelle più sviluppate, hanno saputo indirizzare i trasferimenti
a favore di una crescita solida; le altre, sebbene stiano migliorando, necessitano ancora
di ampi investimenti. L’ultima parte del capitolo esamina nel dettaglio i sette
Programmi Operativi Regionali (POR) e i sette Programmi Operativi Nazionali (PON)
attualmente funzionanti.
L’ultimo capitolo, il quarto, si concentra sul recente allargamento: la prima parte ne
passa in rassegna il concepimento e i timori sulla fattibilità, gli aiuti di pre-adesione e
gli strumenti creati per attuarli, passando quindi all’analisi dei primi risultati e alle
speranze per il futuro. Nell’allargamento l’Unione ha riposto un impegno senza
precedenti, nella convinzione che più che si trattasse della riunificazione di un
continente; per la prima volta, inoltre, si sono accolte nazioni che hanno alle spalle
un’economia pianificata.
3
La seconda parte del quarto capitolo, infine, tenta di capire quali siano le innovazioni
alla base delle prospettive finanziarie destinate al ciclo che andrà dal 2007 al 2013. Esse
sono state inserite in questo capitolo perché la riforma che le ha interessate è stata spinta
fortemente dall’entrata dei nuovi paesi. Le nuove prospettive ribadiscono quali principi
guida della coesione l’efficacia, l’efficienza e lo sviluppo di sinergie, nell’ambito della
riforma degli obiettivi, che saranno dedicati a Convergenza, Competitività e
Cooperazione. Il nuovo bilancio dovrebbe dividersi in cinque rubriche, e grande spazio
sarà attribuito proprio a quella della politica regionale e di coesione.
Ma il progetto di bilancio è stato bocciato in giugno, in seguito alla difficoltà di trovare
un accordo tra gli Stati, ed andrà rivisto e modificato: gli avvenimenti più recenti della
politica comunitaria sono definiti con maggiore chiarezza nelle Conclusioni.
4
CAPITOLO 1
CONVERGENZA E POLITICA DI COESIONE REGIONALE:
APPROCCI TEORICI ED ESPERIENZA EUROPEA
1.1 Premessa
Da secoli due dottrine si confrontano, senza trovare un compromesso, sul fatto che
l’intervento dello Stato sia necessario o meno per il raggiungimento dell’efficienza del
sistema economico.
Da un lato ci sono coloro i quali ritengono che il mercato, lasciato libero di agire, possa
raggiungere un livello ottimale di efficienza nell’allocazione delle risorse a propria
disposizione.
Dall’altro si contrappongono coloro che ritengono indispensabile un intervento dello
Stato, volto a combattere le disuguaglianze e le disparità create dal libero mercato, le
quali impedirebbero altrimenti il raggiungimento di una reale efficienza.
In ogni caso, che la si ritenga automatica o meno, niente assicura che tale efficienza non
vada a discapito di un altro importante valore: l’equità.
5
1.2 Teorie della divergenza e della convergenza
La prima corrente si riunisce attorno ai principi della “Convergence school” di
ispirazione neoclassica, sostenitrice della teoria dell’equilibrio regionale, mentre l’altra,
la “Divergence school”, ha ispirazione post-keynesiana e, sviluppatasi attorno agli studi
di G. Myrdal e F. Perroux
1
, presenta la teoria dello squilibrio regionale.
La teoria neoclassica è contraria ad una politica di redistribuzione che si proponga di
stimolare una maggiore uguaglianza, in quanto, date le differenze di sviluppo iniziali tra
le regioni, è il processo di integrazione stesso ad assicurare la convergenza. Ipotizzando,
per semplicità, assenza di economie di scala e di costi di transizione, la libera
circolazione permette ai capitali di spostarsi dalle regioni più ricche, con produttività
marginale del capitale ormai bassa, alle regioni più povere, dove è maggiore, grazie alle
migliori possibilità di investimento. Allo stesso modo, la mobilità del lavoro consente ai
lavoratori di spostarsi tra le regioni alla ricerca delle migliori possibilità. Il flusso dei
fattori è destinato ad arrestarsi quando le remunerazioni di capitale e lavoro diventino
uguali. Le regioni caratterizzate da redditi e salari più bassi dovrebbero, perciò, crescere
ad un ritmo superiore alle altre, grazie a maggiori saggi di accumulazione, ottenendo
una convergenza automatica, che non necessita di un’apposita politica.
Il punto di vista post-keynesiano è completamente diverso: assumendo economie di
scala e costi di transizione, capitale e lavoro, lasciati liberi di circolare, si dirigono verso
i settori e le regioni già sviluppati, per acquisirne i vantaggi. Il risultato è che le
differenze iniziali si accumulano, generando una polarizzazione delle regioni, con effetti
di “riflusso” e “propagazione”. L’analisi di Myrdal e Perroux fornisce, dunque, una
valida giustificazione alla politica di redistribuzione regionale.
L’esperienza europea ha sperimentato, alternativamente, movimenti in entrambe le
direzioni, ma senza che, nel complesso, l’una o l’altra abbia prevalso.
I primi a non aver seguito una direttrice precisa, in Europa, sono stati i flussi di capitale
e di lavoro, anche se in ciascun periodo una delle due tendenze è stata più forte. Per
quanto riguarda i capitali, osservando il flusso degli investimenti diretti, tra il 1980 e il
1
G. Myrdal, The Economic Theory and Underdeveloped Regions, Duckworth, Londra, 1957 (Trad. It.
Teoria economica e paesi sottosviluppati, Feltrinelli, Milano, 1959, pagg. 34-36).
6
1992, nei 12 paesi che in quegli anni appartenevano alla Comunità, si hanno i seguenti
dati:
Tabella 1.1 - Distribuzione geografica e crescita degli investimenti diretti fra gruppi di
paesi membri dell’UE12, in percentuale
2
, 1980-1992:
Fonte: Morsink 1997, basi statistiche Eurostat e OECD
Nel caso del fattore lavoro, la libera circolazione ha inizialmente dato luogo ad una
migrazione, dai paesi più poveri ai più ricchi, cui è seguita una fase di ritorno: il
bilancio finale degli spostamenti non è rilevante.
Un’analisi più specifica dei dati relativi al PIL pro capite evidenzia un movimento
convergente degli indicatori tra gli Stati, ma divergente in molti confronti a livello
regionale. Fino ad oggi, l’esperienza ha rivelato la positività delle politiche di
redistribuzione. La finalità dell’Unione, però, va oltre una distribuzione equilibrata di
perdite e guadagni dell’integrazione: l’obiettivo esplicito, definito fin dal Trattato di
Roma, è la riduzione delle disparità. Le conseguenze di uno sviluppo sbilanciato
dell’Europa non ricadono soltanto sulle regioni povere, ma anche su quelle ricche, che
vedono ridursi le possibilità di allargare il proprio mercato, e subiscono gli effetti di un
rallentamento del tasso di crescita. La maggiore domanda di beni e servizi generata dai
Fondi europei beneficia anche le imprese delle regioni e dei paesi più prosperi. Infatti,
durante i primi cicli di programmazione si calcolò che su 100 ECU trasferiti ai paesi
beneficiari, da 30 a 45 ritornassero ai paesi contribuenti. Inoltre, c’è il rischio che i
“perdenti” decidano di ritirarsi, mettendo in pericolo i benefici generali
dell’integrazione. Ecco perché la politica redistributiva è stata accettata da tutti gli Stati
membri, anche da quelli che sono contribuenti netti.
2
Percentuale media annuale del tasso di crescita.
Distribuzione Crescita
1980-84 1984-88 1988-92 1980-92
Dal centro al centro 77 80 71 30
Dal centro alla periferia 20 16 22 33
Dalla periferia al centro 3 4 5 42
Dalla periferia alla periferia - - 2 56
7
1.3 Redistribuzione: risultati in termini di efficienza ed equità
Vediamo in che modo una politica redistributiva generi un aumento di efficienza e di
equità, e perché questi obiettivi ne costituiscano le principali motivazioni, anche quando
non ci si trovi in un contesto di integrazione.
In un’economia di libero scambio, data la distribuzione iniziale di risorse e capacità,
esistono disparità sociali e regionali di welfare. Il sistema, lasciato a se stesso, in molti
casi non sarebbe in grado di risolverle per raggiungere un livello di equilibrio
socialmente desiderabile: per questo i governi decidono di intervenire. W. Molle
3
, nella
sua analisi, ne spiega le ragioni dal punto di vista di efficienza ed equità:
- Efficienza: misure di politica regionale e sociale aiutano l’efficiente allocazione delle
risorse, riducendo gli ostacoli allo sviluppo e generando un aumento del benessere
totale. Ad esempio:
- Politica regionale: se il lavoro non è mobile, il capitale umano disoccupato non
verrà mai impiegato, ma l’occupazione può crescere grazie a nuove
infrastrutture create dai governi sul territorio;
- Politica sociale: può essere utile la riqualificazione dei lavoratori a favore delle
nuove industrie, favorendo l’adattamento del capitale umano al mutare delle
condizioni lavorative.
- Equità: la maggior parte della popolazione considera la disuguaglianza moralmente
inaccettabile; come nel caso dell’efficienza, il benessere totale aumenta qualora le
disuguaglianze tra gruppi sociali e regionali siano rimosse:
- Politica regionale: opera, ad esempio, stabilendo standard quantitativi minimi di
beni pubblici per tutte le regioni, come il numero di letti d’ospedale per abitante.
Il governo dovrebbe trasferire gli aiuti necessari alle regioni che da sole non
riescono a far fronte a tali spese;
- Politica sociale: esempi di questa politica sono la fissazione di salari minimi e di
un dettagliato sistema di sicurezza sociale.
3
W. Molle, The Economics of European Integration: theory, practice, policy, 3
rd
edition, Dartmouth,
England, 1997, Cap. 18.
8
Le ragioni a favore degli interventi attraverso la redistribuzione moltiplicano la loro
valenza qualora si parli di un contesto integrato; vediamo come:
- Efficienza: in assenza di redistribuzione le industrie meno efficienti, esposte alla
concorrenza estera, si troverebbero costrette ad uscire dal mercato, perché le tradizionali
politiche interne non potrebbero più essere utilizzate. Alcune regioni sarebbero destinate
al declino, e le imprese dovrebbero spostarsi verso aree più prospere, con conseguenze
negative per tutti: le regioni in declino registrerebbero un calo sia nella domanda che
nell’offerta, mentre le altre sosterrebbero costi dovuti alla congestione. Solo una politica
redistributiva potrebbe correggere questi fallimenti del mercato, ma, poiché i problemi
coinvolgono più giurisdizioni, occorre un coordinamento tra le azioni, se non la
centralizzazione stessa della politica.
- Equità: nel processo di integrazione, il trasferimento interregionale di risorse può
essere visto come un atto di solidarietà. La motivazione sociale, però, si è affermata solo
gradualmente, in corrispondenza degli stadi più alti di integrazione.
9
1.4 Il trade-off tra Stati e Unione
Un’altra ragione per giustificare la promozione della politica redistributiva da parte
dell’Unione è dovuta al fatto che le priorità e gli obiettivi di Bruxelles talvolta
divergono da quelli degli Stati membri. In altre parole, qualora la necessità di ridurre le
disparità regionali venisse riconosciuta sia dagli Stati membri che dall’Unione, non è
detto che essa rappresenterebbe una priorità per entrambi, a maggior ragione quando il
perseguimento di questo obiettivo entri in contrasto con quello di una rapida crescita
economica, considerata dagli Stati più importante. In questo caso, la spinta dell’Unione
a favore dell’uguaglianza potrebbe essere l’unico modo per realizzarla. Vediamo a
questo proposito la tesi sostenuta da Williamson
4
, e gli studi di De la Fuente e Vives
5
legati alle disparità regionali in Spagna negli anni ’80.
1.4.1 La tesi di Williamson
Williamson definì il proprio modello in seguito ad un’analisi empirica, che abbinò la
misurazione delle disuguaglianze regionali tra diversi paesi in una stessa data
all’andamento storico delle disparità per gli stessi paesi. Da questa doppia analisi,
spaziale e temporale, egli ricavò una legge secondo la quale i divari interni sono di
scarso rilievo per il reddito pro capite, sia nei paesi arretrati che in quelli molto
sviluppati, e sono invece considerevoli nei paesi che abbiano raggiunto un livello
intermedio di sviluppo.
Ovvero, il divario tra le regioni sarebbe piccolo nei paesi arretrati, tenderebbe a crescere
nelle prime fasi dello sviluppo economico, per decrescere successivamente, quando il
paese raggiunga alti livelli di sviluppo. Ciò conferma l’esistenza di una relazione
sistematica tra sviluppo economico e disparità regionali: secondo Williamson, il tipico
modello di sviluppo nazionale genera una divergenza crescente fra regioni nelle prime
fasi dello sviluppo, e convergenza nelle successive. Di conseguenza, i dati relativi alle
disuguaglianze, al procedere dello sviluppo, si possono rappresentare graficamente ad
“U” rovesciata, come nel grafico 1.1.
4
O. E. Williamson, L’economia dei costi di transizione: concetti, strumenti, applicazioni, Franco Angeli,
Milano, 1998.
5
A. De la Fuente, Inversion publica y redistribution regional: el caso de Espana en la decada de las
ochenta, Barcelona, 1996.
10
Grafico 1.1 – Il massimo benessere nella legge di Williamson:
La dispersione del reddito è rappresentata da d, e il reddito pro capite da y. Nei paesi ad
alto reddito i due obiettivi, la convergenza nazionale e quella regionale, non sono in
conflitto, cosa che invece accade nei paesi in via di sviluppo. La legge di Williamson
impone alle autorità nazionali dei paesi più poveri di scegliere tra un livello più alto di
reddito nazionale ed uno di uguaglianza regionale. Nel grafico, le preferenze dei
cittadini sono rappresentate da curve di indifferenza, come U
0
e U
1
. La combinazione
(y,d) che massimizza il benessere della società è quella in corrispondenza della tangenza
tra la curva di indifferenza di livello superiore e la curva di Williamson, che avviene nel
punto (y
0
,d
0
), ma in realtà, la scelta della combinazione da attuare è fatta a livello
governativo.
Assumendo che le preferenze sociali siano rappresentate meglio da livelli inferiori di
governo, la scelta dell’autorità nazionale sarà (y
0
,d
0
), nel punto che garantisce il
massimo benessere sociale. Un’eventuale decisione di maggiore uguaglianza sociale,
(y
1
,d
1
), porterebbe ad una perdita di benessere. Questo caso, nella pratica, si verifica
spesso: i paesi più poveri preferiscono promuovere lo sviluppo nazionale e creare buone
condizioni per gli investimenti privati, concentrando quelli pubblici su pochi poli di
crescita, ottenendone un minor benessere complessivo.
La legge di Williamson è suscettibile di critiche sia sul piano metodologico che
dell’aderenza ai dati empirici, ma è significativa la sua abilità nello spiegare il trade-off
tra gli obiettivi degli Stati e quelli dell’Unione.
11
1.4.2 La Spagna degli anni ’80: gli studi di De la Fuente e Vives
Quando questi due ricercatori iniziarono il loro studio sulle disparità regionali in
Spagna, le differenze nel capitale umano e nella dotazione di infrastrutture spiegavano
per un terzo i divari. In seguito, tra il 1981 e il 1990, l’azione dei Fondi ha ridotto il
differenziale nella produttività. Questi sforzi redistributivi, però, hanno avuto dei costi
in termini di efficienza. Infatti, se la spesa pubblica fosse stata destinata a favorire gli
investimenti che assicuravano il miglior rendimento, il PIL complessivo sarebbe oggi
più elevato. De la Fuente ha provato a confrontare le stime di una politica di spesa
dedicata all’equità e di una rivolta all’efficienza: i dati ottenuti dimostrano che una
spesa estremamente redistributiva avrebbe ridotto le disparità regionali del 13,54%, a
fronte di una diminuzione del PNL spagnolo del 1,62%, mentre una politica opposta alla
fine avrebbe aumentato il PNL dell’1,58%, e le disparità regionali del 18,29%. Anche
questo studio testimonia la parziale incompatibilità degli obiettivi di crescita ed
uguaglianza.
12
1.5 Divisione delle competenze e sussidiarietà
Poniamo a confronto le ragioni che inducono a preferire livelli di governo inferiori, con
quelle a favore della centralizzazione:
- Decentralizzazione:
- Tiene in maggior considerazione bisogni e preferenze di individui e comunità;
- La partecipazione dei gruppi coinvolti è maggiore;
- I costi di attuazione sono più bassi;
- La responsabilità delle istituzioni per le proprie azioni è maggiore.
- Centralizzazione:
- Potrebbero verificarsi rallentamenti, a causa del trade-off tra crescita e riduzione
delle disparità;
- Comporta costi di transizione verso i sistemi decentrati;
- Esistono economie di scala, perché il centro può produrre a condizioni più
vantaggiose;
- Sorgono effetti di spill-over: se i non residenti del paese A godessero dei
benefici derivanti dagli investimenti dei residenti in A, sarebbe improbabile che
l’investimento si realizzasse, a meno che un’autorità superiore, come quella
centrale, intervenga;
- Una politica attuata a livello centrale è più credibile.
Tra i livelli di governo possibili, l’ottimo è quello in corrispondenza del quale
l’efficienza è massimizzata; ecco perché l’obiettivo di solidarietà nell’Unione preferisce
il livello più basso, mentre il più elevato interviene solo se ciò assicura una maggiore
efficienza.
Solo negli ultimi anni si sta mettendo in pratica il principio di sussidiarietà. Dato che i
vantaggi e gli svantaggi della centralizzazione non sono facilmente calcolabili, a
prevalere sono motivazioni politiche, piuttosto che economiche.
13
Ciò ha determinato una sorta di federalismo cooperativo, nel quale i diversi livelli di
governo esercitano congiuntamente la politica regionale come partners, ognuno
responsabile di una particolare funzione; in questa politica regionale centralizzata
l’Unione ha il ruolo dominante.
Dal punto di vista economico, però, la scelta non è del tutto giustificata per una serie di
motivi:
- Per quanto riguarda il trade-off tra crescita e riduzione delle disparità, è difficile
dimostrare che tra i Quindici ci fossero ancora paesi nella fase iniziale dello
sviluppo;
- I costi di transizione non diminuiscono sufficientemente;
- Le economie di scala sono scarse e il guadagno è al più nella qualità, perché la
centralizzazione fa passare meglio le informazioni e il know-how, ma in
generale si hanno maggiori costi per il coordinamento e il controllo;
- Lo spill-over è limitato, e giustificherebbe un coinvolgimento bilaterale, ma non
necessariamente la centralizzazione;
- La maggiore credibilità della centralizzazione si ha nelle politiche a lungo
termine, mentre la formula europea si concentra sul breve.
Ciò conferma quanto affermato da W. Molle sulla prevalenza di ragioni politiche alla
base della scelta europea.
1.5.1 Gradi di integrazione: area di scambio preferenziale e area di libero
scambio
Osserviamo uno schema, proposto da W. Molle, riguardante le modalità di attuazione
della redistribuzione in ciascuno dei possibili livelli di integrazione:
14
Tabella 1.2 – Forme di redistribuzione nei diversi livelli di integrazione:
Instruments/Integration
Low
PTA/FTA
Medium
CU/CUM
High
EMU
Full
FED
No action 0
Expenditure:
Compensation X
Specific Purpose X X X
General Purpose X X
Receipts:
Compensation X
Contribution X X X
Taxes X X
Social Security X
Fonte: W. Molle, The Economics of European Integration: theory, practice, policy, 3
rd
edition,
Dartmouth, England, 1997, p. 433
Nei livelli più bassi dell’integrazione spesso la politica redistributiva è assente, per tre
ragioni:
- Vi è un insufficiente sviluppo delle istituzioni comuni;
- Assente, o ridotta, solidarietà tra le parti;
- Difficile accordo sull’entità della compensazione.
Qualora questi ostacoli vengano superati inizia uno stadio di semplice compensazione:
delle somme, versate dai paesi che traggono maggiori benefici dall’integrazione,
affluiscono ad un fondo le cui risorse sono distribuite tra i paesi penalizzati.
Negli stadi successivi, la redistribuzione è fatta attraverso due tipi di trasferimenti: uno
interpersonale ed uno interregionale.
Nell’interpersonale, ad esempio, le entrate possono provenire dall’imposizione
progressiva sul reddito, e la spesa è destinata ai soggetti più svantaggiati attraverso un
sistema di sicurezza sociale. Nell’interregionale, invece, le regioni più povere ricevono
dal bilancio nazionale più di quanto versano, finanziando così i propri programmi.
15
1.5.2 Dal Mercato Comune alla Federazione
Nel più ambizioso progetto di Mercato Comune gli strumenti cambiano ancora: le
necessità redistributive aumentano, a causa di una maggiore presenza di squilibri e di
una minor efficacia delle politiche tradizionali. D’altra parte, però, le strutture si
consolidano, e il nuovo mercato è in grado di offrire delle politiche adeguate. Prende
forza lo strumento del trasferimento interregionale, che destina le somme raccolte ad
obiettivi specifici, anche perché i governi sono sempre riluttanti ad attribuire all’Unione
la gestione dei trasferimenti interpersonali. Nel lungo periodo il benessere cresce, grazie
alla migliore allocazione dei fattori produttivi disponibili.
L’eventuale istituzione di un’Unione Economica e Monetaria (UEM) riduce
ulteriormente gli strumenti a disposizione degli Stati, che perdono la possibilità di
intervenire attraverso la politica monetaria e di cambio. All’aumentare
dell’armonizzazione, soprattutto nel campo delle politiche industriali e sociali, gli
strumenti nazionali perdono potere nel fronteggiare gli sviluppi regionali. L’UEM porta
ad un aumento dell’efficienza allocativa dei fattori e alla riduzione degli strumenti di
politica macroeconomica utilizzabili. I versamenti hanno la forma di pagamenti in
blocco, agli Stati membri o alle loro regioni. Si attua il principio della sussidiarietà,
anche se l’Unione, in questo modo, rinuncia al controllo sull’uso reale dei Fondi.
Giunti all’unificazione completa, con la costituzione di una Federazione, la solidarietà
tra gli stati dovrebbe essere cresciuta al punto da giustificare anche l’uso dei
trasferimenti interpersonali, come le imposte progressive sul reddito e i trasferimenti
agli individui a basso reddito. I destinatari di tali flussi spesso sono concentrati in certe
regioni o in certi paesi, cosicché la politica interpersonale diviene, di fatto,
internazionale o interregionale. Il limite di questi movimenti è che influenzano
scarsamente la capacità produttiva dei beneficiari, qualora non siano associati a delle
politiche mirate.