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Non è sicuramente facile per me, oggi, prefigurarmi il fenomeno della vecchiaia,
traguardo di certo ambito e nello stesso tempo temuto come condizione di
inevitabile decadimento di molte abilità.
Ma se invecchiare significa senza dubbio perdere qualcosa, è altrettanto vero che
con il passare degli anni è forse maggiore ciò che si guadagna in saggezza,
esperienza, acume critico e talora creatività.
Importante quindi non è invecchiare, quanto piuttosto invecchiare “bene”,
trovando cioè un giusto equilibrio tra inevitabile impoverimento e possibile
guadagno.
L’invecchiamento è un fenomeno estremamente eterogeneo e spesso l’età
cronologica non corrisponde a quella che viene definita età biologica di un
individuo. Esistono anziani il cui processo di invecchiamento è definito di
“successo” con il mantenimento di ampie riserve funzionali ed una completa
autosufficienza. In contrasto con questi soggetti in apparente buona salute vi è la
gran parte della popolazione anziana, in particolare tra gli ultraottantacinquenni,
con la presenza contemporanea di diverse patologie cronico-degenerative, la
necessità di assumere diversi farmaci e con gravi disabilità fisiche, psichiche e /o
cognitive.
Alla disabilità comune si accompagnano spesso situazioni di solitudine
(vedovanza ed emarginazione sociale) e povertà.
La vita modella e plasma le potenzialità iniziali a seconda degli incontri
significativi che un individuo sperimenta nell’arco della sua esistenza. Le capacità
cognitive-intellettuali e quelle emotive interagendo con l’ambiente circostante
permettono scelte e indirizzi che la persona continua ad operare, costruendo così
una lettura della realtà nella quale è immerso.
3
La lettura della realtà costituisce il senso esperienziale nel quale muoversi.
Gli esseri umani per costruire questi significati devono, oltre a fare i conti con le
diverse situazioni contestuali, potersi confrontare ad altri pari. Il confronto è dato
nella relazione che costituisce l’aspetto fondamentale perché l’individuo si
sviluppi e perché possa continuare a essere sempre più umano.
Per potere mantenere una qualità di vita, sia intellettiva che emotiva, gli esseri
umani necessitano di scambi continui con gli altri, a qualsiasi età, proprio perché è
nella relazione che si trovano le regole e le ripetizioni che danno significato agli
eventi e che nel tempo permettono di anticipare e quindi di prepararsi. La capacità
di adattamento appare come elemento determinante nell’incontro tra la persona e
l’ambiente, tra necessità proprie e richieste ambientali.
Ancor più un anziano proprio perché confrontato più frequentemente al doversi
adattare a modificazioni di sé e dell’ambiente rispetto a se stesso, ha bisogno della
vicinanza di persone significative.
Innanzitutto, in questa sede, mi sembra opportuno chiarire che quello da me
proposto è stato un intervento educativo e non riabilitativo proprio perché, in
primo luogo, non sono in possesso di quelle conoscenze specifiche che
consentano ad un terapeuta di fare riabilitazione e, in secondo luogo, perché il mio
voleva essere un intervento specifico all’interno di una realtà vasta dove non sono
previsti, dal piano organizzativo, interventi educativi volti alla rielaborazione di
emozioni e ricordi attraverso la mediazione dell’educatore.
A fronte di queste considerazioni ho ritenuto opportuno ed interessante
sperimentarmi direttamente sul campo, proponendo dei percorsi di stimolazione
sensoriale al fine di giungere ad una rielaborazione delle emozioni.
Pertanto il lavoro attuato è stato centrato sull’osservazione delle abilità residue di
ogni partecipante, e successivamente è stato studiato ogni laboratorio sensoriale in
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modo da consentire ad ognuno di esprimersi e relazionare con il gruppo senza
eccessivi imbarazzi o vergogna.
Ogni laboratorio sensoriale prevedeva la presenza massima di quattro ospiti, in
modo tale da consentirmi di interagire con loro in un clima abbastanza intimo e
rilassato, senza la presenza di fattori esterni (rumori, visite di parenti, ecc.) che
potessero disturbare quel momento comunicativo.
I laboratori sensoriali non hanno previsto solo attività da svolgere, ma anche
semplicemente l’interazione, la relazione tra educatore ed ospite. Dopo un
percorso, che è servito come aggancio, si è passati alla fase più interessante,
quella della relazione educativa.
Attraverso questo strumento di estrema importanza, ho potuto accedere alla parte
più nascosta, quella dei sentimenti e delle emozioni, che ho trovato essere ricca di
significati.
In questa tesi presento una sperimentazione e con questo termine intendo un
percorso, che nella Casa di Riposo di Alessandria non era mai stato intrapreso con
anziani non autosufficienti, con un intento stimolante per gli stessi ospiti e
valutativo e di futuro utilizzo per l’équipe di lavoro.
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CAPITOLO 1
METODOLOGIE ED INTERVENTI
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Nell’affrontare la parte teorica di questa tesi, mi è sembrato coerente ed
interessante approcciare il lettore al mio lavoro, cercando di dare una panoramica
abbastanza ampia, ma soprattutto chiara e di semplice comprensione, di quali
siano le metodologie di intervento utilizzate nel lavoro di educatore e quelle
specifiche che ho messo in atto all’interno del mio intervento educativo.
E’ dimostrato che tutte le persone che vivono un disagio di tipo fisico o psichico
non riescono né a giocare, né a mettersi in gioco; in questi casi è necessario un
mediatore-educatore che li aiuti a conoscersi e a liberarsi dalle paure.
1
Occorre considerare che l’anziano in casa di riposo e, nella fattispecie, gli anziani
con cui sono entrata in contatto, sono persone che entrano in istituti già con gravi
difficoltà a livello motorio e psicologico; da un’analisi fatta da Norberto Bobbio
nel libro “De Senectute” viene mostrato come tutta la strutturazione della nostra
civiltà sia volta a negare al vecchio ogni futuro: fino al punto da fare ritenere che
occuparsi professionalmente di queste persone possa essere considerato un
lavorare a “perdere”.
Per quanto mi riguarda ritengo che la precondizione per poter lavorare, a qualsiasi
titolo, con gli anziani sia quella di concepire che per loro vi sia un futuro. Quindi
la vecchiaia non è altro che una continuazione dell’età adulta, senza alcuna
particolare scissione tra l’una e l’altra età della vita.
Questa visione permette di cogliere come vi siano diversi modi di vivere la
vecchiaia, sia se osserviamo la situazione dal punto di vista dell’autonomia
personale, sia se prendiamo in considerazione l’incidenza di alcune forme
patologiche ancora poco esplorate, sia se si vede l’anziano come una persona alle
prese con la propria personale struttura d’identità.
1
W. Orioli, Far teatro per capirsi, Macroedizioni, 1996
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Accettare completamente questa prospettiva richiede anche un altro livello di
riflessione che consiste nel considerare cosa significa occuparsi non più di
bambini o di coetanei, bensì di persone più vecchie di noi che, in qualche modo,
riecheggiano le nostre stesse figure parentali all’interno di una sorta di
rovesciamento dei ruoli secondo i quali è il figlio che si occupa del genitore.
Un altro tema sempre attuale nel lavoro con i vecchi è accettare che il tempo della
vita, e quindi anche della nostra vita, abbia un termine; tutto ciò ci porta ad
analizzare il significato esistenziale che per ognuno riveste la morte.
Eissler ritiene che la morte sia sempre di origine psicologica e che, qualsiasi
forma assuma, comporti sempre da parte dell’Io la decisione, per così dire, di
morire.
2
Anche Berger osserva che la morte, più di ogni altro evento della vita ricorda ad
ognuno il proprio ruolo, che deve spostarsi da quello di “guarire”, quindi con un
ideale narcisista, a quello di “curare” e nessuno, più di un morente, ha bisogno di
essere “curato”, con ciò intendo dire di essere tutelato nel suo bisogno di
mantenere una relazione stabile con qualcuno.
3
Il fatto è che la morte è un problema che è stato a lungo negato nella nostra
riflessione professionale, anche se è vero che Freud ne ha parlato a lungo; infatti,
secondo lui, il nostro inconscio sarebbe inaccessibile all’idea della propria morte,
come se la sua rappresentazione fosse inimmaginabile. Freud era convinto che
l’inconscio non potesse concepire la morte come fatto naturale, ma solo attraverso
la possibilità di essere uccisi.
2
Eissler K., The psychiatrist and the dying patient, I.U.P., New York, 1955
3
Berger M., Possibilité d’aide psycologique aux mourants, in Guyotat J., Psicothérapies
Medicales, Masson, Parigi, 1978
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D’altra parte la morte è l’unico momento della vita di ogni individuo del quale
non si può parlare con cognizione di causa perché di essa non si ha esperienza,
non si può parlare della propria morte.
Queste osservazioni fanno riflettere su come la via per aiutare i “vecchi” di fronte
alla morte sia quella di favorire l’elaborazione del loro lutto, in quanto il lutto non
è necessariamente legato alla perdita di un’altra persona, ma riguarda tutto ciò
costituisce una perdita (di illusioni, di funzioni, di capacità, di separazioni da un
luogo, ecc.).
Una costante che lega queste considerazioni è il dolore, che, non è vero che fa
bene, che tempra il carattere o che sia formativo, ma fa male. Evitare il dolore, se
possibile, o attenuarlo, non soltanto è sano, ma è parte integrante della saggezza.
Però non tutto il dolore è evitabile, né attenuabile, e, nonostante vi siano molti
modi per cercare di evitarlo, annullarlo o attenuarlo, essi sono spesso inefficaci o,
addirittura, dannosi, perché conducono a restrizioni, invece che non a
realizzazioni del Sé.
E’ per questo che la base della saggezza sta nella capacità di elaborare il lutto, ed
è questa capacità che è formativa, non il dolore in sé.
Il processo di elaborazione del lutto conduce, piano piano, nel tempo, ad una
progressiva piena consapevolezza della perdita subita, ad una sua accettazione
profonda, ad una stabile ristrutturazione della percezione del Sé che tenga
pienamente conto della perdita, a un riconoscimento schietto del dolore che si sta
vivendo, della sua sensatezza e legittimità, e un ritornare ad accogliere, a stimare e
a voler bene al se stesso sofferente che si trova ad essere.
Aiutare le persone a riconoscere, affrontare e tollerare il dolore in ogni sua forma,
è cosa fondamentale per il miglioramento della qualità della vita degli interessati.
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Questo processo condurrà a collocare mentalmente nel passato ciò che nella realtà
è passato, in definitiva, a lasciarlo. Ciò comporta, nel mondo interno, grandi
trasformazioni delle immagini mentali sia di sé sia della cosa perduta, la quale
potrà venir conservata soltanto in quanto sarà trasformata in ricordo. Così pure il
legame che connetteva sé alla cosa perduta verrà ad essere, poco alla volta,
trasformato: da attaccamento lacerato, a “rimembranza” dell’attaccamento,
attraverso i percorsi che conducono a mettere insieme ciò che è stato smembrato.
Tutto ciò per lasciar andar via il passato senza perdere l’integrazione di sé, è
indispensabile ricordare.
1.1. Che cos’è l’emozione
All’interno di questo discorso si allaccia tutto un discorso più generale
sull’emozione.
L’emozione è un processo molto complesso, che comporta aspetti cognitivi,
motivazionali, espressivi, comunicativi e conativi. La distinzione fra i vari aspetti
dei processi emozionali è stata spesso misconosciuta perché essi si presentano
all’esperienza come un tutt’unico: in un solo istante si realizzano quasi
contemporaneamente. E’ la stessa esperienza, ad esempio l’emozione della paura
è quella che si realizza in un tutt’uno attraverso la conoscenza immediata e diretta
di qualcosa di minaccioso per gli aspetti fondamentali del proprio vivere; la spinta
all’azione quindi una fuga dalla cosa minacciosa, un attacco per annullarla o una
paralisi per mimetizzarsi; la comunicazione agli astanti sia del pericolo percepito
sia della reazione ad esso; la sollecitazione affinché essi partecipino
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all’esperienza, alla conoscenza e alla reazione del soggetto; la spinta affinché essi
a propria volta si attivino convenientemente.
Pertanto si può dire che le emozioni sono puri e semplici dati o “colori”
dell’esperienza, ma, tendendo a spingere all’azione sia il soggetto sia le persone
che ricevono la comunicazione emotiva, devono essere gestite.
Per comprendere ciò che si intende per “gestione delle emozioni” e per coglierne
la portata teorica e pratica, basti pensare, come esempio, all’invidia.
L’invidia si presenta come lo specifico dolore mentale che è adeguato alla
percezione del fatto che non si è e non si ha qualche cosa di buono, ammirato e
desiderato che altre persone sono o hanno. E’ il dolore della percezione delle
differenze con svantaggio.
Quindi la questione dell’invidia risiede nella gestione di questo specifico dolore
mentale. Fra i modi di gestire questo dolore, ci sono quelli miranti ad annullarlo,
fra cui primeggiano quelli che cercheranno di distruggere la cosa buona, o di
disprezzarla, cioè di toglierle o negarle il valore. Questa che si evidenzia come
distruttività, si rivela come una difesa specifica da quello specifico dolore, che è
atroce perché è connesso con la percezione di essere esposti alla desolazione. Tale
“distruttività”, che è solo uno dei tanti modi per gestire l’invidia, ha potuto essere
scambiata con l’invidia stessa a causa della natura dei processi emotivi, nei quali
gli accadimenti psichici (percettivo, comunicativo, cognitivo, espressivo,
motivazionale e donativo) si presentano nell’esperienza viva come fossero un
tutt’uno, come fossero tra loro, per così dire, “appiccicati”, quasi contemporanei.
Si può vedere che quello specifico dolore mentale può essere gestito in altri modi.
Sempre fra quelli miranti ad annullare l’invidia, si possono trovare quelli che
cercano di far divenire o far acquisire quella cosa che ha scatenato l’invidia stessa.
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Anche qui ci sono molteplici possibilità, ad esempio, si può cercare di derubare la
persona invidiata: tolgo a lei, acquisisco io, e mi vendico del dolore subito,
rovesciando la situazione. Oppure ci si può porre nella prospettiva
dell’acquisizione costruttiva: cerco di divenire anch’io quello che l’altra persona
è; mi procuro anch’io quello che l’altra persona ha; in questo modo il confronto
non sarà più doloroso perché non ci sarà più uno svantaggio da parte di una delle
persone.
Vi sono, però, anche altri modi di gestire quello stesso specifico dolore; si può,
per esempio, consolarsi, riconoscendo la differenza con svantaggio, ma
riconoscendo anche altre cose per le quali ci sono differenze ma con vantaggio
(es. sono brutto, ma canto bene).
Quest’ultimo insieme di modi di gestire l’emozione sono di quelli che cercano di
attenuare il dolore, senza pretendere di annullarlo.
Ci sono, infine, dei modi che semplicemente sono l’accettazione di vivere
quell’emozione; sono modi rispettosi di sé, che fanno ricorso ad una “pietas”
verso se stessi, ad un riconoscimento e ad un amorevole accoglimento del Sé
sofferente.
Ogni individuo nasce con degli schemi innati specie-specifici (cioè legati al
patrimonio genetico della specie) che rendono possibili i vari modi di gestire le
proprie emozioni; ma, per riuscire poi a metterli in atto, si ha la necessità di un
apprendimento selettivo specifico. Apprendimento che rientra nel grande insieme
di fenomeni evolutivi chiamato “apprendimento relazionale”. Il risultato sarà che
non tutti i modi di cui si hanno gli schemi innati in dotazione saranno da ogni
individuo sviluppati, ma solo quelli che si saranno potuti strutturare nello
specifico apprendimento relazionale; tali modi risentiranno in modo decisivo delle
esperienze reali che si sono potute fare nel reale ambiente umano. Essi saranno,
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perciò, profondamente influenzati dai portati antropologico-culturali del proprio
ambiente di vita e dalle caratteristiche personali, e dalle intenzioni (consce e
soprattutto inconsce) di coloro con cui ci si trova impegnati nelle relazioni
fondanti di base.
I modi di gestire ogni singola emozione non sono infiniti: sono molti, ma in
numero finito, sono riconoscibili e definibili e possono, con maggiore o minore
difficoltà, a seconda delle esperienze passate e delle capacità del soggetto, essere
appresi anche dall’adulto. Ma tale apprendimento non può realizzarsi se non
all’interno di esperienze relazionali significative, nelle quali è più importante ciò
che l’individuo è e fa, che non ciò che egli dice.
Tutte le emozioni, anche quelle di piacere, esigono di essere gestite dal soggetto;
ma non sempre il compito è possibile. Vi sono esperienze di disperazione così
estreme che non sono elaborabili, quali quelle di molti sopravvissuti ai campi di
sterminio nazifascisti.
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1.2. L’apprendimento della gestione delle emozioni
Ma come succede che si impara a gestire le emozioni? E, soprattutto, come
succede che non si impara?
Il problema non è solo teorico, dato che sempre più spesso nella pratica bisogna
occuparsi di persone che presentano una sorta di analfabetismo emozionale, ossia
non sanno riconoscere le emozioni, non sanno che farsene, vivono come
emozionalmente “appiattiti” non per repressione o inibizione emotiva, ma per
mancato o incongruo apprendimento.
Sono molti i modi in cui i bambini apprendono la gestione delle emozioni, ma
quelli più importanti, quelli più decisivi sono direttamente connessi con le
modalità relazionali proposte dalle persone che di loro si occupano e con lo spazio
relazionale che si viene a definire nella concretezza delle interazioni fra i due.
Per prima cosa, dunque, si apprende a creare un sufficiente, adeguato “spazio
mentale”, che possa contenere anche l’emozione che si sta realmente
sperimentando nella concretezza del singolo episodio di vita. Questo spazio
mentale è una specie di interiorizzazione dello spazio relazionale e questo
processo è uno degli elementi fra i più importanti della strutturazione del Sé. Ad
esempio, un bambino può riconoscere, tollerare e contenere una particolare
emozione solo se trova riconoscimento, tolleranza e contenimento della medesima
emozione nelle relazioni reali attuali in cui si trova impegnato. E così facendo, in
un fittissimo gioco internazionale con l’ambiente umano reale con cui egli è in
relazione, il bambino, attivamente struttura anche la percezione di sé come di uno
che sta vivendo quell’emozione e che la sta contenendo. E se il bambino si trova
in un ambiente umano sistematicamente e ripetitivamente sordo o cieco rispetto a
determinate emozioni, non potrà far altro che divenire a propria volta sordo o
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cieco rispetto a tali emozioni. Si creeranno, così, come dei “buchi” nelle capacità
di esperire aspetti vitali della propria esistenza, di cui “l’analfabetismo
emozionale” ne è un tragico esempio.
Perché si realizzino guasti così gravi e così danneggianti sulla qualità della vita è
necessario che gli atteggiamenti parentali inadeguati siano ripetitivi nel tempo in
modo rigido e sistematico; è difficile, anche se è possibile, che sia in gioco un
isolato, singolo episodio traumatico.
A questo punto credo sia chiaro che tra le mancate elaborazioni del lutto che si
incontrano nella pratica, ve ne siano alcune connesse a reali incapacità per un
inadeguato apprendimento della gestione delle emozioni.
In questi casi vale la pena tenere presente la necessità dell’utente di gestire il
proprio dolore. E’ importante osservare e riconoscere quali modi usa per gestirlo,
dandogli il tempo per sperimentarsi; dargli spazio senza mai negare il dolore, ma
riconoscendolo pienamente e cogliendone la sensatezza, e, se questo spazio non
c’è, è necessario crearlo, attivamente: è lo spazio relazionale, infatti, quello che
verrà utilizzato dall’utente per costruire nel mondo interno un proprio spazio
mentale per il contenimento e l’elaborazione delle emozioni.