4
aperto confronto su obiettivi e principi, ma rimane confinato nell'ambito
delle cerchie di esperti, risolvendosi in taluni casi nella interminabile serie
di dettagli che accompagnano certe normative comunitarie. Eppure come
sostiene Karl Lamers << rendere manifeste le tensioni latenti non sarebbe
una catastrofe>>
3
. Il chiarimento delle posizioni reciproche, anche se
dovesse sfociare in una crisi, contribuirebbe piuttosto al rilancio dell'intero
progetto europeo su nuove basi.
A questo proposito il contributo dell'analisi geopolitica, che si occupa
appunto di comprendere i rapporti di forza intercorrenti tra determinati
soggetti politici ed economici (non necessariamente Stati) in ambiti spaziali
più o meno vasti
4
, può essere rilevante. La geopolitica infatti, come precisa
Yves Lacoste, non si limita a descrivere gli interessi di volta in volta in
gioco, ma prende in considerazione anche le motivazioni che ispirano il
comportamento dei diversi attori, comprese quelle di natura ideologica. Il
riferimento alla storia è essenziale in questo tipo di analisi, dal momento
che le molteplici rappresentazioni attraverso le quali i vari protagonisti si
rapportano ad un certo problema, obbediscono spesso a "memorie
selettive", cariche di giudizi di valore. Un altro elemento fondamentale di
questo approccio risiede nell'importanza attribuita al territorio, che se da
una parte ha indubbiamente perso rilevanza come fattore di potenza a
disposizione degli Stati-nazione, dall'altra ha acquisito nuovi significati nel
contesto della globalizzazione economica. I processi avviatisi sull'onda
delle nuove opportunità offerte dalla rivoluzione delle telecomunicazioni
incoraggiano infatti la formazione di zone specializzate all'interno dei
Paesi (ed in alcuni casi tra Paesi diversi), caratterizzate in genere da un
elevato livello di qualità della vita nonchè da una straordinaria
3
Karl Lamers, Il nucleo duro si farà, “Limes” 1/2002, pag. 84.
4
Lo studio può riguardare il territorio di un Paese ma anche un intero insieme regionale di Stati
o i quartieri di una singola città
5
concentrazione di poli universitari di eccellenza e di centri di ricerca
all'avanguardia. Tra queste aree privilegiate si distingue in California la
Silicon Valley, che rientrerebbe secondo alcuni osservatori nel novero delle
prime undici potenze economiche del pianeta
5
.
Nonostante la geopolitica non possa fare a meno di riferirsi ad alcuni
concetti teorici basilari, a partire evidentemente proprio da quello di
territorio, Lacoste chiarisce come essa non sia una scienza, quanto piuttosto
un metodo di analisi che si propone di fornire una visione di insieme
sufficientemente precisa di una serie di posizioni in conflitto più o meno
aperto tra loro per il controllo di una determinata sfera del potere, di natura
politica, economica o anche simbolica
6
.
Il geografo francese rimarca inoltre come tale approccio non si uniformi ad
alcuna concezione generale definita aprioristicamente, teleologicamente o
ideologicamente, ma miri ad una definizione il più possibile obiettiva ed
imparziale della situazione, servendosi in particolare di griglie
"multiscalari", che consentono di prendere in considerazione i diversi livelli
di analisi spaziale (dal locale al globale) e "multitemporali", grazie alle
quali distinguere la durata e l’impatto dei molteplici processi storici di
breve e di lungo periodo. Una speciale attenzione è riservata infine alla
raffigurazione cartografica di determinati insiemi spaziali, un procedimento
che agevola l'immediata visualizzazione complessiva di un certo fenomeno.
Per Yves Lacoste la funzione della geopolitica é eminentemente
pragmatica, dal momento che essa si propone di contribuire al superamento
degli antagonismi che rendono le frontiere muri invalicabili, mediante la
formulazione dei problemi da prospettive differenti e complementari. << Si
5
Cfr. Federico Rampini, Internet, la riscoperta del territorio, Supplemento al n. 1/2001 di
“Limes”, intitolato “I signori della rete”
6
Le opinioni di Yves Lacoste sono tratte da una serie di saggi apparsi periodicamente su
“Limes” ed intitolati “Che cos’è la geopolitica”
6
tratta di un nuovo modo di vedere il mondo>>. –commenta Lacoste
7
.
Questa particolare concezione della geopolitica potrebbe costituire tra
l'altro uno dei possibili vettori di quella "svolta epistemologica" nel campo
delle scienze sociali invocata da Ulrich Beck, per il quale i concetti
fondamentali della politica e della società devono essere riesaminati in base
ai principi della distinzione inclusiva, nell'ambito di nuovi sistemi di
riferimento teorici in grado di connettere i quadri interpretativi delle
diverse scienze, attualmente scomposte in ambiti settoriali differenziati ed
autonomi
8
.
Va osservato come solo di recente il termine "geopolitica" abbia
cominciato a riapparire nel linguaggio politico e mediatico, dopo essere
stato proscritto per quasi tutta la durata della guerra fredda a causa della sua
parentela con il nazismo
9
. La nascita di “Limes”, rivista italiana di
geopolitica a cadenza bimestrale, si inserisce appunto nel processo di
generale recupero e riattualizzazione di un paradigma analitico in grado di
fornire utili strumenti euristici per la comprensione dei complessi problemi
sollevati dalla crisi delle categorie interpretative proprie del mondo
bipolare. Fondata nel 1993 e diretta da Lucio Caracciolo, la rivista
raccoglie i contributi di personalità provenienti da ambiti professionali
molto diversi
10
, le cui opinioni rispetto al tema proposto di volta in volta
possono essere anche in forte contrasto tra loro. << Salvo le convinzioni
apertamente razziste, in quanto tale avverse a un dibattito aperto e paritario,
7
Yves Lacoste, Che cos’ è la geopolitica I, “Limes” 4/93, pag. 265
8
Cfr. Ulrich Beck, La società cosmopolita, il Mulino 2003
9
La prima importante scuola di geopolitica si affermò nella Germania umiliata dal trattato di
Versailles del 1918, sotto la direzione dell'ex ufficiale e diplomatico Karl Haushofer.
10
Collaborano con “Limes” uomini politici, generali, economisti ma anche storici e giornalisti
7
tutte le idee hanno pieno accesso alla rivista>> -si legge sul sito Internet
dedicato a “Limes”
11
.
Se da una parte questa impostazione permette di toccare una molteplicità di
argomenti, dando alla rivista un taglio decisamente interdisciplinare,
dall'altro però presenta l'inconveniente, messo in luce da Carlo Maria
Santoro, di non offrire un “filo rosso concettuale” che dia coerenza ai
diversi saggi, facendo di “Limes” << un'arma spuntata>>
12
.
Una delle ambizioni di questa tesi è proprio quella di organizzare in
maniera soddisfacente il contenuto di una serie piuttosto numerosa di
articoli selezionati da “Limes”, facendo riferimento ai nuovi termini assunti
dal processo di integrazione europea in seguito alla riunificazione della
Germania. Il tentativo è quello di fornire una panoramica delle condizioni
politico-economiche in cui si trovano ad operare i principali Stati membri
dell’ Unione Europea dopo la fine della guerra fredda, cercando in
particolare di mettere a fuoco gli atteggiamenti di lungo periodo che
bloccano la piena realizzazione delle potenzialità di azione internazionale
dell'Europa, sullo sfondo di una politica mondiale sovrastata dalla
superpotenza militare americana. Sono le stesse condizioni imposte dal
fenomeno della globalizzazione a mettere in discussione la categoria
centrale dell'esperienza politica moderna dell'Occidente, quella di Stato-
nazione, incoraggiando un processo di transnazionalizzazione della politica
che riesca a coinvolgere non solo i nuovi soggetti del sistema
internazionale, ma anche ogni singolo individuo. Perché è proprio nella
mobilitazione autonoma delle coscienze che si gioca il futuro della nostra
civiltà.
11
www.limesonline.com. D'altronde è significativo che nel consiglio scientifico di
“Limes”figurino sia esponenti dello schieramento di centrodestra, come Giulio Tremonti, sia
rappresentanti dell'area di centro sinistra, come Romano Prodi.
12
Cfr. Carlo Maria Santoro, L’ambiguità di Limes e la vera geopolitica: elogio della teoria,
“Limes” 4/96: pag. 307-313.
8
La supremazia americana nel sistema internazionale
del XXI secolo
Il crollo del muro di Berlino nel 1989 ha simboleggiato la crisi delle
strutture di riferimento della cosiddetta guerra fredda ma ciò non ha
significato l’avvento di una nuova epoca di pace. Il venir meno
dell’antagonismo tra le due superpotenze infatti è stato accompagnato dalla
recrudescenza di numerosi conflitti regionali, che continuano ad
insanguinare il mondo. Spesso tali conflitti sono contraddistinti da
rivendicazioni identitarie ed etno-nazionaliste, come nel caso dell’ex-
Jugoslavia. A volte si tratta di vere e proprie guerre civili scoppiate
all’interno di Paesi i cui confini sono stati tracciati dalle vecchie potenze
coloniali senza tenere alcun conto della composizione etno-linguistica delle
popolazioni residenti al loro interno, come è avvenuto in diversi Stati
africani. In altri casi l’autorità del governo centrale viene messa in
discussione da contropoteri locali, fortemente radicati nel territorio, i cui
interessi si incrociano spesso con quelli di potenti organizzazioni criminali
transnazionali. Inoltre diversi Paesi assistono alla rinascita di movimenti
indipendentisti, che nella maggior parte dei casi non esitano a ricorrere ad
azioni di guerriglia o ad atti terroristici nel perseguimento dei loro
obiettivi
13
.
Di fronte a questo scenario così frammentato, reso ancora più fosco dal
rilancio della corsa agli armamenti non convenzionali e dalla apparizione
della nuova minaccia del terrorismo internazionale, si staglia quello che
Nye ha definito il colosso americano
14
.
13
Per una panoramica dei conflitti tuttora in corso o recentemente cessati si veda pag. 133.
14
Cfr. Joseph S. Nye jr, Il paradosso del potere americano, Einaudi 2002, capitolo primo.
9
Senza alcun dubbio la supremazia degli Stati Uniti nel sistema
internazionale del XXI secolo rappresenta uno degli elementi
caratterizzanti del mondo post-bipolare. Ben lungi dall’attraversare una
fase di declino, la superpotenza americana non gode più tuttavia di quella
posizione egemonica che l’ha contraddistinta nei decenni immediatamente
successivi al termine del secondo conflitto mondiale, un’epoca definita da
John Mc Cloy “età di Pericle” per la politica estera di Washington
15
. Dotati
di un apparato produttivo senza pari e di una schiacciante superiorità in
campo militare, assicurata in particolare dal monopolio dell’arma atomica
(a disposizione dell’ Unione Sovietica solo dal 1949), gli Stati Uniti si
posero nei confronti del mondo come i benevoli garanti di un nuovo ordine
internazionale, facendosi promotori della nascita di istituzioni multilaterali
in grado di assicurare la fruizione di fondamentali beni pubblici globali e
presentandosi nello stesso tempo come paladini del “mondo libero” contro
l’autoritarismo comunista, anche se il governo americano prestò sempre la
massima attenzione ad evitare un confronto militare diretto contro il
gigante sovietico.
L’assoluta preminenza di Washington sulla scena internazionale si incrinò
negli anni ’70 del ventesimo secolo, innanzitutto dal punto di vista
economico. Nel 1971 gli Stati Uniti, sottoposti a forti attacchi speculativi e
desiderosi di riequilibrare il deficit della bilancia dei pagamenti attraverso
la svalutazione del dollaro, annunciarono l’interruzione della convertibilità
del dollaro in oro, decretando la fine del sistema monetario di cambi fissi
nato a Bretton Woods. La rinuncia a sostenere la stabilità del mercato
mondiale dei cambi era un’evidente manifestazione delle difficoltà di un
sistema economico danneggiato da un forte rallentamento dei ritmi di
crescita della produttività e sottoposto a nuove pressioni competitive
15
Cfr. Philip A. Golub, Washington è ancora capitale dell’ Occidente?, “Limes” 3/94, pag. 62-
65.
10
generate dagli emergenti poli dell’economia mondiale rappresentati da
Europa occidentale e Giappone
16
.
Il prestigio internazionale degli Stati Uniti doveva essere minato in quegli
anni anche dal prolungarsi della sanguinosa guerra in Vietnam, che si
sarebbe conclusa con l’umiliante ritiro delle forze americane nel 1976,
lasciando profonde cicatrici sulla coscienza nazionale.
Con l’improvvisa scomparsa dell’ impero sovietico l’unica superpotenza
rimasta si è trovata poi di fronte al problema, condiviso da tutti gli attori del
sistema internazionale, di ridefinire il significato della propria presenza
sulla scena mondiale. Per l’amministrazione Clinton, alla guida del Paese
per buona parte degli anni ’90, si trattava in primo luogo di promuovere la
difesa degli interessi economici nazionali, presentata come condizione
fondamentale per la stessa sicurezza degli Stati Uniti, facendo ricorso se
necessario anche a strumenti di carattere unilaterale, soprattutto nell’ambito
della politica commerciale. Come rileva Robert Gilpin, il tradizionale
sostegno americano all’approccio multilaterale negli scambi internazionali
è stato progressivamente sostituito, in particolare a partire dall’epoca della
presidenza Reagan, dall’adozione di una strategia definita “multitrack” (a
più binari), in base alla quale, di fronte a pratiche commerciali estere
ritenute “discriminatorie” o “sleali”, sarebbe giustificata la messa in opera
di una serie di misure volte a ripristinare la <<correttezza degli scambi
17
>>.
Emblematico il caso dei provvedimenti presi contro il Giappone, accusato
di proteggere in maniera disonesta settori del proprio mercato di interesse
vitale per i produttori americani, come quelli dei microchip o delle
automobili. A volte tuttavia le azioni punitive intraprese dal governo
statunitense hanno assunto una coloritura marcatamente politica, come
16
D’altra parte va evidenziato come la transizione da un sistema di cambi fissi ad uno di cambi
flessibili abbia stimolato i movimenti di capitale, favorendo lo sviluppo di un mercato
finanziario internazionale attualmente dominato dagli istituti di credito americani.
17
Cfr. Robert Gilpin, Le insidie del capitalismo globale, Università Bocconi Editore, 2001, pag.
217- 228.
11
dimostra la clamorosa vicenda delle sanzioni unilaterali imposte a Paesi
sospettati di proteggere o fomentare il terrorismo (Iran e Libia), applicabili
anche a quelle aziende europee che avessero continuato a intrattenere
rapporti commerciali con i “regimi ostili”.
L’altro asse fondamentale della strategia economica “multitrack” è
costituita dalla promozione di accordi regionali di libero scambio, tesi
innanzitutto a forzare i tempi del processo di liberalizzazione del
commercio internazionale, dimostrando ai paesi meno collaborativi che
esistono alternative al quadro tradizionale di riforma multilaterale. In
quest’ottica andrebbero quindi interpretati il sostegno offerto da
Washington al forum per la Cooperazione Economica Asia-Pacifico
(APEC), i cui Stati membri si sono impegnati a realizzare una zona
regionale di libero scambio entro il 2020; l’interesse dimostrato verso la
prospettiva della creazione di uno spazio economico transatlantico,
abbozzato nell’ agenda comune firmata al vertice fra Unione Europea e
Stati Uniti, svoltosi a Madrid nel dicembre 1995; e soprattutto la ratifica,
nel 1993, dell’accordo di libero scambio per l’America del Nord, il
NAFTA, di cui alla conferenza di Miami del 1995 è stata proposta
l’estensione nell’intento di creare una grande zona liberoscambista di
dimensioni continentali, la Free Trade Area of the Americas (FTAA).
Secondo alcuni osservatori, come Nicola Verola, potremmo trovarci di
fronte ad un vero e proprio disegno strategico di lungo periodo, mirante
all’instaurazione di un sistema coerente di intese regionali imperniate sugli
Stati Uniti, che potrebbero far valere su ogni singola area una sensibile
preponderanza economica, arrivando così a minare l’autorità dell’
Organizzazione Mondiale del Commercio, o comunque ad influenzarne
12
pesantemente gli orientamenti attraverso la creazione di uno spazio
intermedio tra quello multilaterale e quello regionale
18
.
Se la nuova importanza attribuita alle questioni di natura economica
costituisce il lato più pragmatico della politica estera americana del dopo
guerra fredda, la promozione a livello mondiale dei principi dell’economia
di mercato e della democrazia rappresenta la costante idealistica da sempre
presente nell’azione esterna di Washington. Secondo le parole pronunciate
da Anthony Lake, consigliere per la sicurezza nazionale del presidente
Clinton, durante un discorso del 1993 <<durante la Guerra Fredda abbiamo
contenuto una minaccia globale alle democrazie di mercato; ora dovremmo
cercare di ampliarne i confini, soprattutto in siti di particolare importanza
per noi>>. Ma come osserva Richard Crockatt nell’epilogo di un suo
libro
19
, la definizione mancava di un nucleo specifico, dal momento che
non veniva indicato cosa sostituire al paradigma del contenimento, a quale
causa applicare l’immenso potenziale dell’unica superpotenza ancora in
piedi. L’ immagine del global cop, del poliziotto internazionale, assunta
dall’America dopo la guerra del Golfo Persico del 1991, era associata all’
inaccettabile rischio di lasciarsi trascinare dagli eventi, magari sotto la
pressione dei mezzi di comunicazione di massa. <<Noi non siamo, né
possiamo essere, il gendarme del mondo>> -ha affermato l’allora
Presidente Bill Clinton in un’intervista rilasciata a “Limes” nel 1994.
D’altra parte ogni velleità di fare dei diritti umani la pietra angolare della
politica estera è stata clamorosamente smentita dai fatti, come dimostra la
sostanziale indifferenza degli Stati Uniti verso alcuni casi di vero e proprio
genocidio, tra i quali vanno ricordati quello avvenuto in Rwanda nel 1994 o
quello che si sta consumando silenziosamente sotto i nostri occhi, nella
18
Cfr. Nicola Verola, il commercio come leva geopolitica, “Limes” 4/96, pag. 147-156
19
Si tratta del volume “Cinquant’anni di guerra fredda”, Salerno Editrice, 1997
13
regione sudanese del Darfur. Anche l’opportunità di sanzionare le gravi
violazioni dei diritti umani perpetrate da governi legati a Washington da
interessi economici e geostrategici, come quelli russo e cinese, è stata
frustrata dalla realtà. Evidentemente la dignità umana è un valore
misurabile con il metro degli interessi nazionali, e non solo alla Casa
Bianca.
La grande guerra al terrorismo globale, lanciata dall’attuale
amministrazione Bush dopo i tragici quanto spettacolari eventi dell’ 11
settembre 2001, sembra fornire invece agli Stati Uniti le motivazioni
adeguate per una ridefinizione strategica della loro presenza nel mondo in
condizioni ideali. La necessità di fronteggiare un Nemico capace di colpire
in ogni momento i centri nevralgici della Nazione autorizza infatti, e quasi
impone di colpire d’anticipo, costringendo a riconsiderare la nozione stessa
di “legittima difesa”. <<Se aspettiamo che le minacce si materializzino,
avremo aspettato troppo a lungo>> -ha affermato il Presidente George W.
Bush in un discorso tenuto di fronte ai cadetti dell’accademia di West Point
il 1 giugno 2002. Nasce così il concetto di “guerra preventiva”, riedizione
postmoderna della vecchia idea di bellum justum , grazie al quale
giustificare, senza indicare un preciso obiettivo strategico da conseguire, un
uso molto spregiudicato dell’enorme potenziale bellico di cui l’America
dispone per aggredire tutti i regimi accusati di fornire ricetto e protezione
alle cellule della rete terroristica mondiale, i cosiddetti Stati Canaglia
(Rogue States), nel quadro di un assoluto unilateralismo decisionale,
garanzia dell’efficacia e della tempestività dell’azione.
Su questi presupposti l’amministrazione Bush, uscita vincente dalle
contestate elezioni presidenziali del 2000, ha inaugurato una ambiziosa
strategia di ristrutturazione del sistema di Relazioni internazionali a partire
dall’intervento sugli equilibri della regione mediorientale, nella prospettiva
di quella che Jurgen Habermas chiama <<l’instaurazione egemonica di un
14
ordinamento liberale del mondo>> imperniato su Washington
20
. L’azione
statunitense ha avuto innanzitutto importanti risvolti dal punto di vista
geopolitico, favorendo il temporaneo riavvicinamento alle posizioni di
Mosca e Pechino, impegnate a loro volta nella repressione di gruppi e
movimenti indipendentisti etichettati come terroristi, rispettivamente in
Cecenia e nello Xijang. La Russia in particolare non ha posto obiezioni alla
permanenza di truppe americane in Asia centrale, una regione da tempo
gravitante nella sua sfera di influenza, e questo nonostante persistano tra i
due Stati non trascurabili motivi di tensione, come l’ allargamento della
NATO ai Paesi post-comunisti, o il ritiro degli Stati Uniti dal trattato Anti
Missili Balistici (ABM), considerato da Mosca come l’asse privilegiato del
suo rapporto con Washington riguardo alla questione del controllo degli
armamenti.
Andrea Nativi ha osservato come la guerra al terrorismo internazionale si
accompagni inoltre ad una complessiva ridislocazione geostrategica delle
forze militari statunitensi, che si rifaranno in misura sempre maggiore al
principio della <<forward presence>>, in base al quale la proiezione di
potenza all’estero, assicurata da una rete globale di basi di appoggio
posizionate in prossimità delle aree di potenziale crisi, tra cui si
distinguono quelle del Pacifico e del Golfo Persico, rappresenta l’unico
strumento veramente valido per garantire una risposta rapida ed efficace ad
un’eventuale minaccia rivolta contro gli interessi americani
21
.
Ma le implicazioni più allarmanti della dottrina della guerra preventiva
riguardano, come rileva Habermas, il futuro stesso del processo di
legalizzazione delle relazioni internazionali, offuscato dalla pretesa della
superpotenza di giustificare eticamente il perseguimento dei propri interessi
20
Cfr. Jurgen Habermas, L’Occidente diviso, Laterza 2005, pag. 5-16
21
Cfr. Andrea Nativi, Ovunque e di meno! La potenza Usa nel mondo, “Limes” 4/96, pag. 143-
146. Si veda anche la carta geografica a pag. 133.
15
nazionali, assimilandoli arbitrariamente a quelli dell’intera umanità sulla
base di un <<falso universalismo>>, corrispondente in realtà ad <<un
etnocentrismo allargato a dimensioni generali
22
>>.
L’idea della responsabilità americana per il resto del mondo nasce secondo
Michael Hirsh da un profondo senso della propria eccezionalità, che si
nutre a sua volta della radicata convinzione di avere una missione di
origine divina da compiere. <<La libertà che noi coltiviamo non è il regalo
dell’America al mondo, è il regalo di Dio all’umanità>> -ha solennemente
affermato George W. Bush nel suo discorso sullo stato dell’Unione del 28
gennaio 2003.
La certezza che gli Stati Uniti siano una potenza morale con precise
responsabilità globali emerge significativamente anche dal Project for a
New American Century (PNAC), una delle iniziative maggiormente
rappresentative dell’ideologia della sempre più influente corrente dei
neoconservatives (neocon), un gruppo piuttosto ristretto di intellettuali e
uomini politici, spesso legati alle industrie fornitrici del Pentagono, per i
quali <<la leadership americana è buona sia per l’America che per il
mondo
23
>>, e va salvaguardata –sostiene William Kristol, cofondatore
insieme a Robert Kagan del PNAC- allargando i confini del cosiddetto
“perimetro di sicurezza nazionale” sulla base di un incremento
considerevole delle spese per la difesa.
Questa visione del ruolo mondiale di Washington si è tradotta finora
nell’adozione di una intransigente linea unilateralista in politica estera,
caratterizzata dalla marginalizzazione degli organismi multilaterali di
cooperazione internazionale a favore di una maggiore valorizzazione di
quelli che Henry R. Nau, esperto di relazioni internazionali di chiara
22
Jurgen Habermas, L’Occidente diviso, Laterza 2005, pag.94.
23
Così si legge nell’introduzione al sito web ufficiale del progetto,
www.newamericancentury.org
16
impostazione realista, chiama, facendo ricorso ad un’espressione piuttosto
ambigua, i <<vincoli istituzionali informali>> esistenti con le altre
democrazie
24
, che vanno coinvolte nell’azione americana, ma sempre <<a
partire dal solido terreno dell’interesse nazionale e non da quello di
un’illusoria comunità internazionale>>, come ha affermato Condoleeza
Rice, già consigliere per la sicurezza nazionale e ora segretario di Stato
della nuova amministrazione Bush, durante la campagna per le elezioni
presidenziali del 2000.
Secondo diversi osservatori, tra cui Franz Gustincich, staremmo assistendo
ad un cambio di orientamento radicale rispetto al tradizionale sostegno
offerto da Washington all’evoluzione del diritto internazionale, vissuto
sempre più come un intralcio per la salvaguardia dei propri interessi, ormai
di rilevanza mondiale. <<Mai gli Stati Uniti –commenta Gustincich- erano
arrivati a teorizzare un nuovo ordine mondiale senza obblighi per il
dominante, rischiando di mettere in crisi il principio fondante della
legittimità delle scelte politiche: il primato del diritto>>
25
.
Tuttavia sono molti coloro che negli stessi Stati Uniti mettono in guardia
sui rischi di una politica estera avvertita come arrogante, in quanto
qualsiasi tentativo di dominio –avverte Richard Haas, direttore della
pianificazione delle politiche al Dipartimento di Stato- non godrebbe del
supporto interno e stimolerebbe resistenza a livello internazionale,
spingendo gli altri Paesi a formare coalizioni anti-americane. Inoltre –
osserva Joseph S. Nye- nonostante la pratica del multilateralismo riduca la
libertà d’azione di Washington nel breve termine, essa rappresenta anche la
migliore strategia per il raggiungimento degli obiettivi di lungo periodo, tra
i quali primeggia la costituzione di un ordine internazionale in cui la
24
Cfr. Henry R. Nau, La grande strategia americana, Quaderno speciale intitolato “La guerra
promessa” (supplemento a “Limes” 1/2003)
25
Cfr. Franz Gustincich, I cavalieri del nuovo secolo americano, “Limes” 2/2003, pag. 55-62