specifiche per la Francia, alle prese con la guerra d'Algeria
1
, più sfumate per la Gran
Bretagna ) si fondono nelle menti e negli atti dei due governi europei dando vita ad una
delle più disastrose e malcondotte campagne diplomatico-militari della storia recente,
tanto sconclusionata da sollevare fin troppo ingenerose accuse di insanità mentale verso
il primo ministro britannico Eden
2
.
Ma Suez è anche la grande bandiera che i paesi di recente o non ancora conquistata
indipendenza possono sventolare come un grande successo contro l'imperialismo e il
colonialismo occidentale, il simbolo di una lotta che non può mancare e che dovrà essere
vittoriosa; Nasser ne è il più celebrato corifeo, il raìs che sceglie di non allinearsi alla lo-
gica dei blocchi - conferenza di Bandung, 1955 - e che, agitando il nazionalismo come
arma vincente, diventa uno dei protagonisti assoluti dell'ansia di riscossa dei popoli
oppressi con tanto di folle in delirio che innalzano il suo ritratto. E Suez è ancora un
momento di grande tensione nei rapporti Est-Ovest per i quali non è servita la distensiva
Conferenza di Ginevra del 1955: agendo dapprima dietro le quinte e quindi apertamente,
USA e URSS paiono persino trovarsi per un attimo dalla stessa parte nella condanna
dell'azione militare anglo-franco-israeliana, anche se in realtà ben più lungimiranti sono
le mire dei due imperi; c'è da superare lo stallo europeo, nuove zone geografiche devono
essere conquistate - si pensi, per restare al Medio Oriente, alle iniziative quali il Patto di
Bahgdad
3
, la vendita di armi sovietiche all'Egitto tramite la Cecoslovacchia, la c.d.
"Dottrina Eisenhower" del gennaio 1957 -, il problema della decolonizzazione va
immediatamente riassorbito nella règle du jeu bipolare.
Troppo pericolosa è la prospettiva di perdere posizioni importanti sullo scacchiere
internazionale: trattandosi di un gioco a somma zero, la perdita di una parte è vista come
l'acquisto della parte avversa. Non si dimentichi poi l'eccezionale rilevanza della zona
1
La Francia ritiene il regime di Nasser più che corrivo con gli insorti algerini: un aereo delle linee aeree egiziane,
con a bordo Ben Bella, tra i capi della rivoluzione algerina, viene intercettato e dirottato dai francesi sui cieli
internazionali.
2
Cfr. CARLTON, Britain & the Suez Crisis, London, Basil Blackwell, 1988, passim.
geografica in cui la crisi si sviluppa, zona foriera dei più imprevedibili sviluppi: il Canale
di Suez, essendo una via d'acqua che permette il rapido transito del commercio
mercantile tra il Mediterraneo e l'Asia, determinante dunque per facilitare il
foraggiamento petrolifero - ma non solo -, appare lo snodo obbligato attraverso il quale
la gran parte dell'economia occidentale si regge; sono ancora lontani i tempi in cui la
scoperta del petrolio come arma di fortissima pressione diplomatica farà fare ai paesi
produttori di greggio un salto di qualità sulla scena mondiale, eppure anche allora si
percepisce, da parte dei governi europei e delle varie compagnie petrolifere, come esiziale
qualsiasi mutamento occorso al sistema di navigazione del canale.
Infine, Suez va anche inserita nel panorama regionale mediorientale quale seconda
guerra arabo-israeliana, "fase acuta di una guerra totale ininterrotta"
4
che avrà ancora
momenti di aspro confronto militare; del resto, sembra tutto più chiaro se si decide di
assumere il solo punto di vista del governo israeliano, per il quale lo scontro con l'Egitto
assolve la duplice funzione di rompere l'isolamento diplomatico originato dal divieto che
i paesi arabi impongono agli occidentali di commerciare con Israele - ne fa fede l'asse
Parigi-Tel Aviv
5
- e di allentare la morsa araba dimostrando una volta di più la
supremazia militare ebraica.
Tale dunque la complessità di questa crisi. Ma non è tutto: altri problemi attengono
piuttosto ai rapporti in seno all'Alleanza Atlantica, alla tenuta della stessa sia rispetto alla
posizione statunitense sia relativamente alle posizioni delle varie cancellerie europee; ci
sarebbe quindi da misurare il grado di rottura originato dall'azione anglo-francese e le
eventuali ripercussioni all'interno del Trattato dell'Atlantico del Nord.
Si è detto spesso che uno dei malintesi a proposito di Suez è stato quello di non aver
portato l'intera questione sul piano neutro della controversia giuridica, disattivandone
3
"A Middle Eastern version of NATO, its purpose was to contain the Soviet Union along its southern borders":
così H. KISSINGER, Diplomacy, New York, Simon & Schuster 1994, pag. 527. Il Patto è firmato il 24 febbraio
1955 tra Turchia e Iraq, al quale accedono successivamente Gran Bretagna, Iran e Pakistan.
4
E. BARNAVI, Lo stato di Israele, Milano, Bompiani, 1996, pag. 172.
5
"Nel dicembre 1954 gli israeliani possono comprare centoventi caccia Ouragan poi, a fine 1955 [...] dodici
Mystère 4, l'ultimo grido dell'industria aeronautica francese": E. BARNAVI, cit., pag. 176.
per quanto possibile i presupposti politici e adoperandosi perché le conseguenze
economiche fossero di modesta entità. Operazione di non facile praticabilità, ovvio: non
è semplice separare le varie istanze, non almeno in una vertenza carica di così tanti e
possibili sviluppi. Da più parti durante il trascorrere della crisi si leva la voce di quanti
invocano il mantenimento della crisi stessa al livello giuridico: tra queste, l'Italia torna
con più frequenza a ricordare di non alzare troppo i toni del contendere e di tenere ben
distinti i problemi politici da quelli legali.
Quel che è certo è che le mosse anglo-francesi hanno fatto di tutto per unire le due
questioni, e anzi per far emergere prepotentemente la predominante politica: le due
conferenze tenute a Londra e non in una sede neutra, gli appelli bellicosi, i preparativi
militari... Sin dall'inizio Francia e Gran Bretagna hanno deciso di sbarazzarsi di Nasser,
con o senza un'operazione armata, a riprova che il presidente egiziano è realmente visto
come un pericolo per la pace mondiale, e non solo per gli interessi specifici occidentali.
Questo vero e proprio terrore nei confronti di Nasser è stato da più parti spiegato con il
fatto che molti dei protagonisti politici di parte francese e inglese, che avevano
partecipato in vario modo al tragico appeasement del 1938 con Hitler - Eden era all'epoca
uno dei protagonisti della politica estera inglese - pensano di star rivivendo quei giorni
infausti; la presa del Canale assomiglia nelle menti di tanti politici alla rimilitarizzazione
della Renania o all'Anschluss austriaco. Il ricordo brucia ancora, e se c'è una cosa che i
responsabili dei due paesi non vogliono è proprio quella di lasciar crescere un nuovo
Hitler. Non si tratta con questo di dare una giustificazione all'operato anglo-francese, ma
solo di mettere in evidenza come spesso i fantasmi del passato tornino a turbare la
serenità di giudizio di statisti anche scaltri.
Ma non solo Francia e Gran Bretagna hanno agito male: anche l'Egitto ha risposto
con eguale avventatezza, inconsapevole dei rischi e delle possibili conseguenze: il coup de
théâtre della nazionalizzazione proprio il giorno dell'anniversario della rivoluzione, una
eccessiva rigidità durante i negoziati, una scaltrita abilità nella simulazione e nel-
l'ambiguità, una troppo sicura fiducia nel credere di sapersi mantenere indipendente ed
equidistante dai due blocchi...
E all'Italia in questi vorticosi cento giorni non mancano certo gli argomenti e gli
spunti per far lavorare la propria politica estera a pieno regime: ammessa da un anno
appena alle Nazioni Unite e già impegnata a disbrogliare una matassa che tiene annodati
tanti interessi nazionali, la nostra condotta diplomatica si trova a dover giocare contem-
poraneamente su più tavoli - quello dei 'vincoli europei' e quello degli 'echi mediterranei'
per intenderci
6
- è costretta ad accentuare il suo ben noto 'strabismo diplomatico'
mantenendo un difficile e precario equilibrio tra occidente e mondo arabo. La condotta
italiana si può prestare allora a più di una critica per il modo in cui ha tentato di
conciliare esigenze di per sé opposte e in quel momento addirittura in rotta di collisione.
Se non è pensabile ridiscutere i fondamentali della solidarietà atlantica e occidentale - al
massimo ci si può permettere il lusso di essere moderatamente neo-atlantisti, ma questa è
un'altra questione -, non è neppure facilmente ipotizzabile abdicare a quel ruolo
fortemente cercato e voluto di paese-guida del Mediterraneo - ciò significando una
relazione stretta con i paesi arabi che spesso ci mette in difficoltà con gli altri partner.
Ci sono dunque due linee di interessi o, se vogliamo, due tipi di amicizie che
convergono in Italia e convengono all'Italia: ma se queste due amicizie si trovano su
fronti contrapposti, l'una contro l'altra armate - e si pensi alle difficoltà che può
incontrare chi voglia mantenersi ad equa distanza tra due contendenti che premono
ognuno per portarlo dalla propria parte - ecco che un'azione univoca e coerente non è
più possibile, ecco che iniziano gli impicci e gli impacci, ecco che la soluzione può essere
solo quella di proporsi quali mediatori, quali onesti sensali capaci di non scontentare
nessuno e di raccogliere magari consensi da tutti. Vedremo così che la diplomazia italiana
cerca, con poco o punto successo, il passaggio a Nord-Ovest di una possibile media-
zione: se ne incarica il segretario DC Fanfani con una lettera ad Eisenhower in cui si
offrono i buoni uffici di un diplomatico esperto come Raimondo Manzini. Non vi è
seguito a questo tentativo, un po' a causa del precipitare degli eventi, un po' a causa della
troppa discrezione che circonda l'intrapresa, molto infine a causa dell'intransigenza di
Gran Bretagna e Francia.
Spesso i commentatori di quel periodo e gli studiosi successivi hanno parlato, a
proposito dell'Italia, di condotta ambigua, di idee confuse, di azione contraddittoria;
tutto ciò non è falso, e anzi si basa su riscontri oggettivi. Ma il giudizio deve essere più
articolato, più meditato: nel momento in cui si parla di interessi vitali che sono al tempo
stesso contrapposti e conflittuali, è assai arduo invocare spensieratamente azioni
univoche e scelte nette di politica estera. Non sempre si è compreso che non era in
discussione la cementata, inevitabile, naturale - date le premesse - solidarietà occidentale
al più alto rango: non si tratta, e non si rischia, di mandare all'aria la compatta falange
atlantica su una questione importante ma contingente come quella di Suez. Troppo
pericoloso è mettere in discussione l'architettura occidentale in quegli anni di forte
tensione ideologica e di confronto su tutti i livelli, e di certo nessuno dei responsabili
della politica estera italiana vuole questo.
L'Italia cerca però spazi di manovra tra esigenze diverse, vorrebbe, se fosse possibile,
scegliere di non scegliere. Anche all'interno l'opinione pubblica e le forze politiche sono
divise: la fedeltà agli alleati occidentali è richiesta a gran voce da repubblicani, liberali,
socialdemocratici, intellettuali di estrazione liberale, settori del governo; una maggiore
attenzione ai rapporti con il mondo arabo è viceversa invocata da tutti gli altri -
comunisti e neo-fascisti, ampie aree DC, un po' tutto il mondo economico trascinato
dall'ENI di Mattei... Ci si accanisce, si spendono parole grosse, si alza la voce perché
questa è forse la prima occasione per la Repubblica italiana di agire da pari a pari con le
altre nazioni sul tavolo della politica internazionale. Non si può fare una brutta figura: si
deve invece dimostrare di saper esercitare un ruolo politico non modesto, non
provinciale, non grettamente nazionalistico
7
.
6
Usiamo qui una bella immagine di B. BAGNATO dal saggio omonimo, Vincoli europei, echi mediterranei, Firenze,
Ponte alle Grazie, 1991.
7
Dice A. BROGI in L'Italia e l'egemonia americana nel Mediterraneo, Firenze, La Nuova Italia, 1996, pag. 222: "La
carta che la diplomazia italiana seppe giocare con relativo successo per vincere la sfiducia degli americani fu
quella della costante perorazione dei principi universali in contrapposizione all'arroccamento di inglesi e francesi
Di qui appunto le diverse opinioni, le differenti interpretazioni, le divergenti scelte di
chi è chiamato a decidere: messa alle strette, l'azione diplomatica italiana può apparire
monca di unità, di stimoli condivisi, di traguardi non controversi: se è vero che lo stesso
Palazzo Chigi si trova al suo interno spezzato in due, con gli economisti da un lato e i
politici dall'altro, si può comprendere quanto la condotta estera italiana ne scapiti.
E d'altra parte l'Italia è indotta a agire così dal fatto di vedere le sue iniziative
collimare quasi sempre con quelle americane; non si è mai soli, non si resta isolati, anche
se ci si allontana via via da Gran Bretagna e Francia. Gli USA precedono, più raramente
assecondano, ogni intendimento italiano, e in questo modo la condotta che ne risulta ha
sempre le spalle coperte, rimane 'nel giusto'. Se ambiguo è tutto l'operato della
diplomazia italiana - ma cerchiamo di capire da cosa dipende questa ambiguità -, ben più
ambiguo appare quello di Foster Dulles nei confronti degli alleati europei: tanto ambiguo
da far infuriare spesso Eden e Mollet.
Ma non è giusto dire che con Suez si arriva ad un passo dalla rottura, se per rottura
s'intende lo scardinamento degli equilibri imposti dalla guerra fredda: si resta invece
molti passi indietro da quella rottura definitiva, e prova ne sia il velocissimo
riassorbimento della crisi nei mesi successivi. Certo, ci sono ripensamenti, tirate
d'orecchie, vengono ricalibrate le tattiche diplomatiche nazionali, nasce una nuova e
importante strategia internazionale quale la Dottrina Eisenhower; ma la struttura
essenziale occidentale ne esce sostanzialmente intatta. Gli USA non possono permettersi
di rompere con Francia e Gran Bretagna, queste devono accettare il tramonto delle loro
ultime velleità nei confronti dei paesi ex colonie, l'Italia non può nemmeno pensare a
politiche altre: può semmai discutere le politiche presenti, può interpretare, eccepire,
valutare in modo diverso alcune questioni, ma sulle linee guida non ci sono e non ci
devono essere dubbi.
nella difesa dei loro interessi particolari. Ciò non significava la mera aggregazione di un alleato minore al punto di
vista generale, ma [...] il tentativo di dimostrare che l'Italia poteva svolgere una funzione determinante, degna di
una grande potenza, nel presentare proposte costruttive per risolvere la crisi e per mantenere l'equilibrio
nell'Alleanza atlantica."
Questo nostro lavoro cercherà appunto di indagare la condotta della politica estera
italiana durante i cento giorni o poco più che hanno visto la crisi di Suez nascere,
svilupparsi e richiudersi. Abbiamo quindi inteso osservare non solo la direzione di
movimento del governo e del ministero degli Esteri, ma anche delle forze politiche e
dell'opinione pubblica, valutando quali sono state le linee di pensiero prevalenti,
scrutando le reazioni di politici, intellettuali e studiosi di fronte ad una vertenza che
avrebbe potuto avere, se trascinata alle sue estreme conseguenze, effetti ben più
dirompenti.
I primi capitoli seguono così lo sviluppo diacronico della crisi; importanti ci sono
sembrati gli interventi del ministro degli Esteri Gaetano Martino - sotto varie forme:
dalle lettere ai colleghi occidentali alle interviste, dalle dichiarazioni ufficiali alle
discussioni in Parlamento fino ai memoranda di conversazione con gli americani -, e come
tali li abbiamo riportati, cercando di inserirli sia nell'ambito specificamente italiano sia nel
più vasto panorama internazionale.
Tre capitoli - quelli sulle conseguenze economiche, sull'ENI, sulla NATO e il Neo-
atlantismo - sono per così dire 'tematici', e cioè si affiancano alla crisi vera e propria e
contemporaneamente ne restano distanziati: li abbiamo posti in fondo al volume, ma ad
essi si rifanno tutti gli altri capitoli.
I documenti inediti che siamo riusciti a reperire danno un'idea parziale ma
abbastanza sicura del lavorio diplomatico originato dalla crisi di Suez, soprattutto lungo
la direttrice italo-statunitense; possono risultare utili qualora si volessero indagare i
rapporti tenuti dalle due diplomazie, la valutazione che l'Italia faceva delle mosse
americane e, specularmente, la considerazione in cui gli italiani erano tenuti da
Washington.