Introduzione
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quindi la pensatrice spagnola in questa discesa per scoprire un’Antigone nuova e
arricchirci di quest’esperienza mistico-filosofica.
Con un altro salto temporale ci avviciniamo ai tempi nostri. Siamo nel 1993, appena
dodici anni fa, in Francia: qui Mathilde Monnier, rinomata coreografa di danza
contemporanea, creava la “sua” Antigone. “Sua” perché Antigone non è mai la stessa,
ognuno di noi la vive, la legge, la interpreta in modo diverso, con i propri pesi e le
proprie misure. Mathilde Monnier sceglie la disciplina su cui lavora da una vita, la
danza contemporanea appunto, e ci sconvolge con il suo Pour Antigone. Con il suo
aiuto (vedi intervista in Appendice) e con un’attenta analisi, nel terzo capitolo
cercheremo di cogliere il messaggio subliminale della sua lettura per farla nostra, anche
se sicuramente diversa.
Risaliamo in superficie con un bagaglio nuovo e nel quarto capitolo mettiamo a
confronto le due Antigoni che abbiamo incontrato e conosciuto meglio. L’analisi
comparata che ne emerge non nasce soltanto per scoprire similitudini, differenze e
contraddizioni, quanto piuttosto per vedere come due donne diverse, in periodi storici e
paesi diversi, attraverso discipline diverse, abbiano vissuto il rapporto intimo con
l’affascinante personaggio di Antigone. I risultati, è evidente, non possono che essere
diversi tra loro, nonché ben lontani dall’antica versione greca. Il movente, tuttavia, è lo
stesso.
Quest’analisi, questo viaggio attraverso Antigone, è del tutto personale, senza pretese
di esaustività né di univocità. Qualcuno rimarrà indifferente, qualcun altro, forse, ne
uscirà cambiato. Non ci resta che iniziare. Allacciate le cinture, via, si parte.
Il mito di Antigone: da Sofocle ai giorni nostri
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1. IL MITO DI ANTIGONE: DA SOFOCLE AI
GIORNI NOSTRI
Sommario: 1.1 L’Antigone di Sofocle 1.2 Caratteristiche dei miti 1.3 Antigone, un mito dal fascino
immortale: perché? 1.4 Le Antigoni 1.5 Antigone nella storia 1.5.1 Antigone oggi
1.1 L’Antigone di Sofocle
Antigone, chi era costei? Di vaga eco manzoniana sono state le reazioni di molti nello
scoprire il soggetto di questa tesi. Ormai accantonati da tempo i manuali di storia,
filosofia e letteratura, Antigone rimane per i meno aggiornati un pallido ricordo, un
nome privo di collegamenti con chicchessia. E anche se per altri Antigone rievoca
invece una miriade di riferimenti con la storia passata presente e futura, con l’arte, la
musica e lo spettacolo, cerchiamo comunque di rispondere a questa domanda: chi è
Antigone?
Nell’omonima opera di Sofocle, drammaturgo greco vissuto nel V secolo a.C.,
Antigone è l’eroina tragica, la protagonista di un dramma al cui centro sta l’opposizione
delle leggi dello stato e di quelle della famiglia, due poteri sociali ugualmente legittimi e
quindi inevitabilmente destinati al conflitto (Dario Del Corno, 1982: 30). I dati in nostro
possesso ci fanno supporre che Sofocle si sia ispirato alla leggenda della famiglia reale
dei Labdacidi che ha origine nel XVII secolo a.C., epoca dell’edificazione della città di
Tebe. Successivamente, nel XIII secolo a.C., avrebbe avuto luogo, secondo la storia, la
lotta fratricida tra Eteocle e Polinice per la successione al trono dopo la morte del padre
Edipo. L’epopea sulla storia dei Labdacidi fa la sua comparsa già nel VII secolo a.C. ma
sarà soltanto nel 440 a.C. che Antigone entrerà in scena per non abbandonare più il suo
ruolo di eroina tragica (Armel, 1999: 7).
Personaggio di creazione sofoclea, figlia ma anche sorellastra di Edipo, Antigone porta
su di sé tutto il peso di una tragedia familiare: nata da una relazione incestuosa tra il
Il mito di Antigone: da Sofocle ai giorni nostri
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patricida Edipo e la madre Giocasta, non può scampare alla maledizione lasciatale in
eredità. Alla morte del padre i suoi fratelli, Eteocle e Polinice, lottano sino alla morte per
ottenere il completo dominio della città che passa così nelle mani dello zio, Creonte.
Secondo un editto immediatamente emesso dal nuovo re, Polinice, in quanto usurpatore,
non può avere diritto alle onoranze funebri, rito sacro che spetta invece al fratello
Eteocle. Partendo da questo quadro di catastrofi e infortuni, Sofocle introduce il
personaggio di Antigone: giovane, pura, dalle ferme intenzioni ed estremamente fedele
agli ideali familiari, pronta a sacrificare la propria vita in nome della pietà e dell’amore
nei confronti della famiglia attraverso un gesto autentico che dà finalmente alla tragica
dinastia dei Labdacidi una dimensione più umana e sensibile (Armel, 1999: 20). Un
simile personaggio non può certo accettare un editto che vieta la salvezza dell’anima al
fratello prediletto: incurante di qualsiasi rischio, Antigone sceglie di seguire il proprio
impulso obbedendo alle leggi non scritte degli dèi dell’Ade piuttosto che ascoltare le
sagge parole della sorella Ismene, più riflessiva e ligia al potere:
Ma bisogna riflettere su questo, che siamo nate donne, sì da non poter
lottare contro uomini; e poi che, essendo sottoposte a chi è più forte,
dobbiamo obbedire a questi ordini e ad altri ancora più dolorosi.
(Sofocle, ed. 1982: 263)
Sicura della propria scelta, dando prova di una granitica determinazione, Antigone
dimentica di essere una donna e non esita a portare avanti in solitudine la propria
decisione, seguendo quello che è per lei un richiamo ben più importante della legge del
sovrano. Autonoma nel suo darsi una propria legge di fedeltà alla famiglia, va così
incontro a una morte volontaria (Guyomard, 1992: 44):
io lo seppellirò, e per me sarà bello fare questo, e morire. Amata giacerò
insieme a lui che io amo, avendo commesso un santo crimine. A quelli di
sotterra infatti io devo compiacere per più tempo che a quelli di qui:
poiché là giacerò per sempre. E tu, se ti pare, abbi pure in dispregio ciò
che gli dèi onorano.
(Sofocle, ed. 1982: 263)
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Figlia ribelle di un padre ribelle (Armel, 1999: 21), proprio come Edipo anche
Antigone pecca di hybris, di esagerazione, e gettando una manciata di terra sul corpo
ormai esangue di Polinice per compierne le esequie, l’eroina si rivela capace di un gesto
coraggioso che scatena, come previsto, le ire di Creonte, il tiranno. Antigone, sola nel
suo gesto, vuole essere altrettanto sola nel suo destino, rifiuta pertanto seccamente la
partecipazione di Ismene che allontana definitivamente con queste parole: «Tu scegliesti
di vivere, io di morire» (Sofocle, ed. 1982: 295). Neppure per un istante pensa di
rinnegare il proprio gesto per salvarsi: ha seppellito il fratello perché egli ne aveva
bisogno, e se facendolo è contravvenuta alle leggi della polis, allora queste leggi sono
necessariamente ingiuste (Molinari, 1977: 220).
Creonte non può tollerare un simile affronto da parte di una donna, per di più giovane:
sordo alle rivendicazioni di Antigone in nome dell’amore, la condanna a morte, dopo un
«dialogue des sourds» privo di una comunicazione vera e propria (Steiner, 1990: 276).
ANTIGONE: Non sono nata per condividere l’odio, ma l’amore.
CREONTE: E allora, se devi amare, va sotterra e ama quelli di là; a me,
finché vivo, non comanderà una donna.
(Sofocle, ed. 1982: 293)
Frattanto il coro, composto da anziani e nobili tebani, accompagna e commenta questi
momenti cruciali svolgendo un ruolo capitale nella tragedia sofoclea. Tuttavia, la
decisione di Creonte è ferma almeno quanto quella di Antigone, di cui diventa infatti
non solo l’antagonista, ma anche l’alter ego.
Ciascuno legge se stesso nell’altro, e la lingua della tragedia indica questa
simmetria fatale. (…) Le loro rispettive definizioni della giustizia sono, in
quel caso particolare, inconciliabili. Ma, nella loro ossessione legalistica,
sono quasi il riflesso l’uno dell’altra.
(Steiner, 1990: 205)
In questi due personaggi fondamentali, che potremmo definire coprotagonisti, vediamo
esemplificarsi in modo emblematico non soltanto due diverse concezioni della giustizia,
ma anche il conflitto storico tra Stato e religione, rapporti civili e rapporti privati,
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interessi pubblici e personali, e soprattutto uomo e donna, giovani e vecchi (Molinari,
1977: 246).
Nell’ottica del conflitto generazionale si inserisce anche il dialogo tra Creonte e il
figlio Emone, promesso sposo di Antigone, che tenta inutilmente di aprire gli occhi al
padre, accecato dall’ira al punto di non rendersi conto del fatto che l’intera città piange
l’imminente morte della fanciulla. Ancora una volta il sovrano ribadisce l’importanza di
«non lasciarsi assolutamente vincere da una donna» (Sofocle, ed. 1982: 303). La sua
decisione definitiva salva Ismene e condanna Antigone a una morte lenta, murata viva
«in un antro di pietra, ponendole vicino quanto cibo basti a evitare il sacrilegio» (ed.
1982: 309).
Antigone accetta la morte in nome di imperativi di stampo kantiano che vanno ben al
di là della sua semplice volontà. Tuttavia, chiedendosi invano quali dèi abbia offeso,
chiama a testimone della sua ingiusta fine il Coro e intona un amaro lamento (Albini,
1988: XI):
O città, o della città
doviziosi abitanti;
e voi, fonti dircee, e piana
di Tebe dai bei carri, voi tuttavia
chiamo a testimoni,
come incompianta dai miei, per quali leggi,
vado verso il carcere fatto a tomba
per una sepoltura mai vista.
Ahi infelice,
né tra gli uomini né tra i defunti
abiterò, non con i vivi, non con i morti!
(Sofocle, ed. 1982: 313-315)
A questo punto fa il suo ingresso Tiresia, il veggente cieco, che prevede atroci
sventure per Creonte. Il tiranno dapprima lo allontana, tacciandolo di avido e bugiardo,
dopodiché ritorna sulla propria decisione. Ma è tardi. Gli eventi si susseguono qui a
ritmo incalzante trasmettendo un senso d’angoscia per l’atmosfera di imminente
tragedia. Creonte si attarda per compiere immediatamente le esequie di Polinice e giunge
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così troppo tardi alla tomba di Antigone. Scopriamo così, indirettamente, il suo suicidio
e il conseguente suicidio di Emone che, dopo aver mancato il padre con la spada, la
rivolge contro se stesso. Ma «rien ne s’arrête» (Derrida, 1974: 196) e la tragica fine di
Creonte non finisce qui: ecco giungere un messaggero con la notizia del suicidio di
Euridice, moglie del sovrano troppo fragile per sopravvivere alla morte dell’unico figlio
(Albini, 1988: XI). Caduto «da una posizione di supremo potere alla miseranda follia
dell’impotenza» (Del Corno, 1982: 31), Creonte, annientato dal dolore per la sua
comprensione tardiva, invoca la morte tra le lacrime di fronte all’ostilità del Coro. I ruoli
sono ormai invertiti, Creonte è Antigone, nient’altro che «un cadavre qui marche»
(Guyomard, 1992: 111).
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1.2 Caratteristiche dei miti
La storia di Antigone potrebbe finire qui, con questa invocazione di Creonte costretto
a morire due volte. Ma se così fosse molto probabilmente non saremmo neppure qui a
raccontarla ancora una volta, l’ennesima. Al contrario, come osserva giustamente
George Steiner nella sua opera dedicata alle innumerevoli versioni e riletture della
tragedia sofoclea, Le Antigoni, «Il mito di Antigone passa senza esitare attraverso più di
due millenni» (Steiner, 1990: 118) ed è proprio la sua natura di mito a permetterne
un’eterna giovinezza.
Il mito è insomma una norma, lo schema di un fatto avvenuto una volta
per tutte, e trae il suo valore da questa unicità assoluta che lo solleva fuori
dal tempo e lo consacra rivelazione.
(Pavese, cit. in Battaglia, 1961: 10, 609)
È proprio per il fatto che le funzioni del mito non sono percepite nel luogo e nel tempo
in cui si creano, bensì sono codificate esclusivamente dall’esterno, che il mito riesce a
pervadere molti aspetti della società e della cultura. Analizzando il mito quindi, si cerca
di far luce su molti aspetti della vita individuale e sociale (Microsoft Encarta
Enciclopedia, 2002). In altre parole, la tragedia vissuta dai vari personaggi della
mitologia universale presenta agli occhi dell’umanità delle affinità con la Storia stessa:
molto spesso, quindi, il mito si arricchisce di allusioni più o meno celate all’attualità. Sta
allo spettatore, o al lettore, interpretare il messaggio nascosto al di là del mito, evitando
le spiegazioni troppo affrettate, e cercando piuttosto verità e insegnamenti capaci di
guidarci attraverso gli sconvolgimenti del mondo moderno (Fessier, 1998). Da qui il
bisogno quasi fisiologico che ha l’uomo moderno di queste antiche eppur sempreverdi
leggende, uniche capaci di salvare «tutte le forze della fantasia (…) dal loro vagabondare
senza direzione» (Nietzsche, 2001: 161). Privato dei propri miti l’uomo si sentirebbe al
contrario sradicato e quindi, «eternamente affamato» (2001: 162), non avrebbe altra
soluzione se non quella di cercare nelle più remote antichità le origini della propria
comunità. Ancora oggi, del resto, possiamo facilmente notare come i libri del passato,
allontanandosi dall’immediatezza del “qui, ora”, ci permettono di essere più obiettivi nei
nostri giudizi sull’andamento delle cose nel mondo odierno. La memoria storica e, con
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essa, la memoria mitica, ci permettono di riflettere con la dovuta distanza sul nostro
agire, atteggiamento fondamentale per compiere scelte etiche e politiche volte al buon
funzionamento della società (Beccaria, 2004: 1).
«Nous sommes dévorés par les mythes» (Balzac, cit. in Caillois, 1938: 153), eppure
questa particolare attenzione tributata ai racconti mitici non è affatto una moda recente:
dalla loro prima comparsa in poi queste antiche leggende hanno accompagnato la civiltà
occidentale sotto forma di verità espresse in termini «immaginifici e vivaci» (Galifi,
1998: 1) non razionali, differenti da quelli canonici:
Et de même que les mathématiciens disent que l’arc-en-ciel est une image
du soleil diversement colorée par la réflexion de ses rayons dans la rue,
de même le mythe que je viens de te narrer est l’image d’une certaine
vérité qui réfléchit une même pensée dans des milieux différents.
(Plutarco, cit. in Caillois, 1938: 31)
Questi «milieux différents», altro non sono se non i vari periodi storici, ciascuno con le
proprie caratteristiche e i propri problemi che influenzano inevitabilmente letture e
interpretazioni dello stesso mito. Tuttavia, si chiede Steiner,
In che modo nascono i miti – se è davvero giustificata questa nozione di
inizio in un tempo osservabile? Quali processi di canonizzazione e di
rifiuto sono all’opera nel determinare l’accettazione e la trasmissione di
certi miti e l’obliterazione di altri?
(Steiner, 1990: 129)
È infatti innegabile che non tutti i miti hanno la stessa fortuna nel tempo. È come se
alcuni personaggi, alcune immagini, godessero di contenuti particolarmente significativi,
con una capacità evocativa altamente superiore alla norma. Questi eroi di particolare
successo continuano a gettare la propria ombra sull’immaginazione umana, secoli dopo
la propria morte, con effetti di esaltazione anche sugli individui moderni, che tendono a
proiettarsi sull’eroe per risolver i conflitti psicologici tipici della loro civiltà e società
(Caillois, 1938: 23-26). Non a caso, del resto, «l’étude de la mythologie peut devenir un
procédé de prospection psychologique» (1938: 33), e naturalmente sarà Freud l’esempio
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più emblematico con il suo studio del complesso di Edipo: nient’altro che una lettura
della scena mitologica come schema comportamentale dei bambini nei confronti delle
figure genitoriali. Nel vissuto psicologico descritto dall’inventore della psicanalisi, ciò
che apparteneva a una realtà nel mito si tramuta in una fantasia, continuando tuttavia a
mantenere un estremo senso reale (Rossi, 1999). Accanto alla psicologia moderna, anche
l’antropologia sociale, le forme letterarie e artistiche attribuiscono al concetto di
“mitico” un ruolo fondamentale, con un continuo ritorno a una serie limitata di miti-
chiave (Steiner, 1990: 129-130). Di fronte a questo continuum nostalgico dei miti greci
viene da chiedersi: «È così difficile inventare “storie” nuove?» (1990: 142).
Ci sono altre culture che non mostrano nessuna forza di ripetizione
paragonabile, né fanno in modo analogo ricorso all’auctoritas di un
classico precedente. Ancora più sorprendente è il fatto che il riflesso della
ricapitolazione sia riuscito a sopravvivere alle spinte radicali del
nichilismo, dell’epurazione e dell’innovazione apocalittica che hanno
avuto una parte così decisiva nelle crisi dei moderni.
(Steiner, 1990: 141)
Il miracolo greco continua quindi a esercitare su di noi un incredibile fascino con la
complicità del «carattere singolarmente ripetitivo del pensiero e dello stile occidentale
nella sua totalità» (1990: 141). Ispirandosi agli antichi, gli scrittori contemporanei
dimostrano in realtà chi sono davvero: la ripresa dei miti universali permette loro di
diventare ciò che già sono dimostrando inoltre che non hanno paura né del vecchio né
del nuovo (Fessier, 1998: 8). Il frutto di questa dedizione alla ricorrenza e alla
ripetizione è una sensazione di sovrapposizione e congruenza tra passato e presente,
identità che garantisce la continua vitalità dei classici (Steiner, 1990: 317):
Ben lungi dal suonare arcaici o inafferrabili, i gesti, le parole e le
immagini di Omero, Eschilo o Sofocle ci colpiscono come
sorprendentemente pertinenti, perché adombrano, simboleggiano ed
esprimono senza veli la nostra condizione presente. Sotto la pressione
della “pertinenza”, si annulla la complessa mappa delle distanze tra
lettore e testo classico, da cui dipende l’interpretazione responsabile.
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(1990: 141)
È altresì evidente che tra gli stessi miti greci si può distinguere una gerarchia: alcuni,
quali ad esempio Mopso e Bellerofonte, sono pressoché sconosciuti, altri al contrario,
quali Prometeo, Edipo e, appunto, Antigone, hanno dato luogo a innumerevoli versioni
che stanno a dimostrare che gli uomini, almeno in certi loro aspetti, sono caratterizzati
dal pensiero mitico (Eliade, 1963: 223).
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1.3 Antigone, un mito dal fascino immortale: perché?
Secondo Steiner, che ha studiato a fondo la questione, è il carattere atemporale di un
conflitto senza via d’uscita, tipico della tragedia greca, che ci fa identificare la nostra
condizione con quella tragica (Steiner, 1990: 307). Tuttavia ciò non basta certo a
spiegare
perché Antigone, insieme a una manciata di altri personaggi – Orfeo,
Prometeo, Eracle, Agamennone e il suo clan, Edipo, Odisseo, Medea –
costituiscono il codice essenziale di referenza canonica per l’intelligenza
e la sensibilità di tutta la cultura occidentale. Non ci spiega la dinamica
del tema antico e la variazione costante della fonte greca e delle
ricomposizioni successive che, sino a oggi, sono state fondamentali per la
nostra arte e letteratura. Perché un centinaio di “Antigoni” dopo Sofocle?
(1990: 141)
Alcuni osservano che anche in tempi più recenti, dopo Cristo, la civiltà occidentale ha
assistito alla produzione di personaggi emblematici e di trame archetipiche con analoghe
capacità di proliferazione. Gli esempi più classici, a questo proposito, sono Faust,
Amleto, Don Giovanni e Don Chisciotte. Tuttavia è difficile trovare un’opera letteraria
capace di suscitare l’interesse filosofico e poetico di cui è stata oggetto l’Antigone alla
fine del XVIII secolo e durante il XIX secolo.
l’Antigone di Sofocle non è un “testo qualunque”. È una delle azioni
durature e canoniche nella storia della nostra coscienza filosofica,
letteraria e politica.
(1990: 9)
Neppure l’immensa serie di commenti, variazioni e imitazioni dell’Amleto di
Shakespeare (che pare essere l’unica possibile pietra di paragone) può tuttavia
uguagliare l’ossessione di Hegel, Kierkegaard e molti altri nei confronti del testo greco.
D’altra parte
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A un solo testo letterario, credo, è stato concesso di esprimere tutte le
costanti principali del conflitto presente nella condizione umana. Queste
costanti sono cinque: l’opposizione uomo-donna; vecchiaia-giovinezza;
società-individuo; vivi-morti; uomini-divinità. (…) Lo scontro Creonte-
Antigone riassume questi cinque conflitti.
(1990: 260-261)
In essi ritroviamo le concezioni sofoclee della legge, della patria, della religione e della
giustizia, che hanno fatto versare fiumi d’inchiostro in quanto basi della politica e della
filosofia occidentali. Sembra quindi che la capacità di un conflitto particolare di
trascendere il contesto, diventando universale, sia la caratteristica responsabile del
fascino di Antigone (1990: 262), personaggio dalla rara qualità dell’eterna «freschezza
della rugiada mattutina» (de Quincey, cit. in Steiner, 1990: 14). Ciò è possibile anche
grazie al fatto che Sofocle ha evitato di introdurre qualsiasi riferimento diretto al
presente, sia a livello di eventi contemporanei, sia in termini di problematiche
dell’epoca, al contrario di altri drammaturghi greci quali Eschilo e soprattutto Euripide
(Del Corno, 1982: 23-24). La sua attenzione si è concentrata piuttosto sulla protagonista,
facendone una figura monolitica, sola, fuori dal tempo, caparbia e irremovibile nel suo
rifiuto di ogni compromesso (Albini, 1988: XXVII). Da subito, quindi, il fascino della
tragedia ha esercitato il suo potere magnetico suscitando interrogativi che ci tormentano
ancora oggi. Col passare dei secoli l’Antigone ha continuato a stabilire un rapporto
estremamente intimo con lettori e spettatori, sconvolgendo le loro certezze, grazie
all’assenza di una risposta unica che è forse la prima causa della grandezza della tragedia
e di Sofocle stesso (Armel, 1999: 21).
Nous avons été fascinés par Antigone, par cet incroyable rapport, cette
puissante liaison sans désir, cet immense désir impossibile qui ne pouvait
pas vivre, capable seulement de renverser, paralyser ou excéder un
système et une histoire, d’interrompre la vie du concept, de lui couper le
souffle ou bien, ce qui revient au même, de le supporter depuis le dehors
ou le dessous d’une crypte.
(Derrida, 1974: 201)
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Parafrasando le parole di Jacques Derrida, possiamo affermare che Antigone è una
figura di transizione, mediatrice tra il nostro mondo terreno («le dehors») e quello degli
dèi («le dessous d’une crypte»). Il suo fascino va in entrambe le direzioni: Patrick
Guyomard coglie il nocciolo della sua bellezza terribile e tragica nella capacità di
attirarci verso l’aldilà:
“victime si terriblement volontaire”
1
pour figurer à jamais la puissance du
refus et la légitimité de la révolte face à tout pouvoir, tyrannique ou
politique, qui voudrait, de droit, régner à la fois sur la cité et sur l’au-delà,
sur le monde des vivants et le monde des morts. Gardienne d’une limite,
face à la puissance totalitaire de la cité, elle incarne de son nom l’excès
du sacrilège et l’affirmation d’un au-delà.
(Guyomard, 1992: 33)
Al tempo stesso i temi affrontati nella tragedia sono gli stessi che garantiscono lo
sviluppo dell’identità umana: la lotta fratricida all’ultimo sangue tra Eteocle e Polinice,
il rischio della bestialità in assenza di sepoltura, i problemi gerarchici di valori quali
l’amore fraterno, filiale o erotico, per non parlare della divisione dei poteri con i
problemi a essa legati (ambiguità dinastiche, controllo dei riti di sepoltura ecc.). Ecco
perché, quando i conflitti attuali si manifestano sulla stessa scala storica o psicologica,
«è naturale o economico ritornare all’Antigone» (Steiner, 1990: 148).
Da non dimenticare che il fascino di Antigone è strettamente dipendente dalla presenza
di Creonte, non soltanto per via dell’intimità del loro conflitto, ma anche perché Creonte
è la spalla di Antigone, l’antieroe necessario per fare della protagonista un’eroina
tragica. La grandezza del personaggio ha infatti bisogno di una violenta provocazione
(tale l’editto a danno di Polinice) per esprimersi (1990: 61). Pertanto, sebbene «la force
du mythe est telle que la plupart des spectateurs (…) n’écoutent que la voix d’Antigone»
(Armel, 1999: 49), la sua voce si fa sentire soprattutto in contrapposizione agli altri
personaggi altrettanto fondamentali quali, appunto, lo zio Creonte che rappresenta
l’antagonista principale, e anche la sorella Ismene che rappresenta «una bella misura
dell’ordinario» (Steiner: 1990, 61). L’originalità risiede dunque in una serie di conflitti
che vanno al di là dei singoli personaggi: da queste avventure familiari e simboliche i
1
Lacan, cit. in Guyomard, 1992: 33.
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posteri possono estrapolare così dei modelli che ripetono, trasfigurandolo, l’antico mito
(Fraisse, 1974: 84). Al tempo stesso le migliaia di generazioni successive si sono trovate
di fronte a una tragedia politica con le sue implicazioni di ricerca della giustizia. La
possibilità di approvare e denigrare, soppesare torti e ragioni facendo dei lettori e degli
spettatori dei giudici, ha sempre appassionato gli uomini, da cui una delle tante possibili
ragioni del successo della tragedia (Fraisse, 1974: 85).
Il carattere atemporale dell’avventura di Antigone resta comunque la principale
spiegazione all’infinità di esegesi, interpretazioni e manipolazioni del mito. Pierre
Boutang, discutendo con George Steiner a questo proposito, vede nella nostra eroina la
luce che ci permette non solo di trovare una lettura dell’oggi, ma soprattutto di
illuminare un futuro oscuro che fa paura:
Je pensais cette nuit à Luis de Leon, justement: “deciamos ayer”, vous
qui aimez tant le temps des verbes, “nous disions hier”. Antigone dit sans
cesse : nous disions hier. (…) Et peut-être, nous dirons demain, mais je
n’en sais rien, car demain est peut-être bouché : c’est là que le futur
apparaît prophétique et indéfini. Mais dans cet indéfini que vous voyez
tout sombre, et peut-être tout noir et fermé, j’entrevois chez Antigone
elle-même l’intention de la lumière, l’ouverture…
(Boutang & Steiner, 1994: 52)