5
Le prime esperienze letterarie di Chiara precedono comunque di molto questa
data, visto che nel 1945 erano uscite le poesie di Incantavi (1945)
3
, apprezzate
da Giancarlo Vigorelli perché “rivelavano già una vocazione narrativa”
4
e
seguite dalle prose di Itinerario svizzero (1950)
5
e Dolore del tempo (1959)
6
. Il
brano che apre il volume del 1959, Linea della vita, ribadisce i caratteri
peculiari dell’autobiografismo dell’autore che dopo aver messo a confronto la
solida posizione sociale sognata per lui dai genitori e la sua scelta, del tutto
opposta, di una vita “instabile e vagante” afferma: “Se questo è vero, le linee
inspiegate degli anni scorsi diventano chiare e si compone il disegno del destino
di una vita. Ma sarà la vita del personaggio di un racconto, non la mia”.
7
Lo
studio dell’opera di Chiara deve dunque partire dal rapporto tra realtà e
finzione, tra memoria e narrativa. In questo senso i libri anteriori al primo
romanzo rappresentano una graduale presa di coscienza di un gioco letterario
che rivisita momenti del proprio percorso esistenziale intrecciando il ricordo e
l’invenzione fantastica. La scrittura tarda di Chiara, l’esordio narrativo avvenuto
solo alla soglia dei cinquant’anni si spiegano allora con la necessità di giocare
coi ricordi, con le storie custodite dalla memoria: lo scrittore deve partire dalla
sua esperienza di uomo.
II. IL CONFRONTO CON LA REALTÀ:
Con la faccia per terra e altre storie
Tappa fondamentale di questo percorso è il volume Con la faccia per terra e
altre storie, resoconto in prima persona di un viaggio in Sicilia, terra natale del
padre di Chiara. La prima stesura risale al 1961 (un anno prima dell’uscita de Il
piatto piange) ma il testo è stato pubblicato solo nel 1965 e poi, “riveduto e
corretto in varie parti” come avverte l’autore
8
, nel 1972 insieme ad altre prose
incentrate sulla figura paterna. La decisione di andare, da solo, a trovare i
parenti lontani richiama alla memoria i viaggi fatti insieme al padre Eugenio
durante l’adolescenza. Vengono descritte le soste di qualche giorno a Roma,
presso l’amico Favagrossa che mostra ai due visitatori i monumenti della
capitale, e a Napoli dove Eugenio aveva lavorato come ispettore del dazio prima
di salire al Nord. Trent’anni dopo l’ultimo viaggio lo scrittore decide di tornare
nell’isola, perché sente la necessità di un distacco definitivo da quei luoghi e il
distacco può avvenire solo attraverso un confronto diretto. È lo stesso io
narrante, all’inizio del libro, a spiegare questo interesse per il paese paterno:
3
P. Chiara, Incantavi, Edizioni di Poschiavo, 1945.
4
Citato da E. Ghidetti nell’Introduzione a P. Chiara, Il pretore di Cuvio,
Mondadori, Milano 1988, p. 5.
5
P. Chiara, Itinerario svizzero, ed. “Giornale del Popolo”, Lugano 1950.
6
P. Chiara, Dolore del tempo, Rebellato, Padova 1959.
7
Citato da G. Tesio, Piero Chiara, op. cit., p. 24.
8
P. Chiara, Con la faccia per terra e altre storie, Mondadori, Milano 1972, p.
153. Tutte le citazioni sono tratte da quest’edizione.
6
Ritornare sui posti della vita passata a compiere verifiche e rievocazioni è sempre un passo
sbagliato. Non si aggiunge nulla ai ricordi e anzi si guasta il lavoro della memoria, si confondono
le immagini già chiare che il tempo ha composto e si smentisce la pura verità della favola nella
quale tutto può ancora vivere. Ma si vuole forse ritornare proprio per farla finita coi ricordi, per
rimestarli, appesantirli, metterli in condizione di colare a fondo e di perdersi finalmente nel
passato. È col ritorno che si pone per sempre una pietra sugli anni che non ci somigliano più
(p. 4).
Solo così lo scrittore può saldare il debito con la propria memoria: accettando di
riscoprire le proprie origini sarà libero di manipolare (come si è detto all’inizio)
ciò che la memoria gli suggerisce. La realtà che Chiara si trova di fronte è un
paese che “sembrava la testa di un tignoso, tutta chiazze, con un grumolo di
croste grigie e rosa da una parte” (p. 51), con le strade “simili a dentature di
teschi sovrapposte l’una all’altra in cerchi sempre più stretti” (ibidem). Tornare
significa vedere con occhi nuovi questa realtà che non è cambiata molto negli
ultimi decenni e al tempo stesso porta a guardare negli occhi i parenti
invecchiati, dal cugino Biagio divenuto comunista dopo una vita di militanza
democristiana all’arciprete don Lorenzino deluso da questa scelta politica, al
punto da inveire rabbiosamente contro Biagio: “- Ma io camperò cent’anni, e
debbo vedervi tutti quanti con la faccia per terra! –“(p. 65). Durante il secondo
colloquio con Don Lorenzino emerge la distanza tra la Sicilia reale e quella che i
libri siciliani – come i romanzi di Brancati, o di Verga – cercano di raccontare:
– Non ne ho letto neppure uno – mi rispose. - Non m’interessano. Chi sta in Sicilia, chi ci è nato
e vissuto, queste cose le sa, e ne sa molte altre che nei libri non si trovano, specialmente nei
libri dei meridionalisti –(pp. 92-93).
Ancora una volta si afferma un’idea della letteratura come alterazione della
realtà. L’ultimo incontro importante è con il nipote del barone Pasquale
Càccamo, amico di gioventù. Il nipote spiega che Pasquale si è trasferito in
America e poi comincia un singolare discorso sulla Sicilia, sul bandito Giuliano
(non si è mai rifugiato nelle grotte ma frequentava regolarmente i caffè di
Palermo, in pieno giorno) e sulla mafia, partendo dalla repressione del fascismo
e arrivando all’Apocalisse di Giovanni. In questo clima sempre più surreale il
visitatore, sul punto di andarsene, viene accompagnato segretamente dalla
cameriera al cospetto del barone Pasquale, che come la giovane rivela non è
andato in America ma vive ormai pazzo in uno stanzone degli scantinati,
rinchiuso in una sorta di laboratorio di falegnameria, con addosso i segni di una
stanchezza che lo fa sembrare “un’apparizione più che un uomo vivo”(p. 111).
Chi è davvero pazzo in quella casa, il barone o il nipote, coi suoi discorsi
visionari, o tutti e due? Nemmeno il cameriere del caffè del paese sa dare una
risposta, conosce molti Càccamo ma nessuno di loro è pazzo. Da questo mistero
di provincia (uno dei tanti raccontati dallo scrittore) emerge ancora una volta
l’impossibilità di capire la Sicilia reale, diversa rispetto a ciò che ne raccontava
Eugenio quando Chiara era adolescente: non resta che il ritorno al Lago
Maggiore, pensando “alla Sicilia in generale, a quella di mio padre, a quella di
7
sempre”(p. 115) dopo aver concluso un viaggio che lascia il protagonista
disorientato, “come se avessi messo il dito nella bocca dei morti” (ibidem).
9
Per Geno Pampaloni Con la faccia per terra rappresenta la scoperta di “una
goccia di sangue più scuro” come recita il titolo della sua prefazione
10
, una
presa di coscienza della realtà che segna una maturità nuova nello scrittore.
Secondo Giovanni Tesio invece la vera novità va cercata nell’umorismo di
alcuni episodi come la visita al papa organizzata a Roma da Favagrossa, visita
che di fatto non avviene perché il pontefice appare solo dopo ore di attesa
quando la folla, ormai esausta per il caldo e la fame, già inizia a lasciare il
salone, e avvisato da un cardinale del suo seguito si allontana egli stesso dopo
pochi minuti di discorso.
11
Restano comunque degni di menzione gli incerti approcci con alcune figure
femminili, come Jolanda che a Napoli teneva in mano una statuina del presepe
mentre il giovane Chiara, in sosta col padre prima di proseguire per la Sicilia,
cercava di toccarle il petto. L’espressione di lei sembrava incoraggiante ma
dopo che la statuina è caduta a terra non è successo nulla anche se Jolanda ha
continuato a pensarci: “per quell’episodio la ragazza si ritenne fidanzata con me
e mi aspettò per molti anni”.
12
Esito analogo ha anche l’episodio avvenuto con
Agatina che in Sicilia finge di dormire quando il giovane di Luino entra nella sua
stanza e cerca di scostare il lenzuolo dal suo corpo, salvo alzare lentamente un
braccio per poi risollevare il lenzuolo su di sé, apparentemente ancora
addormentata. L’esperienza erotica, che come si è visto compare già nel volume
autobiografico del 1972, acquista un particolare significato nei romanzi e nei
racconti diventando una possibilità di evadere dalla noia della provincia. Con la
faccia per terra assume così un ruolo emblematico per lo scrittore luinese in
quanto costituisce una sorta di spartiacque tra prosa memorialistica e narrativa
vera e propria. Il rifugio dalla noia è garantito però, nelle opere di Chiara, anche
dal gioco delle carte (o del biliardo) o da altre forme di trasgressione come il
viaggio, compiuto o vagheggiato stando seduti ai tavoli del caffè. Il percorso qui
proposto è appunto lo studio del “peccato” come evasione da un mondo chiuso e
uguale a se stesso, ma anche della complessità di questa scelta e della sua
possibile degenerazione, quando il desiderio di sfidare i valori convenzionali
per trasgredire – letteralmente “andare al di là” – arriva troppo lontano e si
traduce in omicidio.
9
Ibidem.
10
Cfr. Geno Pampaloni, Una goccia di sangue più scuro, introduzione a P. Chiara,
Con la faccia per terra, op. cit., pp. V-XI.
11
G. Tesio, Piero Chiara, op. cit., pp. 29-31.
12
P. Chiara, Con la faccia per terra, op. cit., p. 18.
8
III. LA PROVINCIA E L’EVASIONE
Dopo le prose autobiografiche degli anni Cinquanta, Il piatto piange segna
l’autentico esordio narrativo di Chiara. L’attenzione del lettore viene subito
indirizzata verso il tema del gioco:
Si giocava d’azzardo in quegli anni, come si era sempre giocato, con accanimento e passione;
perché non c’era, né c’era mai stato a Luino altro modo per poter sfogare senza pericolo l’avidità di
danaro, il dispetto verso gli altri e, per i giovani, l’esuberanza dell’età e la voglia di vivere.
13
La provincia è quindi il luogo della routine esistenziale, dove “la vita è sotto la
cenere e non ci si accorge che a due passi, fuori dalle finestre, c’è il lago e la
campagna” (ibidem). L’unica via d’uscita è emigrare, per fare delle esperienze di
lavoro ma soprattutto di vita e avere qualcosa da raccontare agli amici del caffè
quando si torna in paese. Questo riferimento alla narrazione orale chiama in causa
la memoria dell’io narrante: “Ricordo quando il Monti, detto “Tonchino”,
raccontava le sue avventure in Indocina dove per le strade, dopo i temporali,
scavalcava i serpenti” (ibidem). L’io narrante entra in scena egli stesso come
personaggio quando ricorda che una volta ha vinto al gioco una pelliccia e poi,
tornato a Luino dopo una settimana passata “a far vita a Milano“ (p. 7), ha ripreso a
giocare ai tavoli del caffè perdendo subito il premio conquistato. Comunque non
basta cambiare città per sottrarsi alla noia, al male di vivere della provincia e
infatti anche i luinesi che vivono ormai da anni in posti lontani, magari all’estero,
sentono di non essersi liberati da una specie di peso o di intoppo che la vita del paese ha lasciato in
loro, come un velo oltre il quale potrebbe aprirsi la vera vita, se si potesse capire com’è la vera
vita (p. 176).
Forse l’unico modo per capire la vita è raccontarla:
Un poeta o un pittore che nascesse qui inosservato e prima di legarsi all’ambiente volasse via, forse
troverebbe la strada della liberazione (ibidem).
Anche Chiara ha scelto di raccontare il mondo in cui si è trovato a vivere, un
mondo che appare già pienamente compiuto nel primo romanzo con temi che
torneranno nelle opere successive: il gioco e il sesso (la casa di Mama Rosa), il
viaggio (gli emigranti e quelli che sognano di emigrare), la storia (il monumento che
celebra Garibaldi, i due fratelli che cercano di arrivare da Luino a Roma con una
barca a remi per essere ricevuti da Edda Mussolini). Come spiega Giancarlo Sala,
l’identità dell’io narrante resta ambigua perché mentre parla di tutte queste cose
vive cogli altri, ma sa di più perché gode di un punto di vista panoramico e mutevole: a volte è
burattinaio, a volte è testimone tacito o ironico che osserva e trae delle conclusioni, delle regole di
vita; un io narrante che convive, ma sa interpretare gli eventi. Vien dunque messo in scena un
13
Piero Chiara, Il piatto piange, Mondadori, Milano 1988, p. 3. Tutte le
citazioni sono tratte da questa edizione.
9
narratore che narra “giocando”; narrare in questo modo diventa una trasposizione del modo di
vivere di questa gente.
14
Ai tavoli si incontrano personaggi come il Càmola, che dopo alterne vicende (in
gioco e in amore) muore tragicamente cercando di varcare il confine, o il Tolini
(detto Tetàn) suo grande amico, “donnaiolo accanito, e perciò silenzioso” che come
il Càmola “non aveva idea dell’amore e si limitava a correre da un posto all’altro
dove c’era da possedere una donna, qualunque fosse”,
15
e il Rimediotti, vecchio
baro benvoluto da tutti i giocatori “per la sua età di ottant’anni circa, per simpatia
verso l’imbroglio ben fatto, ma più che altro per rispetto al suo splendido passato
di dissolutezza”.
16
Questi ritratti psicologici mostrano fin d’ora una doppia valenza
del gioco, che non è solo la sfida al tavolo delle carte ma anche, e soprattutto, la
scoperta di un ambiente e di coloro che ci vivono, attraverso un racconto che
spesso si concede delle divagazioni (come dimostrano le pagine dedicate a
Garibaldi) ma in compenso riesce a delineare il ritratto di un’intera società.
IV. IL GIOCO DELLA NARRAZIONE E IL GIOCO ESISTENZIALE
Dall’analisi di Giancarlo Sala Il piatto piange risulta
[...]abilmente costruito, con un intreccio abbastanza complesso da decifrare”, caratterizzato com’è
da “una serie di rinvii, di citazioni storiche, di frammentari anticipi e ritardi intorno a questo o a
quel personaggio .
17
Se in questo romanzo compaiono “sempre nuovi fatti e personaggi”
18
, nei romanzi
seguenti Chiara ha sviluppato tematiche già presenti nel volume del 1962,
“concentrandosi su singole vicende con pochi personaggi principali”
19
: dopo
l’apprendistato degli anni giovanili lo scrittore ha dunque raggiunto la piena
maturità artistica e può scegliere di volta in volta quale aspetto della provincia
indagare, e in quale forma. “Narrare giocando” significa anche scegliere un ruolo
che non è mai definito troppo rigidamente e oscilla tra identità molteplici, dal
romanziere all’autore di racconti, dal narratore al saggista, dalla collaborazione
giornalistica all’esperienza del cinema. Il gioco diventa quindi il simbolo stesso
dell’attività artistica, all’insegna di una curiosità intellettuale capace di confrontarsi
con i generi più vari e, quando è il caso, anche di scegliere codici espressivi
diversi da quello letterario.
14
G. Sala, Piero Chiara e la sua sentenziosa affabulazione allegorico-picaresca:
intendimenti artistici, didascalici e iniziatici, Tip. Menghini, Poschiavo 1996,
pp. 55-56.
15
P. Chiara, Il piatto piange, op. cit., pp. 109-110.
16
Ivi, p. 53.
17
G. Sala, Piero Chiara e la sua sentenziosa affabulazione allegorico-picaresca,
op. cit., p. 41..
18
Ivi, 198.
19
Ibidem.
10
L’approccio al gioco viene spiegato nel racconto Sulle onde del Lago Maggiore che
apre il volume L’uovo al cianuro e altre storie (1969).
20
In un collegio religioso un
giovanissimo studente si esercita al biliardo, dedicandosi ad uno studio che non ha
niente a che fare con i libri di testo. Nelle facce dei sacerdoti scopre infatti “la
storia di lunghe penitenze, di faticose vocazioni” (p. 5) e una notte, non visto, ne
sorprende quattro – il direttore d’istituto e tre docenti – intenti al gioco con la
stecca. Il giorno dopo, che coincide con la fine dell’anno scolastico, torna col padre
a Luino, in battello. È a questo punto che viene spiegata al lettore la familiarità con
i viaggi attraverso il lago e vengono rievocati i capitani dell’epoca (anni Trenta)
con le loro divise solenni, e le macchine del motore che girano in preda a “una
continua inquietudine di vapori compressi e sibilanti con un fuoco nel cuore”(p. 8)
che è anche l’inquietudine del protagonista, incerto sul suo destino dopo l’ennesima
bocciatura scolastica. Nel momento stesso in cui rievoca gli anni giovanili e
assegna un posto di rilievo alla pratica del biliardo, l’io narrante ne riconosce
l’importanza nel processo di crescita dell’individuo: il gioco e la scoperta del
segreto dei sacerdoti con le loro partite notturne segnano infatti anche la presa di
coscienza della complessità del reale, dell’impossibilità di guardare alle cose e alle
persone in modo troppo netto. Iniziare, sia pure con esiti tragicomici, la
frequentazione di uno studio fotografico per apprendere un mestiere comporta, per
l’io narrante che fa questa scelta, la disponibilità ad affrontare un progetto che non
presenta meno incertezze dell’esito di una partita. Se nel primo romanzo il gioco
era soprattutto un vizio del quale si cerca invano di liberarsi, nelle opere seguenti
Chiara sembra invece affermarne il valore positivo: si tratta di un’esperienza che
permette di studiare le persone e conoscere a poco a poco i loro percorsi
esistenziali. Viene così appagata quella curiosità che è tipica dei paesi di provincia
ma che in un giovane, come è sempre l’io narrante di Chiara nelle opere scritte in
prima persona, corrisponde al desiderio di crescere prendendo a modello coloro
che il proprio percorso l’hanno già tracciato. In questo senso il caffè, luogo di
aggregazione sociale frequentato da personaggi autorevoli come pubblici funzionari
ed esponenti della piccola e media borghesia (artigiani, commercianti, medici),
diventa un osservatorio privilegiato per contemplare la vita del paese. A volte
l’attenzione di Chiara si sofferma su un singolo personaggio che viene studiato
attraverso una paziente decifrazione di indizi fino a scoprirne la vera identità. Un
esempio di questa tipologia narrativa è la storia dell’industriale Bernasconi,
anch’essa compresa nell’Uovo al cianuro e indagata a fondo dall’io narrante che lo
incontra.
21
Giunto dal Belgio ma originario del Canton Ticino, Pompeo Bernasconi
ha fatto fortuna grazie a una fabbrica di alimentari dopo aver sperimentato mille
lavori, compreso quello di impiegato delle pompe funebri, ma si scoprirà ben presto
che la sua azienda è ormai fallita ed egli non ha fatto che imbrogliare dipendenti e
creditori dichiarando fallimento solo dopo aver messo da parte un consistente
gruzzolo di denaro. Essendo “maestro di cambiali, di acrobazie bancarie e di cavilli
20
Piero Chiara, L’uovo al cianuro e altre storie, Mondadori, Milano 2001. Tutte
le citazioni sono tratte da questa edizione.
21
P. Chiara, L’onesto signor Bernasconi in Id., L’uovo al cianuro e altre
storie, op. cit., pp. 85-94. Tutte le citazioni sono tratte da questa edizione.
11
giudiziari” (p. 98), viene assolto da tutte le accuse e finisce addirittura per essere
indicato come “l’unico esempio di rettitudine che si potesse offrire ai giovani e agli
anziani” di Luino (ibidem). Anche qui il gioco dell’esistenza si carica di mistero,
cela un aspetto più nascosto: ancora una volta la dimensione più autentica della vita
è sotto la cenere come già in Il piatto piange. La conclusione della vicenda è senza
dubbio caratterizzata da una comicità paradossale ma fa anche comprendere come
la vera partita che Chiara racconta sia quella in cui si è impegnati ogni giorno
nell’ambito dei propri rapporti interpersonali, nel modo di confrontarsi con se
stessi e con le persone che si hanno intorno. Lungi dall’essere un peccato il gioco
diventa allora un segno di coraggio, è la disponibilità ad accettare quel che di
aleatorio, inevitabilmente, ogni scelta porta con sé. Per questo i personaggi di
Chiara più che da una posizione morale di colpa o di virtù sembrano caratterizzati
da un’intensa vitalità e giocano fino in fondo le proprie carte per capire qualcosa in
più nel mondo che li circonda: alla fine dell’avventura di solito non c’è un bilancio
perentorio ma solo la conferma dell’impossibilità di giungere a una verità definitiva.
È quello che accade anche in Una spina nel cuore (1979), uno dei romanzi in cui il
gioco d’azzardo compare con più insistenza.
22
All’inizio del romanzo, scritto in
prima persona, il gioco viene praticato in attesa di qualche lavoro non troppo
faticoso come un posto in Municipio o l’incarico di tenere aperto lo studio di
qualche avvocato. L’io narrante passa la maggior parte del suo tempo al Metropole.
Ci va “per giocare, che è sempre un modo di vivere” (p. 12), ma anche per un
motivo più profondo: “stavo al caffè come a un posto di lavoro [...] per non
affrontare mattinate o interi pomeriggi con Caterina, sebbene fossi tornato proprio
per lei” (ibidem). L’ozio è quindi un rifugio dalla vita ma non appena la donna fa la
sua comparsa la vita stessa emerge in tutta la sua complessità. Caterina divide
infatti il suo amore tra l’io narrante e il Tibiletti, motociclista e figlio di macellaio
che a bordo di una Galloni rossa, col viso sfigurato da un incidente, trasporta la
carne attraverso le valli. La ragazza è però coinvolta anche in altri legami affettivi
e il protagonista, che per tutto il libro si interroga sui molti uomini che le gravitano
attorno, si rivolge a Teresita, amica di Caterina. Teresita non solo gli svela il
passato della donna da lui amata ma finisce anche per allacciare una relazione con
lui. Si delinea così una situazione intricata, al centro della quale c’è un uomo
incerto sui propri sentimenti, diviso com’è tra la voglia di avvicinarsi a Caterina e
la passione per Teresita, ma anche sulla propria sorte. Il giovane progetta di
partire per l’isola di Caso (Grecia) dove Romeo Bogni, “un tipo dai mille
mestieri”(p. 134) che poi verrà arrestato per truffa, gli ha promesso un lavoro negli
uffici di una compagnia mineraria: con l’arresto di Bogni sfuma l’idea di andare in
un luogo simbolo di una sorte “sempre affidata al caso apparentemente” (p. 132),
proprio come nel gioco delle carte. Al rapido passare delle stagioni corrisponde il
serrato susseguirsi degli eventi e viene annunciato il matrimonio fra il Tibiletti e
Caterina, malata di tisi come annuncia il dottor Trigona: ma il narratore scopre che
proprio il medico ha una relazione con Caterina e che il Tibiletti accetta comunque
22
Tutte le citazioni sono tratte da P. Chiara, Una spina nel cuore, Mondadori,
Milano 2001.
12
la situazione per amore della ragazza, in attesa di un figlio di cui non si sa chi sia il
padre. Alla fine del libro l’io narrante di ritorno da Trieste apprende della morte di
Caterina – non di tisi ma di un incidente che è costato la vita anche al Tibiletti - e
dopo aver sostato davanti alla lapide dei due sposi prende il tram che lo riporta al
suo paese, “al luogo d’origine, o meglio al punto di partenza, d’ogni bene e d’ogni
male che mi era toccato e che poteva ancora toccarmi” (p. 157). Alla fine del
percorso ci si ritrova quindi là dove l’avventura era iniziata, consapevoli che il
gioco della sorte, prima o poi, si rimetterà in moto con nuovi accadimenti.
Se il tema del romanzo è, come dice Chiara stesso, “il tentativo di penetrare il
mistero dell’animo femminile” (p. 162), resta però la sensazione di un’ambiguità
che non riguarda solo la donna. In realtà ogni personaggio del romanzo è diverso
da quello che sembra. È così anche per lo Sberzi, il proprietario del Metropole che
ospita i due protagonisti nel suo albergo ma, quando l'io narrante torna a casa,
raggiunge Caterina in camera da letto. Questo personaggio compariva già in Il
piatto piange, a conferma del fatto che spesso ci si ritrova in storie diverse ma in
fondo non troppo dissimili l'una dall'altra. Del resto anche l’io narrante, per quanto
innamorato di Caterina, non rifiuta l'amore di Teresita. Sembra quindi di assistere a
una sorta di sospensione del giudizio nei confronti dei personaggi, come se Chiara
volesse limitarsi a contemplare l’imprevedibilità del gioco più intricato che ci sia,
quello dei sentimenti. Se si accetta di correre un rischio, al tavolo da gioco come
nella vita, si rischia di perdersi al punto di non sapere più che carte giocare,
soprattutto se si tratta di un’esperienza sentimentale perché “l’uomo innamorato, e
peggio ingelosito, è destinato a dar nei muri con la testa, al pari d’un cieco quando
inferocisce” (p. 88).
V. METTERSI IN GIOCO: L’EPILOGO DI UNA SCELTA
Amore e gioco si intrecciano anche in un altro romanzo scritto in prima persona,
Vedrò Singapore?.
23
Fin dal titolo il libro reca i segni di un’incertezza esistenziale
che affligge il protagonista, aiutante di cancelleria in pretura, già nelle prime
pagine:
Del perché fossi in viaggio verso Aidussina con quella valigia, in quel giorno e in quell’ora prossima
al buio, non avevo quasi coscienza. Sulla necessità e quasi sulla realtà della mia presenza nel mondo
e quindi su ciò che mi occorresse fare, momento per momento, avevo sempre nutrito dei dubbi (p.
10).
La sua stessa destinazione resterà sempre incerta visto che i viaggi lo porteranno
da una sede pretorile all’altra, da Aidussina dove si gioca a poker in ufficio – l’io
narrante partecipa su invito del suo diretto superiore – a Cividale, dove viene
trasferito dopo che negli uffici di Aidussina l’Alto Commissario Mordace lo ha
sorpreso insieme al pretore e ad altri due funzionari con le carte in mano. Il tema
23
Tutte le citazioni sono tratte da P. Chiara, Vedrò Singapore?, Mondadori,
Milano 1981.
13
del viaggio caratterizza molte opere di Chiara e più avanti sarà opportuno
analizzarlo più profondamente; per ora basta dire che il primo impatto con Cividale
porta alla scoperta di un bar, a conferma dell’importanza di questo luogo simbolico:
“Sotto un portico vidi il Caffè Longobardo, con tabaccheria, bigliardo, sale superiori
e una schiera di tavolini che occupavano il portico e un tratto della piazza. – Sarà il
mio caffè – pensai. E sedetti a un tavolino” (p. 113). Al caffè sono legati i momenti
più significativi di questo soggiorno, segnato dalle partite di biliardo e dal
tormentato amore per la cassiera Ilde. Emerge in queste pagine la capacità di
Chiara di avvincere il lettore con una felice descrizione d’ambiente (la sala in cui si
gioca è elegante, ornata di ritratti che rappresentano l’intera dinastia longobarda)
e, soprattutto, con la galleria di personaggi che si alternano nelle partite. Degli
avventori abituali fa parte il conte Cramper: si tratta di “un bel vecchio con la
barba bianca” (p. 117) ormai in miseria che gioca con l’io narrante fino alle ventuno
raccontandogli delle notti trascorse anni prima a Luino, e ogni sera raggiunge
l’amante settantenne mentre la moglie, senza accorgersi di essere rimasta sola
perché “priva di timpani e quasi cieca” (p. 119), arriva a casa convinta di averlo
dietro di sé. Nonostante questi aspetti decisamente comici il conte resta un
“gentiluomo dal grande passato che anche da povero, imponeva rispetto” (pp. 119-
120). Il personaggio più notevole è però il notaio siciliano Arca, mutilato di guerra
e giocatore d’impeccabile lealtà: “Il suo viso quadrato, imperioso e tuttavia gentile
pareva quello d’un guerriero ariostesco, un Orlando, un Rinaldo di Montalbano o
meglio ancora un Ferraù”(p. 121). All’uscita dal caffè il notaio, seguito dall’io
narrante e alcuni altri avventori, percorre le strade di Cividale e racconta le
imprese erotiche della sua gioventù rivelandosi “gran narratore della sua vita e
fabulatore di se stesso” (p. 124), secondo una definizione che sembra incarnare
perfettamente l’ideale narrativo di Chiara. I racconti di Arca durano anche alcune
ore lasciando in chi lo ascolta “il desiderio di altri racconti [...] fino a consumare
tutta la vita in quel modo, che credevamo il migliore possibile” (ibidem). Lo stesso
principio di spensierata disponibilità ad apprezzare la vita spinge il protagonista di
Vedrò Singapore? a vivere una serie di esperienze erotiche, come il legame con
Olga, figlia del padrone dell’Albergo Rinoceronte dal quale l’io narrante deve
fuggire quando il padre della ragazza scopre la relazione, o quello con Anna, in
compagnia della quale viene colto in atteggiamento inequivocabile da Mordace
dentro la pretura di Cividale. La figura femminile più importante del libro è però
senza dubbio Ilde, la cassiera ambita da tutti che alla fine decide di entrare in una
casa di tolleranza per uscire dalle sue difficoltà economiche. L’intrigo erotico ha
poi il sopravvento con il tragicomico resoconto delle avventure di Trieste, dove
Ilde è andata a lavorare e il protagonista viene preceduto nell’ingresso alla casa di
tolleranza da Fasulo, deforme ma ricchissimo uomo d’affari. Qualche giorno dopo
l’incontro con Mordace sulle scale del bordello fa scattare la vendetta dell’aiutante
di cancelleria che colpisce l’Alto Commissario con una testata allo stomaco. Un
vero e proprio disturbo clinico, la picnolessia, fa ottenere all’io narrante
un’aspettativa dovuta a esigenze di salute, ma sarà Fasulo a salvarlo dall’ira di
Mordace offrendogli un incarico su una nave diretta a Singapore. L’incertezza del
giovane, che a un certo punto del libro si ritrova significativamente ossessionato
14
dal verbo accadere (“Cosa accadrà? Che mi accadrà? Me lo andavo domandando
non perché mi preoccupassi dell’avvenire che mi aspettava, ma solo perché non
potevo liberarmi dal verbo accadere”(p. 146) e alla fine non sa se restare a bordo
fino al termine del viaggio o abbandonare la nave di Fasulo allo scalo di Bari per
tornare al lago Maggiore, ribadisce l’impossibilità di ricondurre il personaggio a
una definizione precisa. In bilico tra l’amarezza esistenziale (dopo la scelta di Ilde)
e la voglia di vivere che traspare dalla stessa decisione di diventare cliente della
giovane cassiera, il giovane esprime un atteggiamento fondamentalmente
edonistico anche di fronte al suicidio di un avvocato. Un ragioniere afferma che il
suicidio è dovuto alla consapevolezza che la vita è un inganno che alla lunga stanca
l’essere umano, costretto a una continua finzione:
A me invece – commenta l’io narrante – il vivere pareva mi si aprisse davanti come certe
mattinate di primavera in campagna, quando ogni fiore, ogni foglia, ogni goccia di rugiada sembra
promettere un miracolo, e la giornata che incomincia, piena d’aria e di luce, è proprio quel miracolo,
quel comporsi d’ogni cosa
(p. 134).
Apprezzare i piaceri della vita non significa però ignorarne gli aspetti drammatici,
ma semplicemente saper cogliere quel che c’è di positivo nelle vicissitudini
quotidiane. Tale disposizione d’animo non implica quindi che in Chiara manchi la
consapevolezza della difficoltà di vivere, e lo conferma la scelta di Ilde a favore
della casa di tolleranza: in una prostituta che incontra subito dopo aver saputo di
questa decisione il protagonista riconosce “lei, la Ilde, a quarant’anni, che veniva
dall’avvenire, dal futuro, a dirmi che la vita è quella che è, orribile ma
sopportabile” (p. 183). Tale atteggiamento può sembrare superficiale ma di fatto
rappresenta l’unica risposta possibile, per quanto amara, dell’individuo esposto a
una sorte che comunque non gli è dato di padroneggiare. Anche la critica sembra
riconoscere nel romanzo un’amarezza di fondo che accompagna l’intera narrazione.
Giulio Nascimbeni
24
riconosce a Chiara la capacità di descrivere abilmente la vita
provinciale (“Quello che resta con più intensa durata è il sapore, la polpa, la carne
della provincia”) sottolineando il “senso assoluto della vita di provincia” proprio
dell’autore ma coglie anche, significativamente, “l’arguzia e la malinconia che sono
sparse a piene mani in questo libro” conferendo all’opera un “tono più alto e
sofferto rispetto ad altri libri”. Anche Carlo Sgorlon
25
parla di “un certo tono di
diffusa malinconia” anche se preferisce soffermarsi sul taglio picaresco del
romanzo, dove i personaggi “recitano il loro copione personale sfilando dentro il
perenne teatrino del mondo”. Importante è il riferimento di Sgorlon alle origini di
Chiara che “come scrittore non viene dalla biblioteca ma dalla gavetta: viene dai
caffè, i vicoli, i tinelli e le preture di paese e di provincia”, né va dimenticato il
riferimento a Felix Krull, l’eroe manniano di cui Chiara è “se non un fratello,
almeno un cugino” a conferma della grande importanza assunta nel libro
dall’elemento avventuroso.
24
Tutte le citazioni sono tratte da G. Nascimbeni, Cara, vecchia, terribile
provincia italiana, in Corriere della Sera, Milano, 26/3/1981.
25
Tutte le citazioni sono tratte da C. Sgorlon, Sogni di fuga a Singapore, in Il
Giornale, 1/3/1981.
15
Da queste valutazioni positive si distacca almeno in parte Giulio Carnazzi che in un
ampio intervento
26
distingue la produzione narrativa di Chiara in due periodi, il
primo dei quali è caratterizzato da una felice rievocazione di un piccolo ambiente di
provincia dove si svolge “una vita ridotta ai termini essenziali, in cui contano le
donne, lo svago, e quel tanto di consenso sociale che può venire dagli amici riuniti
al caffè all’insegna di un legittimo e naturale edonismo” (p. 39). Le storie sono
ambientate negli anni Trenta ma “nel quadro non entrano se non di striscio le
contraddizioni e i drammi della storia” (p. 40) perché a Chiara interessa
trasmettere al lettore un messaggio tonificante e consolatorio che non incide nel presente e
nemmeno sa rintracciare nel passato le tensioni reali della condizione storica – sostanzialmente
evasivo nel rimandare a una dimensione “altra” piacevolmente sigillata nella memoria (ibidem).
A partire dagli anni Settanta Chiara cerca invece “di conferire ai personaggi un più
consistente spessore” (p. 49) per dare luogo a “un’immagine parzialmente diversa
di sé” (p. 50). Nascono così opere che secondo Carnazzi restano sospese “tra le
suggestioni della narrativa “alta” e le esigenze della narrativa di consumo” (p. 52):
in particolare Vedrò Singapore? è un progeto narrativo ambizioso ma
sostanzialmente fallito, perché “pare nato dall’innesto di due racconti lunghi non
perfettamente sincronizzati” (p. 53), dove la narrazione dell’amore per Ilde,
concentrandosi sulle emozioni del protagonista, “sembra staccarsi per caso, come
cellula vagante, dal ritratto corale, d’ambiente, tratteggiato nei primi capitoli“
(ibidem).
Alla luce di quanto fin qui esposto il romanzo appare invece un momento
fondamentale nell’opera di Chiara, che con questo libro afferma definitivamente la
sua concezione della vita come continua avventura, come disponibilità a
confrontarsi con il corso mutevole delle cose. Vedrò Singapore? esorta ad
assaporare la gioia di vivere anche quando il gioco del caso sembra avere un ruolo
decisivo tra i mazzi di poker, le scommesse del biliardo e i continui spostamenti di
sede di cui, come ci informa all’inizio, l’io narrante non si rende nemmeno del tutto
conto. Non sappiamo ciò che ci aspetta ma non per questo, sembra dire l’autore, è
necessario rinunciare alle esperienze positive – una partita con gli amici, una
conoscenza femminile – che la vita può dare, anche se si resta comunque in balia di
eventi non pienamente prevedibili. Il libro esprime dunque quei valori che Chiara
ha sempre affermato anche se mostra una maggiore consapevolezza delle difficoltà
che ognuno di noi può incontrare. Non a caso dopo Vedrò Singapore? non ci
saranno più romanzi scritti in prima persona, come dimostra il postumo Saluti
notturni dal passo della Cisa
27
, incentrato su un omicidio.
26
G. Carnazzi, Piero Chiara da Luino a Singapore, in Pubblico, 1982, pp. 37-55
Tutte le citazioni sono tratte da questa edizione.
27
P. Chiara, Saluti notturni dal passo della Cisa, Mondadori, Milano 1988.
16
VI. UN PERCORSO: LA LETTERATURA DELL’AZZARDO E I SUOI SIGNIFICATI
L’analisi di alcuni scrittori può far intuire la molteplicità di significati riconducibili
alle carte e, più in generale, al gioco d’azzardo. Il percorso proposto parte da
Dostoevskij, ma si rifà soprattutto ad esperienze novecentesche, per approdare a
Tommaso Landolfi che ha legato molte delle sue pagine alla rappresentazione del
tavolo verde.
Nel Giocatore di Dostoevskij (1866) il precettore Aleksej racconta di una vera e
propria ossessione per il gioco.
28
La storia ruota intorno ad un generale russo
ormai caduto in disgrazia e all’amore di Aleksej per sua figlia Polina. La famiglia
trascorre a Roulettenburg, località tedesca dal nome tanto fittizio quanto allusivo,
una villeggiatura molto tormentata a causa di gravissime difficoltà economiche. Le
speranze di riscatto si affidano all’eredità della ricca nonna: quest’ultima però è più
arzilla che mai e piomba in Germania, dove sorprende tutti realizzando al tavolo
verde una vincita formidabile. Presa dalla smania di giocare ancora, l’anziana
parente perde più di ciò che aveva vinto all’inizio. L’intreccio di questi temi –
l’amore, il denaro e il gioco d’azzardo – corre per tutto il racconto culminando nella
vittoria di Aleksej che una sera riceve la visita di Polina, venuta a confidargli la sua
angoscia per le finanze della famiglia. Lasciandola di stucco, Aleksej corre alla
roulette: finisce per vincere ma la ragazza rifiuta il suo denaro. Dopo aver
dilapidato la sua piccola fortuna, il precettore conclude il suo racconto augurandosi
una nuova puntata favorevole: la sua vita è ormai legata alle case da gioco e non
può più separarsene, nemmeno per amore di Polina che invano gli fa sapere di
volerlo sposare.
Come si vede da questa succinta esposizione della trama, al centro dell’opera c’è
una progressiva perdita di lucidità. All’inizio Aleksej vede il gioco come un
desiderio legittimo (“Non vedo proprio nulla di sudicio in quel desiderio di
guadagnare più presto e di più”, p. 15) e distingue nettamente tra il giocatore
“plebeo” e il giocatore “gentiluomo”. Quest’ultimo infatti “non deve affatto
interessarsi alla vincita in sé e anzi il profitto e il trucco sui quali è fondato e
organizzato il banco, egli non deve neppure sospettarli” (p. 16). Il giocatore di
classe ha quindi un atteggiamento distaccato che lo porta ad ignorare l’esito della
scommessa:
Il vero gentiluomo, anche se perdesse tutte le sue sostanze, non deve agitarsi. I denari devono
essere a tal punto più in basso della sua qualità di gentiluomo da non metter conto che egli se ne dia
pensiero (pp. 16-17).
Quanto all’ambiente del Casino, è ammesso osservarlo da vicino “ma soltanto
considerando quella folla e quel sudiciume come uno svago di tipo particolare,
28
Tutte le citazioni sono tratte da F. Dostoevskij, Il giocatore, Bompiani,
Milano 1987.
17
come uno spettacolo organizzato per il divertimento dei gentiluomini” (p. 17). Al
contegno di chi gioca con classe si contrappone chi vive il gioco come una scelta
estrema, indipendente dalla sua volontà. Sarà questa la sorte di Aleksej, che dopo
essersi soffermato in distinzioni così precise dovrà ammettere la propria mancanza
di equilibrio, ma anche per la nonna che si è avvicinata ai tavoli per pura curiosità e
dopo la vittoria viene presa dal desiderio insopprimibile di puntare ancora: “La
nonna era in uno stato d’animo impaziente e irritato; si capiva che la roulette le
stava fissa in mente” (p. 93). Questa brama di scommettere sembra in realtà legata
a un inconscio desiderio di autodistruzione:
Il giorno dopo ella perdette tutto, definitivamente. Così doveva accadere: chi, tra le persone come
lei, capita una volta su quella strada, è come se scivolasse in slitta da una china nevosa, sempre più
in fretta, sempre più in fretta…(p. 105).
Anche Aleksej fa parte di queste persone, infatti quando riceve la visita di Polina
sembra più vicino alla follia che a una scelta consapevole. Egli corre a giocare per
salvare la famiglia ed è ossessionato dall’idea della vittoria:
Certo io ci pensavo, ripeto, e non come a un caso che può accadere tra molti altri (e quindi può
anche non accadere), ma come a qualcosa che non può assolutamente non accadere! (pp. 117-118)
C’è un momento di paura (“un brivido gelido mi fece tremare le braccia e le
gambe”, p. 119), ma dopo l’ennesima puntata favorevole il protagonista non è
nemmeno più in grado di capire le proprie emozioni: ”Ormai non provavo più nulla,
aspettavo soltanto, macchinalmente, senza pensieri” (ibidem). L’ossessione del
gioco è quindi un processo mentale che porta dalla speranza alla certezza di
vincere, dalla sovreccitazione all’incapacità di emozionarsi. La convinzione assoluta
di Aleksej non scompare nemmeno alla fine quando, ormai ridotto senza denaro e
incapace di abbandonare la roulette, si mostra ancora fiducioso in una vittoria che
gli consenta di non scommettere più: “Domani, domani tutto finirà!” (p. 152).
Secondo Renè Girard
29
“tutto il romanzo si fonda sull’identità segreta fra il gioco e
l’erotismo” (p. 59) perché “l’amante […] è esposto al caso proprio come il
giocatore” (ibidem). Per conquistare una donna occorre infatti mascherare il
proprio desiderio, così come al gioco non bisogna essere troppo insicuri:
la roulette, come la donna, maltratta coloro che si lasciano affascinare da lei, coloro che hanno
troppo timore di perdere. […] Per questo soltanto i ricchi vincono: essi possono permettersi il
lusso di perdere. Il denaro attira denaro; allo stesso modo soltanto i don Giovanni seducono le
donne, perché le ingannano tutte (p. 59).
Secondo lo studioso francese, l’atteggiamento di Aleksej cambia dopo che Polina
va a fargli visita ed egli decide di correre a giocare: recandosi da lui la ragazza
perde la sua aura di irraggiungibilità e il desiderio del precettore si sposta
dall’ambito erotico a quello ludico. La complessità del suo rapporto con la donna
29
R. Girard, Dostoevskij: dal doppio all’unità, SE Studio Editoriale, Milano
1987. Tutte le citazioni sono tratte da questa edizione.
18
amata emerge d’altronde fin dall’inizio del romanzo, in bilico tra volontà di
distruzione e masochismo:
Giuro che se fosse stato possibile affondar lentamente nel suo petto un acuminato coltello, l’avrei
fatto con gioia. E nello stesso tempo giuro, su tutto quanto ho di più sacro, che se sullo
Schlangenberg, la vetta di moda, ella mi avesse detto: “Buttatevi giù”, l’avrei fatto immediatamente
e perfino con voluttà
30
(p. 13).
Il rapporto con la roulette è caratterizzato da un’analoga tendenza all’autocritica,
cui si accompagna un’irrealistica speranza di rifarsi:
Ed ecco che è trascorso un anno e mezzo e sono diventato, a mio parere, peggio di un mendico! Ma
che mendico! Me ne infischio della mendicità! Mi sono semplicemente rovinato! […] Il fatto si è che
basta un giro di ruota per cambiar tutto, e quegli stessi moralisti verrebbero per primi (ne sono
convinto) a rallegrarsi con me. E allora non mi volterebbero le spalle come fanno adesso. Ma me ne
infischio di tutti loro! Che cosa sono io, adesso? Uno zero. Che cosa posso essere domani? Domani
posso risuscitare dai morti e ricominciare a vivere! Posso ritrovare in me l’uomo, fino a che non è
ancora perduto! (p. 143).
Questo complesso intrecciarsi di autocommiserazione e speranza, di umiliazione
penosa e brama di riscatto sembra riconducibile alla suggestiva ipotesi di Freud
31
che attribuisce a Dostoevskij una nevrosi originata dal rapporto col padre: “si
vorrebbe essere al posto del padre perché lo si ammira e perché si vorrebbe
essere come lui e anche perché lo si vuole togliere di mezzo” (p. 83). Il padre dello
scrittore, un uomo molto duro, temuto e odiato dal figlio, morì assassinato. Il
genitore è oggetto da un lato di un’identificazione (Super-Io) e dall’altro (Io) di “un
potente bisogno di punizione che […] trova appagamento nel maltrattamento ad
opera del Super-Io (coscienza di colpa) “ (p. 75). In realtà “ogni castigo in fondo è
l’evirazione, e come tale realizzazione del vecchio atteggiamento passivo verso il
padre” (ibidem). A questa condizione sadomasochistica Freud riconduce gli attacchi
epilettici di cui soffriva Dostoevskij e la sua dipendenza dal gioco d’azzardo:
Egli non trovava pace fin quando non aveva perduto tutto. Il giuoco era per lui anche un modo di
punirsi. […] Quando con la sua perdita aveva gettato sé stesso e la moglie nella miseria più nera ne
traeva un secondo soddisfacimento patologico. Poteva coprirsi d’ingiurie al suo cospetto, umiliarsi,
intimarle di disprezzarlo, recriminare ch’ella avesse sposato lui, vecchio peccatore, e dopo essersi
così sgravato la coscienza ricominciava da capo il giorno successivo (p. 83).
A questa spiegazione sembra riconducibile anche il tormentato rapporto di Aleksej
con Polina e la sua incapacità di affrontare una vera e propria relazione con lei,
perché “la passione del giuoco, con la sconfitta nella lotta per perdere il vizio e le
occasioni che offre per l’autopunizione, ripete la coazione onanistica” (p. 87). Il
tema del compiacimento della sofferenza era già stato affrontato da Dostoevskij
nelle Memorie del sottosuolo (1864), scritte da un io narrante ormai tagliato fuori
dal mondo civile: “è appunto nella disperazione che si hanno i godimenti più
30
F. Dostoevskij, Il giocatore, op. cit., p. 13.
31
S. Freud, Ibsen Shakespeare e Dostoevskij, Boringhieri, Torino 1976; le
citazioni sono tratte da questa edizione.
19
ardenti, specialmente quando senti con molta forza che dalla tua situazione non c’è
via d’uscita”
32
. Un importante studio relativo alle Memorie è quello di Aldo
Carotenuto
33
che vede al centro dell’opera un uomo “individuato dal suo mondo
interiore” (p. 15). La scelta della solitudine è legata al senso di colpa di
Dostoevskij per la morte del padre, ma Carotenuto ritiene che anche la solitudine
abbia un valore positivo in quanto permette di osservare la realtà circostante con
occhio distaccato. L’uomo solo di Dostoevskij è sì incapace di comunicare con gli
altri (pur sentendone il bisogno), ma sa anche cogliere con grande acutezza i limiti
delle persone comuni, troppo ossessionate dall’ansia di raggiungere dei traguardi.
Il giocatore Aleksej si contrappone a questo modello etico e si avvicina al
narratore delle Memorie perché gli uomini come lui “non puntano tanto sul
compimento dell’opera ma sul suo svolgersi, non sulla meta ma sul cammino” (p.
69). Questa assenza di progetti troppo rigorosi è positiva ma ciò che manca
davvero ad Aleksej e all’uomo del sottosuolo è la capacità di confrontarsi con
l’altro, in una condizione di solitudine dolorosa e ostentata. È per questo che
l’uomo del sottosuolo, dopo aver mostrato tutta la propria fragilità alla prostituta
Liza e averne ricevuto in cambio un abbraccio, rifiuta di farsi aiutare, rifiuta
l’amore. Accettare il confronto con l’altro significa uscire da se stessi,
abbandonare il proprio isolamento, ma anche perdere le proprie certezze. Liza e
Polina diventano così figure che amano ma, a causa della disperata ostinazione
dell’uomo amato, non riescono a redimere. Resta comunque la consapevolezza dei
propri limiti, di cui parla anche Milli Martinelli che così si esprime su Dostoevskij e
il suo rapporto col gioco:
E dal fondo dell’abisso di sofferenza e di degradazione nel quale precipita dopo le terribili perdite al
gioco egli prova una sorta di delirio di rigenerazione, come dopo ogni tragica esperienza. La sua
“concezione del male” come condizione stessa della libertà, ma anche, attraverso la sofferenza che
ne deriva, come percorso di espiazione, di rigenerazione e di conoscenza, è il nucleo tematico di
tutte le sue opere successive: ciò non è mai tuttavia frutto di astratta speculazione, ma sempre
proiezione fantastica di un’esperienza viva e bruciante.
34
In questo senso Il giocatore si inserisce all’interno di un più vasto itinerario che
culmina nei Fratelli Karamazov, dove Dostoevskij riflette sulla colpa e sulla
necessità di prenderne coscienza. Aleksej rifiuta l’amore di Polina e preferisce
restare nella propria solitudine, ma Dmitrij Karamazov accetterà di uscirne
assumendosi la colpa di un delitto non commesso, per alleviare la condizione di
dolore che caratterizza la vita dell’uomo. La prospettiva del Giocatore è quindi ad
un tempo psicologica, con l’indagine del vizio e le suggestioni autobiografiche, ed
etica perché compresa in un cammino di riflessione che prosegue fino all’ultima
opera narrativa.
32
F. Dostoevskij, Memorie dal sottosuolo, Einaudi, Torino 1988, p. 10.
33
A. Carotenuto, I sotterranei dell’anima, Bompiani, Milano 1993. Le citazioni
si riferiscono a questa edizione.
34
M. Martinelli, Leggere Dostoevskji. Viaggio al centro dell’uomo, Edizioni
Unicopli, Milano 1999, p.88.