4
Il sociologo catalano ritiene che “i movimenti sociali vadano compresi nei termini da essi proposti;
vale a dire che sono ciò che dicono di essere”
3
. Per questo ho dato un così ampio spazio alla
autorappresentazione (avvalorata con interviste e documenti raccolti sul campo) del movimento
sociale: per cercare di far raccontare ai bananeros e alle loro mobilit-azioni la loro storia, e quindi la
loro essenza, accantonando, per quanto possibile, il punto di vista del ricercatore, inevitabilmente
etnocentrico e parziale.
La seconda parte dello studio è composta invece di tre lavori originali, organizzati durante il mio
viaggio in Nicaragua, tra il settembre e l’agosto del 2004: un reportage giornalistico (capitolo III),
un reportage fotografico (capitolo IV) e una ricerca di sociologia visuale (capitolo V). Questo
approccio interdisciplinare favorisce a mio parere la comprensione della vita e della lotta quotidiana
dei bananeros, all’interno della quale mi sono calato per comprendere alla radice le loro
rivendicazioni. Ho cercato quindi di mettere in pratica quello che Alain Touraine definisce essere
l’intervento sociologico, secondo il quale “i sociologi devono entrare in contatto diretto con il
movimento sociale, interagire con i suoi membri. Devono indurre il gruppo mobilitato a esplicitare
il senso della propria azione tramite un doppio processo di confronto intellettuale fra gruppo
mobilitato e i suoi avversari, fra il gruppo e l’analisi dei sociologi sulla sua azione. Questo processo
stimola l’auto-analisi nel gruppo mobilitato, provoca una maieutica che consente agli attori di
spiegare il senso della loro lotta, e nello stesso tempo ai sociologi di costruire la loro analisi”
4
.
3
Castells, 1997, p. 77
4
Neveu, 2001, p. 92
5
CAPITOLO I
INTRODUZIONE TEORICA
La teoria sociale è uno strumento per la
comprensione del mondo, non un mezzo
di auto-gratificazione intellettuale.
Manuel Castells
5
5
Castells, 1997, p. 3
6
SVILUPPO E SOSTENIBILITA’
Nicaragua in cifre
Informazioni Generali sul Nicaragua:
- Superficie: 121.428 Km2
- Capitale: Managua (933.600 abitanti)
- Popolazione: 5,07 milioni di abitanti (2000)
- Lingua: Spagnolo
- Moneta: Cordoba
- Tasso di cambio (al 30 marzo 2004): 15,63 cordobas per un dollaro Usa
Principali indicatori economici
Indicatore 2000 2001 2002 2003
PIL a prezzi correnti (miliardi di C) 30,9 34,2 35,9 38,7
PIL a prezzi costanti (miliardi di US$) 2,4 2,6 2,5 2,6
Var. % 5,9 3,2 1 2,3
Reddito pro-capite (in US$) 780 775 758
Inflazione (%) 11,5 7,3 3,7 5,3
Bilancia Commerciale (milioni di US$)
Importazioni (in milioni di US$) 1.653 1.620 1.636 1.658
Esportazioni (in milioni di US$) 650 615 605 632
Saldo -1.003 -1.005 -1.031 -1.026
Tasso di disoccupazione 21,9 22,9 24 22
Tasso di cambio C/US$ (media annuale) 12,68 13,37 14,25 15,14
Debito estero (miliardi di US$) 6,9 6,4 6,1 5,8
Riserve Internazionali (milioni di US$) 488,5 379,9 448,1 503
(Fonte: EIU, Economist Intelligence Unit: Country Report gennaio 2004)
7
Prospettive future del paese
2004 2005
PIL (variazione %) 3,5 3,3
Inflazione (%) 5,3 4,5
Bilancia commerciale (miliardi di US$)
Esportazioni 0,7 0,7
Importazioni 1,7 1,8
Saldo -1 -1,1
(Fonte: EIU, Economist Intelligence Unit: Country Report gennaio 2004)
Settori produttivi
Il Nicaragua è un Paese essenzialmente agricolo, ed il 40% della popolazione vive nelle aree di
campagna, anche se la massiccia migrazione di popolazione rurale verso la capitale Managua ha
provocato una notevole diminuzione degli attivi nell’agricoltura. Comunque questo settore conta
per il 30% nella formazione del PIL, seguito dal settore manifatturiero che arriva oltre il 22%.
Il settore industriale, invece, è il primo settore che contribuisce alla formazione del PIL, ha
conosciuto un grande sviluppo, ma molte delle risorse minerarie nicaraguensi non sono sfruttate in
maniera adeguata.
Contributo dei diversi settori alla formazione del PIL (composizione %)
Settore 2002
Agricoltura, Allevamento e Pesca 30,5
Industria 22,6
Servizi 47
(Fonte: EIU, Economist Intelligence Unit: Country Report gennaio 2004)
Per quanto riguarda il rischio di investimento in Nicaragua, la SACE colloca il Nicaragua nella 7a
categoria su 7 (1 minor rischio; 7 maggior rischio). Il dato è aggiornato al 30 marzo 2004.
(Fonte, www.mondimpresa.org)
8
Un paese del Terzo Mondo “in via di sviluppo”
Il Nicaragua è uno dei 135 paesi definiti “in via di sviluppo” dalle Nazioni Unite
6
. Spesso e
volentieri inoltre questo Stato viene etichettato da giornalisti, geografi, politici (ognuno seguendo
percorsi semantici del tutto autonomi), come appartenente all’evanescente contesto del “Terzo
Mondo”
7
. Pur essendo un tema molto dibattuto, ed ancora via di definizione, ho intenzione di
partire da queste due definizioni per introdurre il mio studio sui bananeros del Nicaragua.
Il termine Terzo Mondo venne coniato dal geografo francese Alfred Sauvy, che lo utilizzò
per la prima volta nel suo saggio “Tre mondi, un pianeta” del 1952. La definizione tuttavia
cominciò ad avere successo solo a partire dalla conferenza di Bandung del 1955, indicando
originariamente quei 29 paesi asiatici ed africani che rivendicarono il diritto ad una propria identità
che andasse oltre il bipolarismo della Guerra Fredda tra Usa e Urss. Questo precedente storico pone
in evidenza come la definizione di Terzo Mondo, coniata da uno studioso occidentale, si collochi
all’interno di una visione etnocentrica entro cui l’occidente viene implicitamente etichettato come
Primo Mondo
8
. Il termine inoltre ha dei problemi di ambiguità e di attribuzione, come sottolinea
Scidà
9
: “i sociologi la usavano (questa definizione, N.d.A.) per indicare le società nelle quali
permanevano modelli di vita tradizionali (…); per gli economisti indicava tutti i paesi non
industrializzati, e quindi anche i paesi europei più poveri; per i geografi designava Asia, Africa e
America Latina; per gli storici, si riferiva solo ai paesi ex-coloniali; per i politici comprendeva tutti i
paesi non allineati, come ad esempio la ex Jugoslavia”. Per questi motivi ritengo che l’etichetta
Terzo Mondo vada evitata, sia per parlare del Nicaragua, sia, più in generale, per definire qualsiasi
altro paese.
Come afferma E. Taliani
10
, la prima definizione di sviluppo è quella di un “tendere verso
qualcosa di desiderabile”. Appare ovvio come, seguendo questa direzione, sia fortissima la
componente soggettiva e valutativa: che cosa è desiderabile? Ma, soprattutto, per chi lo è? Le
principali teorie sullo sviluppo elaborate a partire dal secondo dopoguerra, secondo uno studio
condotto da Charles P. Oman e Ganeshan Wignaraja
11
, si possono suddividere in due grandi
categorie di pensiero: non ortodosse, che interpretano l’economia mondiale utilizzando la
distinzione centro-periferia, e ortodosse, che non accettano tale paradigma.
6
UNPD, 2001.
7
consiglio a questo proposito di digitare su un qualsiasi motore di ricerca le parole chiave Nicaragua e Terzo Mondo,
per constatare la veridicità dell’affermazione.
8
Caselli, 2002
9
Scidà, 1987, p. 2219
10
Taliani, 1996, p. 650-651
11
Charles P. Oman e Ganeshan Wignaraja, 1991
9
Secondo uno studio svolto da M. Caselli
12
, nessuna di queste teorie è riuscita nell’impresa di
imporsi come paradigma dominante e duraturo, essendosi dimostrate, con il passare del tempo,
inesatte o perlomeno parziali. Infatti, a detta dell’autore, il presupposto di ognuna di queste sintesi è
l’equazione secondo cui lo sviluppo corrisponda alla crescita materiale unita alla razionalizzazione.
“Molto spesso” scrive Caselli
13
“l’aumento della produzione, unita alla accumulazione di beni
materiali e all’affermazione sempre più diffusa del pensiero e delle funzioni tecnico-strumentali,
sembra addirittura porsi come destino ultimo e naturale di ogni sorta di società umana; naturale e
quindi sottratto ad ogni possibile critica o contestazione. Questa idea di sviluppo si fonda
essenzialmente su tre pregiudizi: evoluzionistico, industrialista ed etnocentrico. Il pregiudizio
evoluzionistico considera lo sviluppo come un processo lineare, cumulativo, irreversibile e
tendenzialmente unico. Forma che, secondo il pregiudizio industrialista, tende a conformarsi al
paradigma industriale-urbano. (…) Il terzo pregiudizio, quello etnocentrico, ritiene la razionalità
occidentale come un concetto di validità universale, e allo stesso modo vengono considerati
universali valori a loro volta tipicamente occidentali, quali ad esempio lo spirito d’impresa, il
profitto, la sicurezza materiale e l’interesse personale”. Ne consegue che, per dirla con R.
Dahrendorf
14
, con la parola sviluppo si tende in genere a indicare “l’universalizzazione dei benefici
del Primo Mondo”. E’ vero, il Nicaragua è un paese “in via di sviluppo”: lo sviluppo (se intendiamo
questo termine in chiave solamente economica) cui tende questo paese però non è certo il suo, ma è
quello dei paesi industrializzati. E’ il nostro.
12
Caselli, 2002
13
Caselli, 2002, p. 55-56
14
Dahrendorf, 1995, p. 11
10
Ipotesi di sviluppo sostenibile
A seguito delle riflessioni espresse nel paragrafo precedente, desidero ridefinire i termini del
concetto di sviluppo, volgendo l’attenzione alle aspirazioni e ai bisogni delle persone. Ciò significa
considerare gli aspetti economici della vita sociale come un mezzo (e non come un fine), per
raggiungere quello che si potrebbe definire lo sviluppo umano: un concetto che ha trovato il suo
riconoscimento formale a partire dal 1990, anno in cui è cominciata la pubblicazione, da parte dello
United Nations Development Programme (UNPD), del Rapporto sullo sviluppo umano.
Ciononostante, anche ammettendo queste premesse, continua a non esistere una definizione
universalmente condivisibile dei parametri definiscano questo concetto. Questo a meno che non
vengano fissate delle variabili interculturali che possano essere condivise a livello globale, e che
siano negoziate in una discussione paritetica tra tutti i soggetti che si impegneranno a rispettarle.
L’UNPD definisce lo sviluppo umano (differente quindi da quello solo economico) come un
processo di ampliamento delle possibilità di scelta di cui possono disporre tutti gli individui
15
.
Possibilità di scelta che si compongono di due elementi: da un lato la presenza di opzioni
disponibili, mentre dall’altro il possesso dei mezzi e delle capacità per accedere a tali opzioni. A
partire da questa definizione M. Caselli, propone alcuni obiettivi interculturali di sviluppo
16
, tra
cui:
l’aumento del reddito;
l’aumento della speranza di vita (e quindi il conseguimento di sicurezza
alimentare e il miglioramento delle condizioni igieniche e sanitarie);
i progressi nel campo dell’istruzione (miglioramento di qualità e ampliamento di
possibilità di accedervi);
la parità dei diritti e delle opportunità tra i sessi;
la creazione di istituzioni politiche realmente democratiche (che permettano cioè
agli individui di prendere parte alla formulazione delle decisioni che incidono
sulla propria esistenza);
il rispetto dei diritti fondamentali dell’uomo (parola, stampa, circolazione, vita);
la tutela dell’infanzia;
la tutela dell’ambiente;
la pace.
15
UNPD, 1992
16
Caselli, 2002
11
L’individuazione di queste variabili cerca quindi di colmare il vuoto valoriale lasciato dal
relativismo culturale assoluto, nella scia dell’interrogativo posto da Ulrich Beck circa la possibilità
di una critica interculturale
17
.
A ben vedere, molti dei punti sopra elencati stanno al centro delle rivendicazioni dei movimenti
sociali dei paesi meno sviluppati. Per questo ritengo che lo studio di tali fenomeni possa essere il
terreno privilegiato di confronto e di individuazione delle variabili interculturali, attraverso le quali
definire gli obiettivi cui l’economia - intesa come strumento - debba tendere, nel rispetto
dell’ecologia, al benessere degli uomini. Come propone Ignacy Sachs infatti, la crescita economica
non deve compromettere l’ambiente e, al tempo stesso, deve tradursi in benessere sociale. Per
conseguire questo risultato è necessario definire le opportune gerarchie: “il sociale alle redini del
comando, l’ecologico quale limite di cui farsi carico, e l’economico ricondotto al suo ruolo
strumentale”
18
. Per questo, nella seconda metà degli anni ’80, si è costituita la Commissione
Mondiale per l’Ambiente e lo Sviluppo (WCED) che, presieduta dal norvegese Gro Harlem
Brundtland, produsse il rapporto Our common feature, in cui viene proposto il concetto di sviluppo
sostenibile. Quest’ultimo viene definito come “un processo di cambiamento, in cui lo sfruttamento
delle risorse, la direzione degli investimenti, l’orientamento dello sviluppo tecnologico e i
mutamenti istituzionali siano tutti in armonia e contribuiscano ad accrescere le possibilità attuali e
future di soddisfare i bisogni e le aspirazioni umane”
19
. Il tema della sostenibilità mette quindi in
risalto come lo sviluppo sia un problema globale, che oltre a comprendere una dimensione
economica, ne ha una sociale e una ecologica.
17
Beck, 1999, p. 100-109
18
Sachs, 1996, p. 37-41
19
WCED, 1987, p. 46
12
Sviluppo a qualsiasi costo: il Nicaragua
Le rivendicazioni dei bananeros del Nicaragua, oggetto del presente studio, vanno lette a mio parere
in un contesto globale, che sappia rendere conto delle problematiche inerenti alla sostenibilità dello
sviluppo. Infatti, per i paesi più poveri del pianeta, come il Nicaragua, la via più veloce per generare
ricchezza (ed uscire dalla miseria) è quella dello sfruttamento selvaggio delle risorse (umane ed
ambientali), sulla scia degli esempi delle nazioni oggi industrializzate. “Prima risolviamo il
problema della povertà, poi penseremo a combattere il lavoro minorile e forzato. Anche i paesi
industrializzati, nella loro storia, hanno accettato condizioni estreme di lavoro, per garantire lo
sviluppo. Perché dovremmo ora rinunciarci noi?” ha affermato il sindacalista indiano Phande
20
.
“Adesso tocca a noi inquinare”, ha dichiarato un politico brasiliano
21
, ed è normale pensare che i
paesi più poveri tentino di ripercorrere la strada aperta da chi, nell’impresa di arricchirsi, ha avuto
successo. La risoluzione del problema non può tuttavia fermarsi ai semplici divieti (ad esempio,
sull’emissione di inquinanti) poiché, come fanno notare molti studiosi, questi suonano ipocriti e non
verrebbero compresi. “I paesi sviluppati hanno chiesto a tutte le nazioni del mondo di fermare la
produzione di CFC (clorofluorocarburi), ma i paesi più poveri hanno chiesto – come possiamo
entrare in possesso del denaro, della tecnologia e dell’esperienza necessari per sostituire i CFC? –
La situazione è particolarmente frustrante per questi paesi, che stanno cominciando a godere proprio
ora dei benefici dei CFC sulla loro economia (…) I paesi sviluppati sono stati i principali
utilizzatori di CFC, e adesso che hanno trovato prodotti chimici alternativi, pretendono che anche i
paesi poveri ne facciano meno, ben sapendo che questi non possono farlo, senza un aiuto
consistente”
22
e ben retribuito, aggiungo. Inoltre paesi come il Nicaragua, ad esempio, vengono
usati dalle compagnie multinazionali dei paesi industrializzati (Europa, Usa, e soprattutto Cina) per
insediarvi industrie con costi di produzione minimi, che sfruttano la manodopera a basso costo e le
scarse leggi locali sulla protezione dell’ambiente
23
per incrementare i profitti. E’ in questo contesto
che si inserisce il movimento sociale dei bananeros del Nicaragua. Questi lavoratori hanno subito
per decenni lo sfruttamento irresponsabile delle risorse, umane ed ambientali, della loro regione, da
parte delle multinazionali della frutta. Sfruttamento che è stato avallato, appoggiato e (spesso)
incentivato dall’elite governante locale, che vedeva (e vede ancora oggi) negli investimenti stranieri
l’unica via d’uscita dalla miseria delle casse statali – anche se, sull’altare dello sviluppo economico,
si rivelasse necessario sacrificare la vita dei lavoratori e l’ecosistema ambientale.
20
(citato in) Caselli, 2002, p. 70
21
Latouche, 1993, p. 85
22
Bradshaw-Wallace, 1996, p. 163-164
23
Vedi, a questo proposito, la comparsa delle zone franche in Nicaragua, documentata approfonditamente sul sito
www.itanica.org
13
I bananeros stanno lottando affinché venga riconosciuto questo crimine, e vengano indennizzati per
i danni che hanno subito a causa di questo sfruttamento irresponsabile.
14
IL MOVIMENTO SOCIALE DEI BANANEROS
L’identità dei bananeros
Ho intenzione di prendere in esame, durante questo studio, la Asotraexdan (associazione degli ex
bananeros del Nicaragua colpiti dal Nemagòn) come movimento sociale, riferendomi alla
definizione che ne da Manuel Castells. I movimenti sociali sono infatti per lo studioso catalano
“azioni collettive orientate allo scopo, i cui esiti, sia nella vittoria che nella sconfitta, inducono ad
una trasformazione dei valori e delle istituzioni della società”
1
. Alla base di ogni movimento sociale
si può trovare una, più o meno cosciente, identità. Come afferma Calhoun infatti “non si ha notizia
di genti prive di nome, idioma e cultura, in cui non esista alcun criterio per distinguere tra sé e altro,
tra noi e loro. (…) La conoscenza di sé, che è sempre una costruzione, per quanto simile possa
essere ad una scoperta, non è mai del tutto separabile dall’aspirazione ad essere riconosciuti dagli
altri in determinati modi
2
”. Con il termine identità quindi denoterò, seguendo la definizione
suggerita da Castells, un processo di costruzione di significato fondato su un attributo culturale, o su
una serie di attributi culturali in relazione tra loro, che assume un’importanza prioritaria rispetto ad
altre fonti di senso
3
. A questo punto rimane il problema di stabilire a partire da cosa, da chi e
perché si creano queste identità. Sempre partendo dalla distinzione che lo studioso catalano propone
tra le diverse forme e genealogie della costruzione di identità, credo di poter riferire ai bananeros
quella che Castells descrive come identità resistenziale, ovvero “generata da quegli attori che sono
in posizioni/condizioni svalutate e/o stigmatizzate da parte della logica del dominio, e che quindi
costruiscono trincee per la resistenza e la sopravvivenza sulla base di principi diversi da – o
addirittura opposti a – quelli che formano le istituzioni della società, secondo ciò che Calhoun
propone quando spiega l’emergere della politica di identità”
4
. Il movimento sociale che prendo in
esame in questo studio infatti è formato da uomini e donne che hanno lavorato nelle piantagioni di
banane del Nicaragua negli anni ’70 e ’80, epoca in cui è stato usato un prodotto chimico
(Nemagòn) a base di DBCP, che ha provocato effetti disastrosi sull’uomo e sull’ambiente
5
.
L’identità dei bananeros nasce quindi a partire da una privazione, che ha generato in una prima fase
vergogna e rifiuto sociale, per poi trasformarsi in rabbia e coesione.
1
Castells, 1997, p. 3
2
Calhoun, 1994, p. 9-10
3
Castells, 1997
4
Castells, 1997, p. 8
5
Come emerge dai box informativi circa gli effetti provocati dal Nemagòn, cap. 5 della presente tesi
15
Non a caso tutti gli “afectados por el Nemagòn” che ho intervistato si soffermavano (nonostante
non chiedessi loro nulla di specifico) sui loro problemi di salute. Raccontandomi le loro esperienze,
le disgrazie dei loro familiari, mostrandomi e chiedendomi di fotocopiare i loro esami medici, questi
lavoratori mi facevano capire quale fosse la base comune da cui traevano rabbia e determinazione,
per proseguire, tra mille difficoltà, le rivendicazioni: la negazione della loro dignità umana.
(esame da laboratorio che dimostra la sterilità di Pedro Rafael Gutierrez Bustos, bracciante “bananero”
dal 1973 fino al 1999)
16
Come ammette lo stesso Castells, le identità nate come resistenziali “possono comportare progetti, e
persino assumere, nel corso della storia, una posizione dominante nelle istituzioni della società”
6
. Il
percorso del movimento sociale dei bananeros ha oggi raggiunto una identità progettuale, che si ha
quando “gli attori sociali costruiscono una nuova identità che ridefinisce la loro posizione nella
società e, così facendo, cercano di trasformare la struttura sociale nel suo complesso”
7
. Faccio
riferimento a questo percorso di identità tenendo a mente, oltre agli anni di mobilitazioni sociali in
cui – come avrò modo di dimostrare in seguito – i bananeros hanno conquistato i favori della
società civile, anche i progetti della Asotraexdan di trasformarsi in sindacato autonomo del settore
operaio e agricolo del Nicaragua
8
. Ne consegue che, partendo dallo sviluppare resistenza contro
una forma di oppressione insopportabile, i bananeros sono diventati oggi soggetti, secondo la
definizione proposta da Alain Touraine: “chiamo soggetto il desiderio di essere individuo, di dar
forma a una storia personale, di conferire un senso all’interno campo dell’esperienza della vita
individuale (…). La trasformazione degli individui in soggetti risulta dalla necessaria combinazione
di due fenomeni: l’affermazione degli individui contro le comunità e quella degli individui contro il
mercato”
9
.
Oltre allo studio delle condizioni che hanno determinato la nascita del movimento sociale dei
bananeros, è interessante porre l’accento al percorso da essi svolto. Il senso di appartenenza – e di
identità – nella comunità degli “afectados por el Nemagòn” si è rafforzato attraverso i processi di
mobilitazione sociale, tramite i quali sono stati scoperti e difesi interessi comuni. Questo è il motivo
per cui la Asotraexdan è nata con poche centinaia di militanti, ed oggi riesce a mobilitare migliaia di
persone. Come afferma Castells
10
, a prescindere dai risultati concreti ottenuti, è la stessa esistenza
di un movimento a produrre senso, non soltanto per chi al movimento prende parte, ma per la
comunità in generale. La Asotraexdan infatti, pur dando voce alla lotta di una parte degli abitanti di
Chinandega, porta avanti delle rivendicazioni che potrebbero aiutare l’intera comunità. Nell’assenza
di un intervento pubblico responsabile, questo movimento sociale cerca infatti di dare risposta
all’assenza di un Welfare State in grado di provvedere alle esigenze della popolazione. I bananeros
lottano per ottenere una pensione per gli invalidi, per poter usufruire delle strutture sanitarie
nazionali (alle carenze delle quali, oggi, sopperiscono tramite gli aiuti della solidarietà
internazionale), per avere un riconoscimento dello sfruttamento cui sono stati sottoposti negli anni
passati, e cui sono sottoposti, ancora oggi, i loro figli.
6
Castells, 1997, p. 8
7
Castells, 1997, p. 8
8
Come emerge dal cap. 3 della presente tesi, nella sezione relativa alla storia dell’associazione Asotraexdan
9
Touraine, 1995, p. 29-30
10
Castells, 1997
17
Queste rivendicazioni sono da impulso per l’intera comunità di Chinandega e, nei momenti di
maggior rilevanza mediatica, per l’intero Nicaragua.
Il movimento sociale
L’identità degli “afectados por el Nemagòn”, come ho spiegato in precedenza, nasce quindi da una
privazione. Gli appartenenti al movimento sociale che prendo in esame infatti fanno parte di uno dei
gradini più bassi della scala sociale del loro paese, intesa come “la distribuzione di individui o
gruppi su una scala di posizioni sociali tra loro distinte in base al possesso di risorse socialmente
rilevanti, sia economiche (il reddito, la ricchezza, l’occupazione), sia politiche (il potere), sia
simboliche (il prestigio)”
11
. Questa posizione svantaggiata all’interno della società deriva loro da
differenze ascritte, ovvero quelle “ereditate per nascita, cioè l’insieme dei vantaggi e degli
svantaggi che conseguono dal nascere di genere maschile o femminile, nell’ambito di un
determinato sistema sociale, con un certo censo, in una famiglia appartenente a un determinato
strato sociale e così via”
12
. Queste differenze generano una grande disuguaglianza, oggettivamente
misurabile nello studio delle loro condizioni di vita, e soggettivamente percepita dai bananeros
stessi. A questo proposito intendo riprodurre un grafico che abbiamo ideato io e Juan Antonio
Andrades Soriano, ex lavoratore “bananero” di 45 anni, per mostrare la autopercezione del livello di
vita in cui lui e la sua famiglia hanno vissuto attraverso i grandi rivolgimenti politico-economici
della storia del Nicaragua, fino ad oggi.
11
Cesareo, 1998, p. 159
12
Cesareo, 1998, p. 144