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Gli occhiali venduti in Cina si vendono a 3,5 euro e la qualità della
manifattura cinese si avvicina sempre di più a quella italiana; questo
scenario potrebbe senza dubbio allarmare i produttori italiani o
comunque dei paesi industrializzati ma distogliendo l’attenzione dal
solo segmento manifatturiero si può comprendere che la “lotta” si
gioca tutta sui 63 euro dati dal design, dal servizio, dalla garanzia, dal
significato associato a quella marca, con quei colori e quella forma.
Il produttore manifatturiero quindi non deve solo fornire un prodotto
qualitativamente valido, dalle ottime qualità intrinseche, esso deve
essere in grado di coinvolgere il consumatore con dei significati unici e
quindi deve puntare ad innovare il design dell’oggetto magari sapendo
impegnare nuovi materiali o creando prototipi inconsueti ed innovativi,
piccole serie di natura transitoria che riescano ad attirare l’attenzione
dell’acquirente.
Per fare questo il produttore odierno, dovendo difendersi da una
miriade di concorrenti incrementati anche della globalizzazione, deve
in primis aver accesso ai canali di comunicazione con cui, non più i
clienti, ma le persone, si parlano tra loro. Bisogna insomma conoscere
la domanda, capire e interpretare i bisogni ancora inespressi e per
questo è necessario essere flessibili e veloci in ogni parte del ciclo
produttivo.
E’ proprio sulla spiegazione di questo discorso e soprattutto sulla
maniera in cui l’azienda italiana potrà riuscire ad appropriarsi di quei
“63 euro” che si snoda questa tesi.
Si è voluto pensare a nuovi stimoli, in partenza lontani da un mero
discorso sulla produttività, che potesse rappresentare la chiave di volta
di uno sviluppo innovativo e sostenibile della tipica impresa media
piccola italiana, come risposta alle sfide lanciate dalla globalizzazione.
Si è pensato all’arte e alla cultura come serbatoi di innovazioni e di
idee nuove che proprio per la loro tradizionale lontananza con il mondo
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produttivo e con le logiche di mercato potessero rappresentare un
surplus, una direzione vincente, per le nostre imprese.
Opportunità e minacce della globalizzazione
Fino a poco tempo fa la singola impresa radicata sul territorio, in una
situazione come quello italiano di vicinanza con il cliente, faceva bene
il suo lavoro: sapeva fornire un prodotto dalle buone qualità funzionali,
in genere manifatturiero, vicino ideologicamente all’idea tradizionale,
anche se forse un po’ banale, che il consumatore si aspettava.
Se poi si osserva una data singola impresa nella sua contiguità fisica e
ideologica con alte medio- piccole imprese dello stesso luogo, si può
pensare che davvero questo modello, il distretto, possa rappresentare
un modello vincente di sviluppo: rivolgendosi ad un cospicuo bacino di
clienti legati a quel dato luogo e creando una rete di sostegno tra le
aziende stesse, si può immaginare la difesa di un certo vantaggio
competitivo sostenibile.
Fino ad ora il modello distrettuale ha costituito una chiave di sviluppo
vincente, oggi però la globalizzazione cambia tutto, specialmente per i
distretti che sono stati fino ad ora reti locali di divisione del lavoro.
Oggi si riscontra che questo meccanismo ha grandi possibilità ma
anche grandi limiti: funziona, infatti, solo dove le innovazioni e gli
investimenti che servono per portare avanti la crescita, sono alla
portata della singola persona o della singola (piccola) impresa.
Tutto quello che richiede grandi concentrazioni di mezzi e di
competenze, e investimenti a lungo termine non è compatibile con la
logica del distretto che si costruisce del basso, passo per passo e
senza alcun disegno complessivo che lo guidi.
Adesso la maggior parte dei circuiti cognitivi ha natura globale: è
impensabile pensare che una nuova scoperta, una strategia vincente,
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un prodotto veramente utile possa rimanere per parecchio tempo
fermo nel luogo stesso in cui è venuto in essere.
Ci sono sempre meno barriere (politiche, linguistiche, doganali) e ciò
porta qualsiasi prodotto, o qualsiasi idea, di qualsiasi nazione ad
essere potenzialmente capace di propagare i modelli e gli stili di vita
che trasmette in tutto il mondo sviluppato: la circolazione
internazionale della scienza, la riduzione delle barriere commerciali, e
lo sviluppo globale della ICT ha reso inevitabile questo processo.
E’ cosi naturale avere dei dubbi sull’effettiva capacità dei sistemi locali
di far fronte all’ampliamento dei circuiti cognitivi e commerciali e con
questi, l’aumento esponenziale del numero di competitors, e delle
proposte produttive alternative.
Pare strano pensare che questi sistemi territoriali riescano ad avere il
proprio spazio su questo ipertesto globale rimanendo uguali a loro
stessi: sistemi chiusi di divisione del lavoro, gelosi delle proprie
specificità, incapaci di scambiare con gli altri sistemi emergenti idee,
valori, conoscenze e capacità produttive.
Il distretto, ci si rende conto, che non è più il solo protagonista dell’era
post- fordista, esso deve competere con gli altri principali protagonisti:
il mercato globale soprattutto, che consente la divisione del lavoro tra
aree a diversa dotazione di fattori (basti pensare che poter comprare
la tecnologia americana, il lavoro cinese e il capitale dove costa meno
può essere un rilevante fattore competitivo in quanto permette un
rilevante taglio dei costi, salvaguardando per quanto possibile la
qualità di un certo prodotto).
Ma anche le grandi multinazionali, sapendosi organizzare in out-
sourcing, possono risultare un rilevante avversario dei sistemi
distrettuali: esse, infatti, sono capaci di mettere insieme i vantaggi del
mercato globale con quelli della concentrazione delle finanze e del
potere di comando.
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La risposta dei sistemi locali
In questo scenario il distretto deve lottare contro i grandi numeri
raggiungibili nell’economia globale da questi competitors che grazie
allo sviluppo in ICT riescono ad organizzarsi ottimamente e ad offrire
prodotti sempre più accettati in tutto il mondo sempre più
globalizzato; il distretto deve far valere le sue “ buone idee” in questa
ormai illimitata “arena competitiva”.
Con una moderna espressione possiamo quindi parlare di Glocal,
geniale sintesi terminologica, per rilevare la necessità di una
convergenza di due elementi finora contrapposti, in un’ottica di
ottimizzazione delle scelte economiche e anche di benessere sociale.
Oggi locale e globale sono due termini che si fondono e confondono:
non si possono capire alcune questione locali se non pensando in modo
globale, così come non è pensabile che problematiche globali non
riguardino il locale il locale si è allargato e il micromondo non può più
considerarsi isolato dagli altri micromondi e dal macromondo.
I processi socioeconomici e politici degli ultimi decenni hanno messo in
crisi tutte le appartenenze collettive che hanno caratterizzato il secolo
scorso e ci hanno lasciato come sola identità collettiva quella di radice
territoriale. Il globale sarà bello e progressivo, ma il territorio è la base
di quella quotidianità su cui si costruisce l’identità.
Le reti di interrelazione planetaria saranno certamente sempre più
attrattive nel futuro, ma il bisogno di radicamento sul territorio non
sembra destinato a declinare rapidamente. Giocano, in questa
direzione, due fattori fondamentali, il primo riguardante la difesa
dell’identità collettiva ed il secondo relativo al modo in cui i singoli
vivono la modernità e il suo dinamismo (sempre più spesso con
angoscia e senso di alienazione).
Rullani detta due prospettive di rinnovamento dei sistemi locali in
questo scenario:
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- trasformare le sue reti locali in reti trans locali (cioè in circuiti di
fornitura e di commercializzazione che tocchino i più disparati luoghi);
- saper utilizzare, in tutti i segmenti della catena del valore, i vantaggi
e i servizi del mercato globale e delle imprese multinazionali,
stabilendo con loro non una guerra ideologica ma uno scambio che
porti a dividersi il lavoro in base alle rispettive capacità e competenze.
Delocalizzazione: vantaggi
Gli ultimi anni hanno visto aumentare i processi di delocalizzazione
produttiva e a dimostrazione di questo, si sottolinea il fatto che le
piccole-medie imprese hanno saputo confrontarsi con lo scenario
internazionale non solo sotto l’aspetto commerciale ( esportazioni-
importazioni) ma anche e soprattutto sotto l’aspetto prettamente
produttivo.
Con la caduta del muro di Berlino e con l’inizio di un nuovo processo di
integrazione europea, la piccola e media impresa ha aperto un nuovo
capitolo sull’ internazionalizzazione con forti implicazioni sulle reti di
fornitura e sulla riorganizzazione dei processi produttivi. Oltre che dal
punto di vista distributivo e commerciale, la piccola e media impresa
ha cominciato ad internazionalizzare la sua dimensione produttiva,
portando attività ad altra intensità di lavoro in paesi contraddistinti da
manodopera e costi limitati. Dalla fine degli anni ottanta i sistemi locali
hanno visto soprattutto l’iniziativa di alcune imprese leader, di
allargamento al di fuori del contesto locale e di focalizzazione su
alcune attività specifiche (design, comunicazione, innovazione) per ri-
configurare il proprio modello d’impresa restando tuttavia ancorate al
proprio territorio.
Citiamo a titolo d’esempio le note imprese Luxottica e Diesel, che
hanno saputo dimostrare in che modo aziende inserite in ambiti
territoriali particolarmente stimolanti potessero ripensare in maniera
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nuova il rapporto con il proprio territorio scoprendo, attraverso il
rapporto con l’esterno, nuove fonti di competitività.
Così nel corso degli anni la crescente proiezione internazionale delle
fasi a monte della produzione ha dimostrato la dinamicità strategica
reale di alcune principali imprese distrettuali ed una concreta
possibilità di apertura del sistema stesso.
Delocalizzazione: svantaggi
Ma il “ rovescio della medaglia” di questa necessità di apertura al
mondo globale (con i conseguenti vantaggi che ha portato) è stata la
rischiosità stessa di questo processo: il trasferimento di risorse, ma
soprattutto di competenze, tradizionalmente riconosciute come
peculiarità e fonti di capacità innovativa di un dato sistema locale
all’esterno del sistema stesso, potrebbe rappresentare la fine del
vantaggio competitivo delle imprese di un dato luogo. Una prospettiva
del genere appare senza dubbio allarmante ma è inevitabile se si
trasferiscono all’estero, in un contesto ricettivo e in via di sviluppo,
parti della creazione del valore.
Nel modello anglosassone la rilocalizzazione del lavoro a scala
transazionale è sempre stato un evento “naturale”; la corporation ha
sempre saputo separare le funzioni di progettazione con quelle di
produzione e così è stata in grado di ottenere buoni risultati sfruttando
ampie economie di scala e soprattutto di replicazione della
conoscenza.
Ecco così che le attività operative ed esecutive sono dinamicamente
delocalizzate e saldamente controllate a partire da un sistema
organizzativo e di supervisione gerarchica appositamente predisposto
(Dunning, 1981; Rullani, 1996, Zanfei 2000).
Questo processo risulta molto più problematico nella tradizione
industriale italiana dove il sapere pratico della creazione di un
particolare prodotto è parte integrante del valore aggiunto dello
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stesso. Il Made in Italy in se, si è costituito su queste basi (attenzione
e focalizzazione sul prodotto, percorsi innovativi a carattere
incrementale) e il vantaggio competitivo dei distretti industriali italiani
nasce da competenze manifatturiere piuttosto che commerciali o
strategiche.
Si capisce quindi che per un’impresa di questo tipo è molto più
complesso operare una divisione tra la propria parte organizzativa e la
propria parte produttiva, nel momento in cui la creazione del valore è
intrinseca in entrambe le fasi.
La fabbrica non è più, in questo modo, un semplice luogo di
produzione, ma diventa un laboratorio permanente di sperimentazione
e di apprendimento e in quest’ottica la delocalizzazione potrebbe
indebolire le imprese locali, nella misura in cui parte della creazione
del valore aggiunto viene trasferito all’estero, e potrebbe
avvantaggiare gli imprenditori esteri nella misura in cui li fornisce di
nuove conoscenze e saperi.
I produttori locali a seguito di una ferrea e mal pensata scelta
delocalizzativa verrebbero a trovarsi in concorrenza con i produttori
esteri dove il lavoro costa molto meno e dove stanno rapidamente
imparando quello che i “nostri” produttori locali hanno imparato molto
tempo prima. La delocalizzazione, in negativo, diventa quindi un
processo di trasferimento di modelli e di pratiche produttive che
rappresentano in realtà trasferimenti di conoscenze e saperi fondativi
dei propri vantaggi competitivi innescando un possibile inasprimento
della competizione (Micelli, Chiarvesio, Di Maria 2003).
Dati concreti
L’ Osservatorio TeDIS “Reti e nuove tecnologie per la piccola e media
impresa” ha condotto una ricerca promossa dal Formez, studiando la
diffusione delle tecnologie di rete sulle imprese di maggiori dimensioni