IV
Innanzitutto, l’Aeronautica Macchi è protagonista, proprio a partire dal 1970-71,
dell’inizio di un importante processo di sviluppo e consolidamento di un insieme
di skill, di natura tecnica e commerciale, nate nel decennio precedente e rivolte
essenzialmente al segmento di velivoli a getto per l’addestramento di piloti
militari. In questi anni l’attività in tale nicchia di mercato prende definitivamente
il sopravvento sulle altre ed indirizza decisamente verso una chiara direzione lo
sviluppo di parte del patrimonio genetico della società. Si afferma cioè il «core
business» aziendale che sarà ulteriormente valorizzato in futuro. In
contemporanea, altri caratteri appartenenti al Dna Macchi già consolidati,
retaggio della lunga storia della società (nata nel 1913), cominciano
gradualmente e lentamente a mutare per adeguarsi all’evoluzione del contesto,
anch’essi lungo un periodo di tempo trentennale. All’inizio degli anni duemila, il
compiersi di questi processi finisce per consegnare una realtà notevolmente
rafforzata in alcuni aspetti ed in altri profondamente rivisitata. L’oggetto di
questo lavoro è quindi la storia di un cambiamento, di una trasformazione
societaria, in alcuni casi palesemente visibile agli occhi dell’osservatore esterno
ma in altri più oscura poiché avvenuta “dietro le quinte”, che ha valorizzato,
accresciuto e difeso un patrimonio nazionale di alta tecnologia.
Uno studio di questo tipo non poteva prescindere da un adeguato e costante
richiamo alle vicende ed alle caratteristiche, sia nazionali che internazionali, del
comparto industriale a cui Aermacchi appartiene. Ciò è stato necessario, oltre che
per una naturale analisi dei concorrenti o dei partner, a causa del notevole peso
che la politica statale di intervento ed indirizzo nel settore delle industrie
aeronautiche ha sempre assunto. Anzi, le sorti di questo comparto, vista la sua
strategicità per un Paese sotto molteplici aspetti, sono state spesso legate a
doppio filo, e lo sono ancora, con le scelte dell’operatore pubblico, per l’opera di
sostegno determinante che esso ha sempre dato nella forma di committente, di
finanziatore della ricerca, di sostenitore delle esportazioni, di apportatore di
V
cospicui capitali, spesso di proprietario di molte imprese. Nella maggiorparte dei
paesi del mondo é stato sui tavoli dei governi che, soprattutto nel secondo
dopoguerra, si è disegnata la fisionomia dell’industria aeronautica.
In Italia un intervento più concreto in questo senso comincia ad attuarsi proprio
dagli anni Settanta: ed è questo il secondo elemento che ci ha spinto ad iniziare la
narrazione da qui, dall’epoca dello “sbarco” delle Partecipazioni Statali nel
settore. Il nostro discorso si snoda quindi lungo due direttrici principali e
parallele: da una parte le vicende di Aermacchi, dall’altra quelle della restante
parte del settore, quasi completamente pubblica. I rapporti tra questi due mondi,
diversi ma in reciproca influenza, sono stati approfonditi per coglierne i riflessi,
positivi o negativi, sulla realtà Aermacchi; per capire cioè quante delle sue scelte
e dei suoi tratti essenziali beneficiassero, o subissero, della politica industriale
dello Stato, ed inoltre per comprendere a fondo di cosa si parli quando ci si
riferisce e quel carattere di «unicità» dell’azienda. Due strade parallele ma vicine
che finiranno per convergere ed unirsi nel 2003.
* * *
L’indagine svolta si è basata su una documentazione estremamente frammentaria
ed inorganica. Quanto alla Macchi, per il periodo preso in considerazione le
opere “dedicate” di natura economico-aziendale sono praticamente inesistenti. È
mancato quindi un testo o un contributo di riferimento che potesse almeno dare
qualche indicazione sull’ossatura del percorso da seguire ed approfondire sotto
questa particolare ottica.
Si è cercato innanzitutto di reperire della documentazione di fonte aziendale,
constatando purtroppo che la società non dispone di un archivio, se non di natura
prettamente tecnica, utile ai nostri fini. Dei buoni contributi in tal senso sono
però giunti dalla consultazione del periodico di informazione aziendale
VI
(quadrimestrale e poi semestrale) «Aermacchi World», la cui completa
collezione dal 1987 è disponibile preso la biblioteca del Politecnico di Milano.
Non è rimasta che una sporadica traccia, sia in azienda che in strutture
pubblicamente accessibili, di numeri questa pubblicazione antecedenti a tale data,
né tantomeno del suo antenato «Aermacchi Informazioni». Seppur di taglio
prettamente promozionale e spesso acritico, i contenuti dei fascicoli rintracciati
hanno costituito una preziosa cronologia degli eventi più importanti di cui si è
parlato. Più fortunata è stata la ricerca presso fonti archivistiche di tipo sindacale,
soprattutto presso la Cgil di Varese. A partire dai primi anni Settanta, e fino alla
metà del decennio successivo, appare una serie di documenti indubbiamente
preziosi per ricostruire buona parte delle vicende trattate: particolarmente utili in
tal senso le comunicazioni che la società era obbligata ad effettuare verso il
sindacato dopo l’approvazione del contratto collettivo nazionale di lavoro del
1976. Qui erano contenute informazioni essenziali soprattutto sulla situazione dei
carichi di lavoro e delle attività produttive presenti e future. Accanto ad esse, si è
rintracciato il testo di qualche intervista svolta in quegli anni a membri della
direzione aziendale, i resoconti degli incontri fra rappresentanti sindacali ed
azienda, le relazioni finali ad un paio di seminari aziendali. Nulla di
particolarmente confidenziale o riservato era comunque contenuto in questi pochi
scritti. Della medesima fonte, infine, alcuni lavori di ricerca di origine
accademica su vari aspetti aziendali (sociologia, organizzazione, sicurezza del
lavoro). Si deve sottolineare che tutti i materiali considerati, raccolti presso i
sindacati, contenevano dati e informazioni assolutamente oggettivi ed acritici,
essendo nettamente distinti da altri documenti, sempre inerenti la Macchi, più
ricchi di valutazioni e proposte che indubbiamente risentivano dell’ideologia di
chi li scriveva.
Da più fonti si sono invece raccolti ulteriori contributi in merito, intorno ad
aspetti che ruotavano intorno alla Macchi: relazioni di conferenze ed incontri
VII
(frequentemente nell’area di Varese si tenevano eventi di questo tipo, con
oggetto le problematiche generali del settore aeronautico), articoli della stampa
locale e nazionale, anche documentazione di natura catastale.
Presso la Camera di Commercio di Varese si sono infine cercate ulteriori
informazioni sia attraverso gli atti di varia natura depositati dalla società sia
tramite i bilanci della stessa. Anche qui le difficoltà non sono state poche: in
primis perché la raccolta di questi atti, relativa agli anni meno recenti, risulta
ricca di lacune probabilmente dovute ai ripetuti trasferimenti di “carte” tra
Tribunali e CCIAA di Varese e Milano, legati ai cambiamenti di sede legale. Ad
esempio, i bilanci di “Aeronautica Macchi” non sono disponibili se non dal 1993
(sia a Varese che a Milano; si tratta delle versioni on-line), fortunatamente quelli
di Aermacchi ci sono tutti, dal 1980, se non con qualche piccola mancanza. Per
fortuna si sono rintracciati i fascicoli di bilancio che, dal 1974, la Macchi
realizzava per la distribuzione ai vari stakeholders; si tratta però di fascicoli
estremamente sintetici che riportano pochi ed essenziali commenti alle poste di
bilancio.
Gli altri atti della Camera di Commercio sono anch’essi ricchi di “tagli” nelle
parti eccedenti gli obblighi informativi della società, e le versioni integrali sono
state per noi naturalmente inaccessibili.
Altro materiale, di provenienza accademica, è stato gentilmente messo a
disposizione dalla Società: esso è stato utile soprattutto nella stesura delle pagine
relative agli anni più recenti.
Infine, un apporto determinante è giunto da alcune interviste svolte a persone che
in Macchi hanno lavorato per anni: contributi per molti aspetti illuminanti che
hanno permesso di arricchire e di mettere in ordine l’insieme di materiali raccolti.
Per le parti dedicate alla storia dell’industria aeronautica in Italia si è potuto
contare invece su alcuni riferimenti più “consistenti” ed organici, anche se lungi
dall’essere esaurienti.
VIII
Per raggiungere una maggior profondità su tale materia, a queste fonti si è dovuto
affiancare quanto si è trovato in articoli di stampa, documenti parlamentari,
relazioni dell’Aia
1
, dati statistici, resoconti di interventi su conferenze in tema.
Ciò per tracciare con un minimo di completezza il profilo di un settore verso il
quale il contributo della storiografia non è stato mai particolarmente generoso,
eccezion fatta per pubblicazioni di natura tecnica o antecedenti il periodo da noi
esaminato.
1
Associazione Industrie Aerospaziali.
1
Introduzione
2
Lo scopo di tale sezione è quello di introdurre l’oggetto della presente ricerca: le
vicende che hanno caratterizzato l’apparato dell’industria aeronautica italiana, e
dell’Aeronautica Macchi in particolare, a partire dagli anni ’70. Per fare questo, è
opportuno procedere ad una sintetica esposizione dell’itinerario compiuto da tali
protagonisti a partire dal secondo dopoguerra: punto di inizio, quindi, che esclude
la trattazione della storia del settore fin dalle sue origini, eccetto un doveroso
excursus sulla Macchi fin dal 1905, ma che può essere considerato come base da
cui partire in quanto posto alle soglie di una nuova era, per ragioni che
chiaramente emergeranno in seguito.
L’eredità del conflitto
Nel 1938 la produzione dell’industria aeronautica italiana, per la sola parte
concernente la cellula dell’aeromobile, rappresentava il 7% del valore
complessivo della produzione dei vari settori dell’industria meccanica nazionale,
così come appare dai seguenti indici percentuali elaborati dall’IRI:
Valore della produzione dei diversi settori dell’industria meccanica nazionale nel 1938
Costruzioni navali 8,9%
Aeromobili 7,0%
Autoveicoli 16,5%
Materiale rotabile e ferroviario 3,8%
Macchine motrici, pompe, compressori 7,5%
Macchine per l’industria e l’agricoltura 3,6%
Macchine utensili ed utensileria 1,7%
Meccanica di precisione ed ottica 1,9%
Macchine ed apparecchi elettrici 8,5%
Impianti industriali vari e carpenteria 8,5%
Fonderie, fucinati, stampati, molle e bulloneria 8,5%
Armi e munizioni 12,0%
Meccanica varia 11,6%
Totale dell’industria meccanica 100,0%
Fonte: P. BEGHI, Prospettive dell’industria aeronautica, in «Rivista Aeronautica» n. 9/1948,
Associazione Culturale Aeronautica, Roma.
3
Secondo il censimento industriale del 1937-40, su 3.200.000 addetti all’industria
ben 640.000 erano impiegati nella meccanica, di cui 56.474 occupati
nell’industria aeronautica in 32 esercizi industriali.
Alla fine della guerra l’industria meccanica italiana risultava complessivamente
in buone condizioni produttive; i danni e le distruzioni maggiori legati al
conflitto si erano registrati nei cantieri navali e nelle industrie meridionali, ma in
totale l’entità dei danni subiti non aveva superato il 15% del valore patrimoniale
pre-bellico. Non faceva eccezione il comparto aeronautico, che conservava una
capacità produttiva del 60-70 per cento di quella d’anteguerra, ma che vide la sua
attività praticamente annullata a causa dell’esito del conflitto e della conseguente
mancanza di ordinativi da parte governativa. A ciò si sommava un consuntivo
degli ultimi venti anni di attività comunque deludente, poiché di fronte alle
esigenze belliche prese corpo il fallimento della «politica dei primati» perseguita
dal governo fascista nei due settori nei quali si era concentrato lo sforzo
finanziario, tecnologico, politico e propagandistico: quello aeronautico e quello
navale. In regime di politica autarchica, alla progettazione ed alla costruzione dei
transatlantici di prestigio e dei prototipi avanzati di aereo ed alle affermazioni
sportive degli anni ’30, l’industria navale e quella aeronautica si mostrarono
incapaci di far seguire una produzione qualitativamente e quantitativamente
adeguata ai livelli di scala imposti dal conflitto. Agli oltre 113.000 aerei prodotti
dalla Germania (di cui 92.600 da combattimento) ed agli oltre 150.000 della
Gran Bretagna (105.000 da combattimento), nel periodo gennaio 1940 - aprile
1943 l’industria italiana fu in grado di contrapporre poco più di 10.500 aerei
(7650 da combattimento) (1), mentre grande era la dipendenza politico-militare
nei confronti dell’alleato tedesco, come testimonia ad esempio la necessità di
importare e produrre su licenza dalla Germania i motori aerei più potenti (con
cilindri in linea e raffreddamento a liquido) da utilizzare in luogo dei tradizionali
motori radiali di sviluppo nazionale (cilindri a stella e raffreddamento ad aria).
4
Anche da quanto esposto fin qui, è stato osservato in proposito (2) che nel
periodo 1939-1943 lo sviluppo tecnologico in questo campo di altri paesi (Usa,
Gran Bretagna, Germania in testa) fu enormemente maggiore del nostro; da un
punto di vista strettamente legato alle caratteristiche tecniche e prestazionali della
cellula, si può invece ricordare che molte realizzazioni italiane si dimostrarono in
grado di misurarsi alla pari con le macchine alleate (soprattutto aerei da caccia),
ed in alcuni casi furono le migliori in assoluto prodotte durante il conflitto (come
i caccia della “serie 5”) (3); ma le realizzazioni più riuscite furono troppo poche e
comparvero troppo tardi nel teatro operativo, fondamentalmente a causa di
requisiti tecnici che, dettati dal Ministero dell’Aeronautica, recepirono con grave
ritardo le reali necessità per affrontare ad armi pari il nemico.
Conseguenze più gravi sul patrimonio tecnologico italiano si ebbero nei sei o
sette anni di quasi completa inattività susseguenti al conflitto, nei quali venne a
crearsi un gap che arrestò l’evoluzione della preparazione progettistica ad un
livello di pesante arretratezza rispetto alle industrie statunitensi ed inglesi.
Le ragioni della scarsa produttività dimostrata durante la guerra (da ricercare non
soltanto in termini di valore assoluto della produzione di velivoli, quanto
piuttosto nel basso gradiente di crescita) vanno ricondotte all’incapacità italiana
di mobilitare tutte le risorse disponibili e soprattutto di utilizzarle nel modo
ottimale. Mancò una pianificazione generale efficace da parte della Stato, che
lasciò le imprese eccessivamente indipendenti ed a volte in esasperata
concorrenza fra loro per aggiudicarsi le commesse statali, proponendo prodotti
simili ed in competizione. Per rimediare a tale situazione, nel 1942 il Ministero
dell’Aeronautica propose la costituzione di «gruppi di produzione», cioè di
consorzi di aziende operanti nello stesso settore di prodotto (motori, bombardieri,
caccia, etc.), ma il progetto nacque tardi e non ebbe effettiva attuazione.
Per quanto riguarda le caratteristiche degli impianti, dal censimento del 1939 si
apprende che, per l’industria meccanica in generale, il 52% delle macchine
utensili in uso in Italia era stato costruito prima del 1925, il 26% tra il 1925 ed il
5
1934; e certamente né gli ampliamenti di impianti durante la guerra né le
macchine utensili introdotte nell’immediato dopoguerra avevano potuto fare
accantonare tutte quelle vecchie di 30-40 anni. Ciò che rimaneva di tali impianti
fu quindi ereditato negli anni successivi, ed ancor più criticabili furono giudicati i
metodi seguiti nell’usarli, secondo quanto emerse nel 1952 dall’indagine di una
commissione parlamentare presieduta dal ministro dei Trasporti Guido
Corbellini. L’industria meccanica mancava in generale di tutti quegli accessori in
genere di grande aiuto al lavoratore nell’esercizio dei suoi compiti; alcune
tecniche di lavorazione erano poco o per nulla meccanizzate e aggiornate, con
conseguente ricorso al lavoro manuale con i connessi alti costi.
Produzione aeronautica 1939-1945 (in migliaia di velivoli)
1939 1940 1941 1942 1943 1944 1945
Germania 8,3 10,7 12,4 15,4 24,8 40,6 7,5
Giappone - - 5,1 8,9 16,7 28,2 11,1
Italia 1,8 3,3 3,5 2,8 1,9 0,3 0,1
Gran Bretagna 7,0 15,0 20,1 23,7 26,3 26,5 11,0
Urss - - 16,0 25,0 35,0 40,0 25,0
Usa 3,8 6,0 19,4 47,8 85,9 96,3 47,5
Fonte: ISVET, L’industria aeronautica in Italia, Documenti Isvet n. 24, Roma 1969
Addetti dell’industria aeronautica - cellule
1940 1947
Gruppo Caproni 15.912 200
SIAI 7.700 600
Macchi 2.324 400
Breda 3.941 240
Aeritalia 4.563 1.920
Piaggio 2.350 200
Varie 19.684 440
Totale 56.474 4000
Fonte: P. BEGHI, Prospettive dell’industria aeronautica, in «Rivista Aeronautica» n.9/1948,
Associazione Culturale Aeronautica, Roma.
6
Addetti ed aziende dell’industria aeronautica per campo di attività
Campo di attività: cellule Aziende Addetti
Gruppo Caproni 10 18.000
Gruppo Siai 3 12.000
Gruppo Fiat 2 10.000
Gruppo Iri 5 10.000
Gruppo Breda 5 9.000
Gruppo Macchi 3 5.000
Gruppo Piaggio 2 5.000
Gruppo Sai 5 5.000
Totale 35 74.000
Campo di attività: motori Aziende Addetti
Gruppo Caproni 4 14.000
Gruppo Iri 6 14.000
Gruppo Piaggio 6 7.000
Gruppo Fiat 1 6.000
Totale 17 41.000
Fonte: ISVET, L’industria aeronautica in Italia, Documenti Isvet n. 24, Roma 1969.
N.B.: vi erano inoltre 4 aziende operanti nelle cellule e 2 nei motori ed un imprecisato numero negli
equipaggiamenti. Il personale totale pertanto ammontava a circa 200.000 unità
L’immediato dopoguerra
Dalla fine del conflitto al 1949, l’industria fu impegnata in attività di riparazione
di aeroplani militari superstiti e nella riproduzione di vecchi modelli risalenti al
periodo bellico; non mancarono alcuni tentativi di ripresa nella costruzione di
prototipi di nuovi apparecchi, ma sia per le modeste caratteristiche tecniche, sia
per l’inadeguatezza delle risorse disponibili (che spesso non consentivano di
sostenere una produzione in serie), poche fra queste realizzazioni ebbero un
seguito, e comunque molto limitato. Alcune aziende furono liquidate (alcune del
Gruppo Caproni, Reggiane, Ducati, Isotta Fraschini), altre cessarono la
produzione aeronautica, mentre altre la ridimensionarono: la Macchi produsse
motocarri, la Siai mobili metallici e vagoni ferroviari, l’Agusta motocicli e
macchine agricole, la Piaggio motoscooter, la Fiat carrozzerie ed attrezzature per
auto.
Il clima di profonda incertezza in merito alle prospettive dell’industria
aeronautica per gli anni a venire era legato ai dubbi sul destino che attendeva
7
l’Aeronautica Militare Italiana. Ad essa spettava il ruolo chiave di assicurare,
tramite le proprie commesse, un minimo continuativo di produzione ed uno
stabile funzionamento degli impianti su cui l’industria potesse contare per
recuperare il tempo perduto, ma trovava seri ostacoli nei limiti al riarmo italiano
imposti dal trattato di pace (che fissavano in 350 il numero massimo di velivoli
schierabili dall’Arma azzurra) e nelle esigui risorse che il Bilancio della Difesa
destinava all’ammodernamento (nell’esercizio finanziario 1948-49 il Capitolo
«Nuove costruzioni aeronautiche per il rinnovo del materiale di volo» venne
abolito (4)). La rinascita dell’apparato industriale militare in Italia fu possibile
solo grazie all’adesione al Patto Atlantico ed alla Nato, che ebbe come
conseguenza la decadenza delle clausole limitative del trattato di pace e
l’approntamento di uno strumento militare idoneo ai nuovi compiti strategici
imposti dalla «difesa del mondo libero» e da una crisi politica, quella coreana,
che rischiava di scatenare una terza guerra mondiale.
Le fasi del programma di riarmo si mossero fra non poche difficoltà di ordine
politico, finanziario e di diritto internazionale che in questa sede non è opportuno
dilungarsi ad esporre; basti ricordare che anche grazie ai consistenti aiuti Usa
all’Italia (che nel periodo 1950-1960 raggiunsero un totale di 2.210 miliardi di
lire
1
, fra aiuti economici, commesse O.S.P., aiuti e servizi militari M.D.A.P.) (5),
si definì un programma quadriennale di potenziamento della difesa 1950/51 -
1953/54, all’interno del quale trovò piena attuazione un «piano di ristrutturazione
e di ridimensionamento dell’industria» che l’Aeronautica Militare aveva definito
e già avviato nel 1949, finanziandolo in parte con fondi extra bilancio normale
(6). Nella formulazione di tale piano, due soluzioni teoriche si presentarono in
alternativa: indirizzare l’industria verso una politica di prototipi di produzione
nazionale oppure verso la produzione di velivoli su licenza e, nel contempo,
acquistare i velivoli occorrenti ai reparti di volo nel numero minimo
1
In lire del 1992.
8
indispensabile. Non confacente alle disponibilità finanziarie ed alla preparazione
italiana (lo dimostrarono i tentativi dell’Aerfer “Sagittario” e “Leone” e dei Fiat
G.80 e G.82), la prima soluzione venne ben presto accantonata in favore della
seconda; si puntava così a colmare quel gap in termini di know-how a cui si è già
accennato ed a preparare l’industria ad operare, in futuro, in programmi di
collaborazione internazionale per la realizzazione di sistemi d’arma. Così, nel
1950 veniva avviata l’operazione “Vampire”; tale tappa segna, è proprio il caso
di dirlo, l’inizio del cammino di rinascita dell’industria aeronautica italiana. Essa
consisteva di un piano tecnico di produzione su licenza di un velivolo da caccia a
getto di progettazione della ditta inglese De Havilland (la scelta inglese fu
obbligata rispetto alla concorrenza americana poiché prima dell’arrivo degli aiuti
statunitensi solo per tale soluzione si trovò un sistema di finanziamento, basato
su un credito che l’Italia vantava verso la Gran Bretagna per ottanta milioni di
sterline dell’epoca; ciò a testimonianza, se ancora ce ne fosse bisogno, delle
condizioni in cui versava all’epoca il Bilancio della Difesa). Il consorzio di
imprese Sicmar, costituito appositamente per tale operazione, acquistò le licenze
di produzione dei velivoli e dei turbogetti, nonché attrezzature e macchinari
moderni per la produzione, per la quale fu interessata la Fiat - capocommessa - e
la Macchi.
Una fotografia della situazione dell’industria in questi anni può essere ricavata
dai lavori di una Commissione parlamentare di studio su tale materia, nominata
nel 1948 e presieduta dall’allora sottosegretario alla Difesa sen. Giuseppe Caron
(un nome che ritornerà più volte in seguito). Secondo le conclusioni a cui si
giunse in tale sede, datate 1952, l’industria aeronautica era in condizione di
produrre cellule di aeroplani di piccolo e medio tonnellaggio a medio raggio
d’azione, motori alternativi di moderata potenza e parte degli accessori e degli
strumenti. Per velivoli e motori di maggiore importanza e parte degli accessori e
strumenti, esisteva una possibilità potenziale di produzione, che sarebbe divenuta
effettiva solo dopo un ulteriore periodo di preparazione, esperienza ed
9
aggiornamento, da conseguire con maggior facilità ricorrendo ancora alla
produzione su licenza.
Proprio in tale direzione si continuò con i successivi programmi che
beneficiarono fra il 1952 ed il 1954 dell’assistenza MDAP ed OSP: produzione
su licenza dei caccia North American F-86K, e relativi motori, da parte di Fiat,
ricambi e manutenzione degli addestratori a getto Lockheed T-33 per la Macchi,
dei motori Lycoming per la Piaggio, dei caccia Republic F-84G per l’Aerfer
(nata nel 1949 dalla fusione fra IMAM ed Officine di Pomigliano per costruzioni
aeronautiche e ferroviarie).
In questi anni si pongono le basi della moderna struttura del settore su tre
principali linee di sviluppo: la capacità di progettare e costruire autonomamente
addestratori e velivoli da attacco leggero, l’attività elicotteristica in stretta
collaborazione con gli Usa, la partecipazione a programmi militari Nato per la
realizzazione di velivoli da combattimento. Grazie infatti ai programmi sopra
citati, il primo velivolo a getto moderno di concezione italiana che raggiunse la
produzione di serie fu il Fiat G.91 (primo volo nel 1956; evidente derivato
dell’F86K, fu l’unico velivolo in grado di rispondere ad una specifica Nato per
un caccia tattico leggero, adottato in varie versioni da Italia, Germania e
Portogallo); nel dicembre 1957 volava l’addestratore a getto Aermacchi MB.326,
progettato interamente dalla ditta varesina senza il supporto di collaborazioni
straniere e con caratteristiche che lo posero al vertice della categoria e che furono
alla base del suo straordinario successo sui mercati internazionali.
Dal 1953 l’Agusta inizia la costruzione su licenza degli elicotteri americani della
Bell; il successo di tale nuovo tipo di aeromobile, ancora poco diffuso in Italia,
coincide con l’abbandono del settore ad ala fissa per la società di Cascina Costa.
La strada della collaborazione europea inizia nel 1960 con l’adesione dell’Italia
al “Consorzio F-104G” costituito insieme a Germania, Olanda e Belgio per la
costruzione su licenza in Europa del motore e della cellula del caccia
statunitense, destinato ad ammodernare la difesa aerea di tali paesi: esso vide in