3
Fino a poco tempo fa luoghi come Babilonia, Troia, e altri luoghi raccontati dai nostri
antenati, palcoscenico di favolosi miti antichi, considerati favole, oggi sono stati
ritrovati, e quindi coloro che ancora stanno cercando l’isola sono ancora più incoraggiati
a svelare il mistero di Atlantide
1
, falciata dal destino nonostante le sue caratteristiche
“vincenti”.
Il passato può effettivamente mostrarci il futuro se siamo in grado di interpretarlo
correttamente e imparare da ciò che è avvenuto, consapevoli delle nostre potenzialità,
ma anche dei nostri limiti. La natura è in grado di essere molto generosa quanto
impietosa e crudele. Un aspetto critico è proprio il rapporto, da sempre conflittuale, tra
l’uomo e l’ambiente. Ogni ecosistema ha un equilibrio dinamico che va mantenuto,
sbilanciarlo significa incorrere in una catastrofe, dalla quale non è detto che usciremmo
illesi. La nostra storia recente ci riporta una serie di esempi dai quali emerge la nostra
incapacità di adattamento ai cambiamenti ambientali, dopo un periodo di condizioni
favorevoli. Siamo tentati a pensare che “tutto si può sistemare”, siamo abituati a ritenere
che la natura, anche in situazioni estremamente critiche e pericolose, sia capace di
modificarsi in modo da non nuocerci. Siamo considerati oramai dai più eminenti
scienziati mondiali il più importante agente di cambiamenti geologici, la prima specie in
grado di modificare la superficie del pianeta, la sua atmosfera, il suo clima, in modo
radicale e globale
2
.
La scomparsa di civiltà un tempo floride e di successo, come i Maya, i Vichinghi in
Groenlandia, lo stesso Impero Romano, esemplificano chiaramente come la nostra
specie spesso venga accecata dalle proprie esigenze, dalle più legittime, come il
sostentamento, fino a scalare la piramide dei bisogni di Maslow
3
, senza riuscire a
prevederne le conseguenze spesso irreversibili, senza essere in grado di autocontrollarsi
e gestire l’ambiente ottimizzando le risorse. Jared Diamond, nella sua ultima opera
Collapse. How societies choose to fail or survive
4
affronta proprio questo argomento.
1
Giuseppe Brillante, L’uomo di Atlantide, «Newton», N°1- 2005, pp. 42-48
2
Douglas Macdougall, A Short History of Planet Earth, anno 1996, John Wiley and Sons, trad. it. 1999,
Storia della Terra, Einaudi, Torino, p. 268
3
Abraham Maslow ipotizza una scala di bisogni alla cui base si trovano i bisogni fisologici, seguiti dai
bisogni di sicurezza, di appartenenza e amore, di stima e infine di realizzazione di se stessi. Secondo
Maslow i bisogni più alti nella scala possono essere percepiti solo quando i precedenti sono già stati
appagati. Questa teoria spiega il grado di pulsione esplorativa mostrato da individui appartenenti a classi
sociali medio-alte.
4
Jared Diamond, Collapse. How societies choose to fail or survive, Allen Lane, Londra, 2005
4
Sonda ogni aspetto delle società un tempo potenti e ricche, tentando di trovare le cause
del loro fallimento. L’autore descrive la “miopia” cronica e preoccupante degli abitanti
dell’Isola di Pasqua, che dopo aver sovrasfruttato il territorio, deforestando
completamente il luogo, senza quindi avere più la possibilità di poter costruire utensili o
imbarcazioni, si trovarono vittime della loro incuria, della loro incapacità di prevedere il
“domani”.
La conseguenza di tutto ciò fu una tragica spirale di guerre intestine e cannibalismo,
l’affermazione di una classe di guerrieri che viveva di morte e violenza, cosicché una
isola lussureggiante e felice che ospitava una straordinaria civiltà, si era trasformata in
una savana spoglia e crudele, non più in grado di mantenere la popolazione che
ospitava.
Una delle società indiane più evolute del Nordamerica è testimoniata dalla imponenza di
strutture come il Chaco Canyon National Monument, nel New Mexico, comprendente
almeno 650 stanze, costruito in mezzo a quello che oggi è un esteso deserto arido, ma
che in tempi antichi era un florido terreno boschivo, sfruttato e abbattuto dagli indiani
per trarne legna da ardere e legname da costruzione. Questa civiltà, vittima della propria
incuria, finì tragicamente, infatti dovette abbandonare i luoghi che lei stessa aveva
disastrosamente e irrimediabilmente reso sterili, applicando una politica che potremmo
chiamare, come afferma Jared Diamond di “suicidio ecologico”
5
.
Anche l’Impero Romano, nel III sec d. C., caduto in una profonda crisi economica,
pressato ai confini dalle popolazioni barbare, invece di reagire e agire in modo
razionale, continuava a spendere cifre irragionevoli in beni di lusso provenienti
dall’Oriente, contribuendo a squilibrare la bilancia commerciale; oltretutto in agricoltura
si praticava una agricoltura di rapina, che aveva reso i terreni poco produttivi,
costringendo l’Impero a dover comprare il grano dall’Egitto
6
. Purtroppo questi
avvenimenti passati potrebbero riverificarsi su larga scala in futuro, compromettendo
gravemente la sopravvivenza della nostra specie.
La sconsideratezza umana è a volte disarmante: per quanto siamo consapevoli della
portata distruttiva di vulcani, terremoti, ma anche delle acque avvelenate,
5
Jared Diamond, The Rise and Fall of the Third Chimpanzee, Radium Random Century Group, New
York, 1991, trad. it 1994, Il terzo scimpanzè. Ascesa e caduta del Primate Homo Sapiens, Bollati
Boringhieri, Torino p. 406
6
Givanni Vitolo, Medioevo. I caratteri di un’età di transizione, Sansoni, Firenze 2000, pp. 16-17
5
inquinamento.. siamo pronti a costruire opere edili sulle pendici di vulcani ancora attivi,
a edificare abitazioni che non seguano adeguati codici edilizi pianificati che
minimizzano i danni causati dalle scosse, scaltri imprenditori scaricano veleni derivanti
dai processi industriali direttamente nelle falde acquifere, pensando di gabbare la
comunità, senza comprendere che verranno assunti da lui stesso e dai suoi figli,
avvelenandoli, o nell’aria, senza pensare che è la stessa fonte da cui trae ossigeno. E’
sicuramente necessaria una vera e propria rivoluzione culturale, che contempli la causa
ambientale, che modifichi la nostra visione antropocentrica, visualizzandoci quale
potrebbe essere la nostre triste fine se continuassimo a sottovalutare la serie di disastri
che stiamo causando alla Terra e alla nostra stessa specie. La nostra densità
demografica, il conseguente sovrasfruttamento delle risorse, soprattutto nei paesi più
ricchi come gli Emirati Arabi o gli U.S.A., l’inquinamento con il quale ci stiamo
intossicando e stiamo avvelenando le altre specie, stanno repentinamente portando a una
vera e propria estinzione di massa. In passato ci sono state ben cinque estinzioni di
massa provocate da cause non sempre verificabili a centinaia di milioni di anni di
distanza dall’avvenimento.
L’unica catastrofe di cui si è oramai certi, è stata la conseguenza di un impatto con un
oggetto extraterrestre del diametro di 10 km caduto sul territorio dell’odierno Yucatan,
in Messico, 65 milioni di anni fa, che ha portato alla quinta estinzione di massa. Questo
avvenimento è sicuramente considerato il più importante e significativo per il genere
umano e per tutte le specie mammifere, perché ha portato alla estinzione dei temuti
dinosauri, che avevano imposto la loro supremazia su tutti gli altri generi di animali,
distinguendosi come i più forti e i dominatori assoluti per un lunghissimo tempo, circa
140 milioni di anni, e lasciando campo libero alla speciazione esponenziale della nostra
classe. La nostra scriteriata esistenza sta causando lo stesso effetto di un impatto di
questa portata, abusando della Natura, e sottovalutando l’aspetto terribilmente
distruttrice e omeostatico
7
del Pianeta: esso infatti è in grado di riorganizzarsi in modo
sorprendente, riprendendosi da qualsiasi sollecitazione, chiaramente a rischio delle
specie già esistenti, soprattutto della nostra. La Terra è un pianeta dinamico, in costante
evoluzione, teatro di trasformazioni spesso radicali.
7
Telmo Pievani, Homo Sapiens e altre catastrofi , Meltemi, Roma 2002, p. 345
6
I terremoti, le eruzioni vulcaniche, i geyser e altri fenomeni che appartengono alla
nostra esperienza non sono che manifestazioni superficiali di un'attività complessa e
continua, iniziata più di quattro miliardi di anni fa e mai arrestatasi. Dai primordi della
Terra alla comparsa della vita e dell'ossigeno, dall'esplosione del Cambriano, al dominio
dei dinosauri, dalle grandi estinzioni alle glaciazioni: il nostro pianeta ha visto sulla sua
superficie scontrarsi continenti, erigersi catene di monti, interi oceani scomparire e varie
forme di vita alternarsi per il predominio. In effetti la Terra accoglie Homo Sapiens da
un periodo di tempo che oserei chiamare ridicolo, trascurabile, ma è la culla della vita
da oltre 3 miliardi e mezzo di anni. Ha sperimentato infinite possibilità e un numero
spropositato di organismi, dei quali ben il 99,9 per cento si è ormai estinto
8
, falciato da
qualche sfortunato evento, situazione, condizione.
La storia dei fossili, infatti, ci rivela che non sono solo gli organismi con caratteri
“vincenti”, migliori, scelti da centinaia di milioni di anni dalla selezione naturale ad
avere la meglio sugli altri, ma una infinita serie di caratteristiche, tra le quali spiccano la
flessibilità, il ri-uso di funzioni preesistenti per altri scopi, a fare la differenza,
soprattutto nelle situazioni critiche, di cambiamento veloce, dove la buona sorte può
portare alla vincita della lotteria della Vita oppure a incrementare il numero di coloro i
quali “non ce l’hanno fatta”. Si introduce un concetto nuovo, che contrasta quello
darwiniano di selezione naturale, ovvero quello della "sinistra mietitrice": una
decimazione improvvisa, distruggendo gran parte della fauna del paese, può avviare
l'evoluzione in direzioni del tutto imprevedibili, in modo da far sopravvivere il
minuscolo ratto del Mesozoico e far scomparire tutte le specie di sauri giganteschi e
oramai ben adattati. Secondo McKnee il caso, le coincidenze e il caos sono stati fattori
decisivi quanto la selezione naturale nel determinare l’ascesa della specie Sapiens
9
. Non
esiste nessuna prova e testimonianza che attesti speciali condizioni di nascita della
nostra specie. Siamo stati fortunati, come tutte le specie animali con le quali
conviviamo.
8
Richard Leakey, Roger Lewin, The sixth extinction. Patterns of life and the future of humankind
Doubleday, New York London, Toronto, Sidney, Auckland 1995, trad. it. 1998, La sesta estinzione. La
vita sulla terra e il futuro del genere umano, Bollati Boringhieri, Torino p. 53
9 ibidem p. 373
7
Il nostro pianeta non è certo il più sicuro, esistono terribili minacce che ogni giorno
potrebbero rivelarsi fatali, come una esplosiva attività vulcanica, l’arrivo di un altro
oggetto celeste, che potrebbe scatenare una nuova Apocalisse, contro la quale non
potremmo certo agire, ma noi sicuramente abbiamo un’arma da non sottovalutare,
ovvero le nostre straordinarie capacità cognitive, la possibilità di diffondere una politica
che ci renda consapevoli che sfidare Madre Natura significa costringerla ad aumentare il
rischio di catastrofi naturali, annientandoci. Se l'umanità impara a rispettare una natura
capace anche di vendicarsi, c'è più di una speranza di superare qualsiasi crisi globale e
di "ereditare le stelle".
Giuseppe Brillante, L’uomo di Atlantide, «Newton», N°1- 2005, pp. 42-48
11Douglas Macdougall, A Short History of Planet Earth, anno 1996, John Wiley and Sons, trad. it.
1999, Storia della Terra, Einaudi, Torino, p. 268
12 Abraham Maslow ipotizza una scala di bisogni alla cui base si trovano i bisogni fisologici, seguiti dai
bisogni di sicurezza, di appartenenza e amore, di stima e infine di realizzazione di se stessi. Secondo
Maslow i bisogni più alti nella scala possono essere percepiti solo quando i precedenti sono già stati
appagati. Questa teoria spiega il grado di pulsione esplorativa mostrato da individui appartenenti a classi
sociali medio-alte.
13 Jared Diamond ., Collapse. How societies choose to fail or survive, Allen Lane, Londra, 2005
14 Jared Diamond, The Rise and Fall of the Third Chimpanzee, Radium Random Century Group, New
York, 1991, trad. it 1994, Il terzo scimpanzè, Ascesa e caduta del Primate Homo Sapiens, Bollati
Boringhieri, Torino p.406
15 Givanni Vitolo, Medioevo. I caratteri di un’età di transizione, Sansoni, Firenze 2000, pp., 16-17
16 Telmo Pievani, Homo Sapiens e altre catastrofi , Meltemi, Roma 2002, p. 345
17 Richard Leakey, Roger Lewin, The sixth extinction. Patterns of life and the future of humankind
Doubleday, New York London, Toronto, Sidney, Auckland 1995, trad. it. 1998 La sesta estinzione. La
vita sulla terra e il futuro del genere umano, Bollati Boringhieri, Torino p. 53
18 ibidem p. 373
8
Prima parte
CATASTROFE ANTROPICA
"L'uomo ha perduto la capacità di prevedere e di prevenire. Andrà a finire che distruggerà la
Terra".
Albert Schwitzer
1. Il trionfo e la fragilità della vita
“Treat the earth well. It was not given to you by your parents, it was loaned to you by your
children.”
Kenyan proverb
Come esemplare di Homo Sapiens posso ammettere di non essere sempre orgogliosa di
appartenere a questa specie. L’uomo è paradossalmente un essere buono, geniale e
mostruoso allo stesso tempo, capace di gesti e atteggiamenti più biechi e incivili
possibili, e coraggiosi e degni di ammirazione contemporaneamente, un mammifero che
sfugge alle definizioni assolute, e che non finisce mai di sorprendere se stesso. In età
contemporanea noi esseri umani, specie dei cosiddetti “Paesi sviluppati” siamo sempre
più coinvolti dal loop di impegni, lavoro, famiglia, da non avere il tempo e la possibilità
di “ampliare prospettiva”, prendere più consapevolezza del mondo. Siamo troppo
concentrati su noi stessi per prevedere le conseguenze a lungo termine delle nostre
azioni. La natura ci sembra solo un contesto, un palcoscenico, nel quale rappresentare la
nostra vita, solo nei momenti in cui diviene ostile realizziamo quanto possa essere
pericolosa. Come in passato anche oggi, e in misura ancor più massiccia, stiamo
causando numerosi danni alla natura, in maniera più o meno consapevole. Non ci siamo
limitati a uccidere le altre specie con una predazione eccessiva, ora le distruggiamo con
l’intento di procurarci più spazio.
Il noto scienziato Paul Crutzen, premio Nobel per la Chimica 1995, ha proposto di
definire il periodo geologico che stiamo vivendo a partire dalla seconda metà del
Settecento, quindi dall’avvio della Rivoluzione industriale, Antropocene, a
dimostrazione del ruolo centrale che la specie umana riveste nella straordinaria
modificazione dei sistemi naturali.
9
Viviamo in un pianeta generoso, ma non è senza limiti.
Eravamo solo un miliardo di persone all’inizio del diciannovesimo secolo e, solamente
negli ultimi 30 anni circa, dal 1970 ad ora, la popolazione umana è cresciuta del 65%,
superando oramai i sei miliardi di individui. La nostra permanenza sulla Terra sta
causando danni irreversibili, accelerando, con l’intensità di una forza naturale, il
processo di estinzione generalizzata che minaccia di distruggere la nostra stessa specie.
Nel secolo XX sono nate più persone che nella storia dell’intera umanità. Il grande
demografo Nathan Keyfitz valutò nel 1966 che circa il 4% di tutte le persone mai
vissute prima erano attualmente viventi
19
. A parere di Edward O. Wilson un elemento
positivo della storia moderna, e contemporanea è stato, ed è, ma solamente per alcuni
Paesi, l’emancipazione femminile che ha portato a una scelta importante per il futuro
dell’umanità: una prole meno numerosa. Se la società contadina del passato necessitava
di un maggior numero di figli come supporto per l’economia domestica, ora la
condizione differente della società e della donna ha portato a una maggiore libertà e
consapevolezza. Le donne hanno optato per un minore numero di figli, garantendo loro
la possibilità di godere di vantaggi maggiori, come una migliore istruzione e condizioni
sanitarie meno precarie. Ma questa situazione non è estesa all’intera umanità. Popoli
come l’India e soprattutto la Cina, e in generale i paesi in via di sviluppo, sono
sovraffollati, e la loro spinta verso un maggiore consumo pro capite sarà inarrestabile.
Il destino ambientale del mondo, afferma E.O. Wilson, è nelle loro mani.
20
Secondo il Living Planet Report del WWF, di cui parlerò nel capitolo
successivo, la Terra ha una capacità contenuta di riprodurre le proprie risorse
rinnovabili. Il nostro rifiuto di intraprendere azioni decisive volte a modificare il modo
in cui contribuiamo al cambiamento del clima è un atteggiamento rischioso; vi è un
urgente bisogno di un’etica globale della Terra, un’etica con un obiettivo ben preciso,
quello di migliorare la comprensione di noi stessi e del mondo intorno che la scienza e
la tecnologia possono fornirci, la nostra gestione attenta e responsabile è l’unica
speranza per le altre forme di vita. L’impegno a garantire l’accesso alle risorse di base, a
migliorare la salute, i mezzi di sussistenza per le persone più povere, non può
prescindere dal conservare l’integrità degli ecosistemi naturali.
19
David M. Raup, Extinction: Bad Genes or Bad Luck?, W. W. Norton, New York 1991, trad. it 1994
L’estinzione. Cattivi geni o cattiva sorte? Einaudi, Torino, p. 3.
20
Cfr E. O. Wilson, 2002, trad. it. op. cit. pp. 28-34.
10
Si è appurato, come ben ci illustra Jared Diamond, che le massicce estinzioni in
luoghi recentemente colonizzati, sono state indotte dall’uomo, che al suo arrivo ha fatto
incetta e stragi di animali
21
. La capacità dell’Homo Sapiens di distruggere e infliggere
devastazioni, afferma Richard Leakey, non è una caratteristica dell’uomo moderno, ma
ci contraddistingue da sempre. Se per colonizzazioni più remote è impossibile risalire
con certezza alla responsabilità antropica, per alcune popolazioni che si sono insediate
recentemente non vi sono dubbi in proposito. I maori, infatti, che hanno raggiunto la
Nuova Zelanda circa mille anni fa, esemplificano perfettamente la natura distruttiva
della nostra specie. Dopo solamente qualche secolo dal loro arrivo il 50% delle specie
delle isole è scomparso, compresi gli uccelli. L’emblema di queste specie estinte
rimangono i moa, creature simili a giganteschi struzzi. L’uomo selvaggio e buono
rousseauiano, in armonia con la natura, tanto caro alla letteratura e ideologia
ottocentesca, in realtà non è mai esistito
22
.
Attualmente gli ecosistemi stanno soffrendo, spinti, in molti casi, al limite della
tolleranza, il clima globale sta cambiando, stiamo abusando della biosfera con una
eccessiva richiesta di cibo, materiali, acqua. Questo atteggiamento insensato
compromette la possibilità di sradicare la povertà e costringe l’umanità alla minaccia del
cambiamento climatico globale.
L’uomo è senza dubbio il nemico numero uno della biodiversità. Un nemico che
non è possibile eliminare. La conservazione richiede una profonda comprensione dei
complessi legami che intercorrono tra l’ambiente e le popolazioni umane, ma non è una
impresa semplice, infatti molto spesso i cosiddetti hotspot complicano il lavoro dei
conservazionisti, siti particolarmente ricchi di biodiversità ma anche di povertà: dove
sarebbe bene aver maggior cura e attenzione nell’uso del territorio, infatti, le persone
fanno fatica a sfamarsi, e difficilmente antepongono ai propri interessi quelli di un
uccello raro o di un pesce in via di estinzione.
23
La protezione della diversità sta diventando, secondo la rivista scientifica
“Darwin”, non solo una questione di etica ed estetica, ma chiama sempre più in causa
parole tradizionalmente usate per discipline economiche, come “merci” oppure
21
Jared Diamond, Guns, Germs, and Steel. The fates of Human Societies, W.W. Norton & Company,
New York, London 1997, trad. it. 1998, Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi
tredicimila anni, Einaudi Tascabili, Torino.
22
Cfr R. Leakey, R. Lewin, 1995, trad. it. op. cit., pp. 202 - 216.
23
Sara Capogrossi Bolognesi, Scongiurare la sesta estinzione, www.enel.it.
11
“consumatori”. La conservazione della biodiversità ha anche costi ingenti, e
ingiustamente questi costi sono supportati dalle popolazioni locali, in cambio di benefici
di cui gode l’intera umanità. I governi e gli organismi internazionali devono destinare
più fondi a coloro che si adoperano a non sfruttare luoghi e impoverire territori per
scopi personali e immediati. Come puntualizza Henry Nicholls, giornalista del
“Darwin”, il Kenya vanta una rete di parchi nazionali e riserve tra le più spettacolari del
mondo, estese su circa 60.000 chilometri quadrati. Ma destinare alla popolazione
un’area così vasta ha numerosi inconvenienti per gli autoctoni: infatti si è calcolato che
se queste terre fossero sfruttate renderebbero ai locali ben 270 milioni di dollari
all’anno. Nello stesso modo si è stimato che due parchi nazionali del Madagascar hanno
ridotto il reddito annuo dei villaggi locali di circa il 10%. Dobbiamo ammettere che i
locali, in cambio, beneficiano degli introiti del settore turistico, ma i guadagni reali, per
loro, sono veramente marginali, e non sempre controbilanciano i costi. Le comunità
nazionali e quella globale, secondo Andrew Balmford, biologo conservazionista
dell’Università di Cambridge, nel Regno Unito, hanno molto da guadagnare nella
conservazione della biodiversità dei tropici, ma se vogliono realizzare questo guadagno
devono pagare. I fondi destinati alla conservazione dai paesi industrializzati sono circa
un terzo di quanti occorrerebbero per proteggere con efficacia il 15% degli habitat
terrestri del pianeta. Il “Darwin” afferma che negli ultimi anni molti enti di
finanziamento hanno iniziato ad adottare una strategia indiretta, investendo in progetti
che incoraggiano le popolazioni ad adottare pratiche alternative compatibili con la
conservazione anziché nella conservazione stessa. Un esempio in merito è il
finanziamento di progetti di ecoturismo incentrati sulle comunità. Queste iniziative
mirano a far giungere i benefici del turismo agli abitanti del posto, incoraggiando così a
preservare la biodiversità di cui dispongono. Sono molti gli studiosi che diffidano di
questa strategia, innanzitutto Johan du Toit, del Mammals Research Institute
all’Università di Pretoria, in Sudafrica, che ci allerta di come i cosiddetti pensieri
romantici sul “buon selvaggio” siano lontani dal reale. La rivista scientifica Darwin
porta come esempio le comunità peruviane dell’Infierno Community Ecotourism, dove
solamente una piccolissima minoranza si è arricchita, e l’introito medio annuo dovuto al
turismo era solo di 735 dollari, contro i 2000 dollari derivanti da altre attività, deleterie
e in conflitto con la conservazione, da cui comunque la maggioranza della comunità ha
12
continuato a dipendere. Un esempio di come spesso gli interessi tra locali e
conservazionisti può sfociare in conflitto si può evincere dalle isole Galapagos, dove i
pescatori autoctoni sono da tempo in contrasto con gli obiettivi conservazionisti. La
situazione è divenuta tragica il 10 settembre di quest’anno, con il sollevamento
dall’incarico del direttore del Parco Nazionale delle Galapagos, e la sua sostituzione con
un individuo considerato dai rangers del luogo “troppo sensibile alle ragioni dei
pescatori”. Per placare gli scontri si è reso necessario l’intervento della marina militare.
Il problema di fondo risultano essere le restrizioni di pesca a cui sono esposti i pescatori
delle isole. A Santa Isabela è fissato un tetto limite di 50 tonnellate che non è sufficiente
al sostentamento della popolazione, cresciuta a dismisura. Ad ogni stagione di pesca le
tensioni si riaccendono e infiammano gli animi
24
.
Un’altra soluzione, ci informa il “Darwin”, con cui non sono tutti d’accordo
proprio per l’impegno finanziario continuo, è il pagamento diretto delle popolazioni
locali, ossia pagare le popolazioni locali affinché non distruggano l’ambiente in cui
vivono. Per quanto possa essere una pratica discutibile e opinabile in alcuni casi ha
avuto successo. Infatti Steve Trott, coordinatore per il Local Ocean Trust,
organizzazione conservazionista che opera nel parco naturale di Watamu e Malindi, in
Kenya, annuncia che il progetto di protezione e studio delle tartarughe, che prevedeva il
pagamento di 3 dollari per ogni tartaruga rilasciata, ha dato, metaforicamente parlando,
rigogliosi frutti: mentre nel 2000 le tartarughe rilasciate erano solo 50, nel 2003 le
tartarughe liberate sono state 500. Ma in altre zone dell’Africa, dove non ci sono
contributi in denaro per il loro rilascio, la loro strage continua. Il primo luogo dove è
stata applicata questa politica sono state le foreste del Costa Rica, con il Programa de
Pago de Servicios Ambientales, nell’anno 1996, dove i singoli proprietari, o le loro
associazioni sono pagati in cambio di “servizi ambientali”. Nel 2001 oltre 2.800 km
quadrati sono protetti grazie al pagamento di quattro mila dollari annui a chilometro
quadrato, ed ora sono in via di definizione contratti per altri 8.000 km quadrati. La
maggior parte del denaro utilizzato proviene da una tassa sulla benzina imposta ai
cittadini costaricani. Questa realtà spaventa molti esponenti della biologia della
conservazione, che devono oramai arrendersi all’evidenza, ossia il fatto che anche la
24
Henry Nicholls, La contesa delle Galapagos, «Darwin», anno 1- N° 4, pp. 68-69.
13
biodiversità è una merce che si può comprare, vendere: è divenuta anch’essa un
business
25
.
Il celebre Richard Leakey identifica tre criteri principali con i quali valutare la
biodiversità. Anch’egli, consapevole del ruolo dell’economia nella società, assume
proprio questo criterio come primario, ossia i benefici tangibili, come farmaci, cibo,
materie prime, che possiamo ricavare dall’ambiente. Il secondo beneficio, meno
tangibile, ma assolutamente fondamentale, è il mantenimento dell’ambiente fisico,
determinante per la sopravvivenza di tutte le specie. Il terzo è il piacere estetico, il
benessere che noi esseri umani traiamo dal godere della biodiversità che ci circonda
26
.
La biologia della conservazione è una “disciplina di crisi” nata per contrastare la
“sesta estinzione di massa” della storia terrestre. Gli anni Ottanta sono quelli in cui
viene formalizzata grazie a studiosi di grosso calibro, quali Michael Soule’, Bruce
Wilcox, Reed Noss, David Ehrenfeld, Edward O.Wilson, Paul Ehrlich e tanti altri. La
Society for Conservation Biology viene fondata nel 1985 e la sua rivista “Conservation
Biology” viene pubblicata dal maggio del 1987.
27
Sappiamo che più della metà delle specie degli organismi conosciuti sono
concentrate nelle foreste pluviali tropicali, esemplificando possiamo dire che il grande
entomologo e padre della sociobiologia e biofilia E. O. Wilson a un incontro scientifico
sulla biodiversità, tenuto a Washington nel 1987, dichiarò di aver trovato, arrampicate
sulle fronde di un maestoso albero in Perù, nella Amazzonia superiore, tante specie di
formiche (esattamente 43) quante se ne possono trovare in tutte le Isole Britanniche.
28
Ebbene proprio in questi luoghi è in atto un vero mattatoio di estinzione. In questi
biomi, infatti, le attività umane determinano un tasso di estinzione stimato dello 0,4-
1,2% annuo (20-30.000 specie/anno)
29
. I finanziamenti e le altre risorse destinati alla
protezione della biodiversità sono insufficienti a contrastare questo fenomeno, quindi, è
indispensabile predisporre delle strategie per ottimizzare le ricerche e gli interventi. A
questo scopo è particolarmente importante la strategia delle “hotspots”, menzionata in
precedenza, che consiste nell’individuazione e nella protezione di zone di particolare
25
Henry Nicholls, Il costo dimenticato della biodiversità, «Darwin», anno 1- N° 4, pp. 62-68
26
Cfr R. Leakey, R. Lewin, 1995, trad. it. op. cit. p. 151.
27
Gianfranco Bologna,Verso la Sustainability Science, XVI congresso nazionale 2-4 ottobre 2003, Abano
Terme, www.wwf.it
28
Cfr R. Leakey, R. Lewin, 1995, trad. it. op. cit. p. 125.
29
Living Planet Report 2004 del WWF.
14
interesse ecologico, luoghi a maggior rischio di estinzione. Questo nome venne dato dal
grande Norman Myers, vincitore nel 2001 del Premio “Blue Planet”, ecologista inglese
tra i massimi esperti mondiali di biodiversità.
30
Esistono anche i cosiddetti “coldspots”
ossia luoghi non particolarmente ricchi di diversità di specie, ma caratterizzati dalla
presenza di specie particolarmente importanti che offrono “servizi” essenziali
all’umanità.
31
Come afferma il paleontologo e biologo evolutivo Niles Eldredge :
Coloro che prendono decisioni in relazione alla conservazione della biodiversità
devono, nell’elaborare strategie utili, considerare tutti i livelli di diversità spaziale e
specialmente le diversità alpha e beta
32
.
Egli spiega le diversità menzionate in questi termini
La diversità alpha è quella riscontrabile nell’ambito di una particolare area o
ecosistema e viene solitamente espressa con il numero delle specie presenti
nell’ecosistema stesso. Come si vede, essa equivale alla misurazione della ricchezza
di specie di un’area. Potremmo, per esempio, essere interessati a monitorare la
biodiversità nell’ambiente acquatico nella parte verso il mare aperto di una barriera
corallina lungo la costa dell’isola Mauritius nell’oceano Indiano. La diversità alpha è
data dal numero di specie che si rinvengono nell’area che si sottopone al
monitoraggio […] Se ampliamo la nostra indagine in una sezione trasversale che si
estenda tra la barriera e la costa, comprenderemo nuovi ecosistemi, prima non
esaminati […] Questi diversi ecosistemi ospiteranno specie e comunità differenti.
Potremo confrontare l’entità dei cambiamenti delle specie mentre ci spostiamo
progressivamente lungo la sessione trasversale, passando da un ecosistema ad un
altro: questo tipo di confronto della cosiddetta “diversità tra le aree”, è indicato come
diversità beta.
33
Infine esiste la diversità gamma, la quale abbraccia comunità distribuite su territori più
ampi, e che quindi può includere zone con habitat simili, anche se molto distanti tra
loro, è quindi per molti aspetti una versione allargata di alpha
34
.La misurazione del
grado di biodiversità complessiva è generalmente calcolato considerando la ricchezza di
specie che la caratterizza, ma questo dato può risultare fuorviante, perché sottovaluta la
possibile variazione nei tipi di specie presenti, ossia la loro diversificazione tassonomica
30
Sito del wwf, http://www.wwf.it/news/562003_7716.asp.
31
Paul Ehrlich, Global change and its influence on biodiversity, 9-02-2003 http://www.wwf.it/ambiente/
dossier/Ehrlich_lecture.pdf.
32
Niles Eldredge, Life on Earth: An Encyclopedia of biodiversity, ecology, and evolution , ABC CLIO
Inc., Santa Barbara 2002, trad. it. 2004, La vita sulla Terra. Un’enciclopedia della biodiversità,
dell’ecologia e dell’evoluzione Codice, Torino p. 35.
33
idem p. 33.
34
Cfr R. Leakey, R. Lewin, 1995, trad. it. op. cit. p. 121.
15
e filogenetica. La ricchezza di specie, utilizzata generalmente come parametro
fondamentale, deve essere necessariamente associata a variabili come:
• il numero di soggetti che costituiscono la popolazione
• il numero di popolazioni presenti
• l’insieme delle correlazioni filogenetiche delle specie
La diversità filogenetica rappresenta un parametro importante per valutare la
biodiversità di determinate aree. Esistono infatti luoghi a bassa ricchezza di specie, ma
che risultano essere fondamentali, in quanto patria di forme primitive di alcuni gruppi di
specie. Le specie endemiche, ossia proprie di quei luoghi, sono considerate una
variabile fondamentale di valutazione della biodiversità. Un esempio può essere offerto
dal Madagascar le cui specie, sebbene con un basso parametro di ricchezza, esse
possiedono un valore immenso, dato dalla loro storia evolutiva. L’analisi di queste
particolari specie può aiutarci a comprendere le condizioni che hanno favorito l’alta
percentuale di speciazione
35
.
Un altro concetto di rilievo per la valutazione della biodiversità è costituito
dallo studio delle specie “critiche”. Le specie “critiche” sono identificate in base al loro
enorme impatto sui processi di comunità e/o sull’ecologia delle popolazioni umane,
generalmente hanno un ruolo chiave all'interno dell'ecosistema essendo poste al vertice
delle catene alimentari. A livello operativo, una specie critica si identifica in due modi:
1) quando al suo riguardo è documentato almeno uno dei seguenti effetti: “keystone”,
(sono quelle specie che esercitano una sorta di "influenza controllatrice"
sull’organizzazione degli ecosistemi, sia che esse siano dominanti dal punto di vista
numerico o meno. Se, per un certo motivo, una specie chiave viene a mancare, in genere
predatori, la struttura della comunità cambia drasticamente, e quindi anche le funzioni
ecosistemiche, questo concetto è stato introdotto per primo da Robert T. Paine, zoologo,
nel 1969
36
) “umbrella” (specie cioè la cui conservazione ha benefici sull’intero habitat:
salvando questi animali si salvano moltissime altre specie che vivono nello stesso
habitat), ad esempio il Panda
37
, “flagship” (specie ammiraglie: alcune specie,
soprattutto a causa della loro valenza estetica, folkloristica o simbolica, sono ben note al
pubblico o possono diventarlo facilmente, dette anche "charismatic species". Grazie a
35
Cfr N. Eldredge, 2002, trad. it. op. cit. pp. 26-31.
36
Sito Università di Washington (USA) http://www.washington.edu/research/pathbreakers/1969g.html
37
idem :http://carbon.cfr.washington.edu/esc110/2003Spring/projects/011/conservation.html.
16
tale "carisma" esse possono far nascere interesse nel pubblico verso i problemi della
salvaguardia di certi gruppi animali o di determinati ambienti naturali ed essere usate
come simbolo di progetti di conservazione di certi ambienti); specie “indicatori”
(perché sono degli indicatori biologici e cioè la loro presenza indica che l'ambiente è in
buone condizioni) un esempio ne è il pinguino Magellanic del sud Atlantico.
38
2) quando è di rilevante e documentata importanza economica. Programmi di
conservazione effettivamente mirati alla protezione di molte specie di questa particolare
categoria sono attualmente operativi. E’ tuttavia necessario che tali programmi siano
potenziati ed estesi a tutte le specie critiche.
La combinazione tra questi programmi specificamente mirati e la strategia delle
hotspots permette di ottimizzare in modo effettivo le iniziative di protezione della
biodiversità. Purtroppo, come puntualizza Niles Eldredge le aree protette non
rappresentano tutti gli habitat, di cui molti risultano perduti a causa degli usi agricoli o
urbani. Negli Stati Uniti, prosegue il grande paleontologo, solo il 6% del territorio è
protetto, e si tratta solitamente di luoghi con suoli poco produttivi oppure ad elevate
altitudini. Questa scelta infelice riguarda numerose parti del mondo, dove gli ecosistemi
più adatti ad essere coltivati, come foreste secche tropicali, savane, praterie, risultano
essere scarsamente presenti nell’elenco delle zone protette
39
. E’ triste dover ammettere
ripetutamente quanto sia difficile trasmettere l’importanza di alcuni valori che non
hanno un riscontro economico immediato, quali appunto la biodiversità, argomento sul
quale a volte diviene complicato applicare una seria politica di salvaguardia
dell’ambiente. Molto spesso l’arricchimento viene meschinamente anteposto a qualsiasi
altro valore.
Nelle mie numerose visite a Bombay, in India, venivo spesso affascinata,
insieme alle mie colleghe, dall’offerta di scialli meravigliosamente morbidi e caldi, per
cui esigevano prezzi incredibilmente esosi. Sottolineavano che queste pashmine
straordinariamente leggere, di nome shahtoosh avevano la peculiarità di passare
attraverso un anello, come usavano poi dimostrare davanti a noi, e avevano una
morbidezza e sensualità veramente invidiabile.
38
ibidem : http://www.washington.edu/burkemuseum/endurance/press05.html.
39
Cfr N. Eldredge, 2002, trad. it. op. cit., p. 309-310.