5
Si dimostrerà poi come il regista non abbia attinto passivamente da questo
genere, ma lo abbia sfruttato per definire un suo stile molto particolare e per
creare un universo originale, al quale è impossibile e riduttivo attribuire
un’etichetta. Il regista ha reso omaggio a coloro che considera i suoi maestri, ma
nello stesso tempo ha ironizzato su alcuni stereotipi e meccanismi del genere,
sfruttandoli per consolidare le caratteristiche del mondo che racconta.
Nel terzo capitolo, si passerà ad un’analisi più approfondita dell’opera
melvilliana, in particolare analizzando Le Doulos e Le Samouraï. Due film che
riassumono in modo chiaro le fasi del cammino percorso dall’autore. E’, infatti,
possibile considerare Le Doulos, un film in cui le tracce del noir americano si
intrecciano ai primi germi di un universo che arriverà al suo completamento in Le
Samouraï.
Il terzo capitolo sarà dunque dedicato a quello che si riterrà il fulcro intorno al
quale ruota tutto il mondo raccontato dal regista: l’eroe.
Si definiranno due categorie d’eroe, mettendole a confronto e individuando nel
termine asceta il riassunto delle sue caratteristiche fondamentali. Per fare questo,
si approfondirà il rapporto fra l’eroe e l’ambiente, l’eroe e le donne, cercando di
spiegare la morale e la particolare visione del mondo che guida questi uomini.
Infine, nell’ultimo capitolo si concentrerà l’attenzione sul tipo di rapporto che
Melville instaura con i personaggi e con lo spettatore, divertendosi a coinvolgere
entrambi in un gioco basato sull’inganno e il falso indizio. Si aprirà una piccola
parentesi sul rapporto che l’eroe instaura con l’altra metà dell’universo
melvilliano, la polizia, e sul modo in cui Melville attraverso un uso non
convenzionale della colonna sonora, riesca a completare e regalare allo spettatore
la percezione di un mondo completamente astratto ed etereo in cui si consuma la
tragedia di uomini, che, piuttosto che scendere a compromessi con un mondo
corrotto e subdolo, scelgono la morte per riaffermarsi ancora una volta in quanto
esseri trascendenti tanto lontani dalla normalità dell’uomo comune.
6
CAPITOLO I
JEAN-PIERRE MELVILLE FRA FRANCIA E
STATI UNITI
1.1. Jean-Pierre Melville e il cinema francese
Jean-Pierre Melville ha avuto nella storia del cinema francese una
posizione alquanto controversa. Amato e odiato da pubblico e critica, con le sue
opere ha segnato il passaggio dal cinema conformista e censurato dei primi anni
successivi al dopoguerra, al cinema di rottura affermatosi con la Nouvelle vague.
Ha avuto, quindi, un ruolo fondamentale, anche se non riconosciutogli a causa del
rapporto discontinuo che ebbe con l’ambiente del cinema, sin dall’inizio della sua
carriera. Per anni fu ignorato, stroncato dalla critica (solo alcuni si resero conto
della sua importanza) e snobbato dagli altri registi che gli attribuirono l’etichetta
di “amatore”, perché aveva imparato a fare cinema, utilizzando cineprese
amatoriali e frequentando assiduamente le sale di proiezione. Un cinema pieno
d’imperfezioni e d’errori, ecco come venivano classificati i suoi film.
Nell’intervista concessa a Bertrand Tavernier e Claude Beylie si legge:
"(…)Un certain nombre de critique continuent à dire que Melville est par trop
un amateur, parce que j’aime – oh combien ! – le cinéma, que je ne veux pas prendre au
sérieux et que je continue à penser que tout le monde peut essayer de s’exprimer par le
cinéma(…)Mais là où je suis pas un amateur, c’est quand je me crois, parmi les metteurs
7
en scène français, le plus technicien de tous. J’accepterais volontiers de passer un examen
avec tous mes confrères, pour savoir qui, d’entre nous est le plus technicien. Je suis sans
doute le seul à savoir me servir d’une caméra(…)"
1
Come si può notare dalle sue parole, Melville dimostrava una sicurezza delle
proprie capacità ed un’arroganza, che infastidivano l’ambiente del cinema a tal
punto da procurargli dei nemici e da isolarlo sempre di più. Lui però, non se ne
curava troppo, esprimeva le proprie idee senza pensare alle conseguenze.
Conseguenze che furono evidenti verso la fine della sua carriera, quando la
solitudine che aveva sempre ricercato per lavorare, fu causata da suoi
atteggiamenti duri e scontrosi nei confronti degli altri sul set e nella vita
quotidiana.
In realtà, da interviste a suoi amici e collaboratori, pubblicate da Zimmer e
Bechade in “Jean-Pierre Melville”
2
si deduce che Melville non fosse un solitario.
Era sempre circondato d’amici e aspiranti cineasti con cui si dimostrava una
persona aperta e amichevole. Amava più che altro affermare di esserlo e amava
definirsi un incompreso. Essere un out-sider faceva parte del personaggio che si
era costruito.
In queste pagine però è chiaro quanto fosse difficile avere a che fare con un
uomo dalla forte personalità, dalle passioni estreme, ma allo stesso tempo molto
sensibile. Era ironico e divertente, aveva un gran senso dell’amicizia, amava gli
altri, se stesso, il cinema, gli oggetti in modo totale; era capace dedicarsi
completamente alle persone che gli stavano a cuore, ma in cambio pretendeva una
dedizione assoluta. Bastava poco, perché si sentisse tradito e dichiarasse guerra a
coloro che lo avevano ferito. Così accadde con Jean-Luc Godard che lo accusò di
avergli rubato il finale di À bout de souffle in Le Doulos (Lo Spione, 1962 ),
rovinando una grande amicizia, segnata anche da qualche collaborazione
(Melville recitò la parte di Parvulesco nel suo primo film À bout de souffle).
1
"… un certo numero di critici continua a dire che Melville sia fin troppo amatore. Ora, ben
inteso, io sono un amatore, perché amo –oh quanto!- il cinema tanto da non volerlo prendere sul
serio e da pensare che tutti dovrebbero provare ad esprimersi attraverso il cinema (…) Ma non
sono un amatore quando mi ritengo, fra i cineasti francesi, il più tecnico di tutti. Accetterei
volentieri di sostenere un esame con tutti i miei confratelli, per sapere chi fra noi è il più tecnico.
Sono senza dubbio il solo a saper utilizzare una cinepresa (…)” Beylie, Claude e Tavernier,
Bertrand, "Entretien avec Jean-Pierre Melville", Cahiers du cinéma, n° 124, ottobre 1961, pp. 1-
22.
2
ZIMMER, Jacques e de BÉCHADE, Chantal, Jean- Pierre Melville, Ediling, Paris, 1983.
8
Non ammetteva critiche al suo lavoro o pareri non positivi sulla sua persona.
Ad esempio, in un’intervista, facendo riferimento ad una dichiarazione di Jeanne
Moreau ( aveva affermato di non volere mai lavorare con Melville), disse:
“(…)nul doute que j’aurais aimé faire un film avec Jeanne Moreau, il y a dix ans. Je
dis cela parce que j’ai lu dans une revue que Mme Moreau ne veut tourner avec moi.
C’est drôle. Parce qu’elle sait très bien que c’est moi qui ne veux pas tourner avec
elle(...)”
3
Il suo perfezionismo e la sua grande indipendenza non gli facevano accettare
né di perdere né di essere comandato da altri. Non ammetteva alcun tipo di
consiglio o intromissione durante le riprese. Aveva una tale conoscenza di tutti i
mestieri del cinema da non concepire l’impossibilità di realizzare qualcosa. Era
molto esigente con se stesso e con gli altri e soprattutto non amava essere
contraddetto. Se voleva ottenere qualcosa, nessuno poteva cercare di fargli
cambiare idea.
Lui stesso raccontava come ogni minimo dettaglio del film, doveva essere
previsto e non doveva sfuggire al suo controllo. Ecco che il suo rigore potrebbe
spiegare il perché della sua vocazione ad essere un autore completo. Un rigore che
lo portava a scegliere personalmente l’abbigliamento del protagonista (più volte si
è parlato del suo feticismo per l’abbigliamento), gli oggetti presenti all’interno
degli ambienti decidendone anche la posizione.
Per quanto riguarda la sua indipendenza, è indicativo il fatto che Melville sia
stato un “franc-tireur”, un regista assolutamente fuori del sistema. Ha iniziato la
sua carriera, adottando dei metodi di produzione e realizzazione dei film
assolutamente innovativi nel panorama cinematografico francese, per poi ritornare
alla sicurezza delle produzioni in studio con star internazionali, quando la
nouvelle vague aveva normalizzato i metodi del suo debutto. Insomma regista
sempre in controtendenza, fu il primo a girare in esterni, con budget limitato ed un
équipe ridotta al minimo; il primo a preferire attori semisconosciuti, ad imporre
una recitazione sottotono e rifiutare il maquillage per dare maggior effetto di
3
“(…)nessun dubbio che mi sarebbe piaciuto girare un film con Jeanne Moreau, dieci anni fa.
Dico questo perché ho letto in una rivista che lei non vuole lavorare con me. E’ strano. Perché lei
sa molto bene che sono io a non voler lavorare con lei(…)”, Bureau, Patrick, “Chroniques
Melvilliennes”in Cinéma 68, n°128-129, settembre-ottobre 1968, pp. 35-43 e 74-91.
9
realismo. Fu però sempre lui ad affermare di preferire di girare in ambienti
ricostruiti con star come Jean Paul Belmondo, Alain Delon, Lino Ventura.
In effetti, non sarebbe possibile analizzare l’opera di Melville senza fare
riferimento a questi attori per i quali provava profonda ammirazione e grande
rispetto.
Sempre in “Chroniques melvilliennes” è possibile leggere le sue opinioni
sulle star:
- “Il est pourtant rare d’entendre un autre metteur en scène français dire, avec
ou sans coquetterie, je veux tourner avec une star.
- Mais parce que le plaisir est immense. D’abord je vais essayer de vous situer ce
que c’est qu’une star. Une définition américaine. Pour les Américains, une star
c’est quelqu’un comme tout le monde avec toutefois "something else extra", le
petit quelque chose en plus(…)Lino, Jean Paul, c’est la même chose. Des
sécurités, des certitudes de gestes. Tout est là(…) Les premiers couteaux ne
marchent pas comme les deuxièmes. Ils font des gestes exacts, ils savent tenir un
verre, un revolver(…)"
4
Questi attori incarnarono il personaggio melvilliano e diedero un contributo
fondamentale al racconto di un universo che era quello proprio del regista :
“(…)Disons que un créateur doit apporter son univers dans un film. C’est capital. Si
un créateur de cinéma n’a pas d’univers, il n’a pas grand-chose à dire et il ne sera qu’un
réalisateur qui dira "moteur" et "coupez"(…) Je crois que un créateur de cinéma est un
monsieur (…)qui apporte son univers, y enferme les acteurs et, a l’intérieur de cet
univers, sert les acteurs, complètement. Il faut que les acteurs se sentent bien dans un
film, c’est indispensable(…) "
5
4
“- è raro sentire un altro regista francese dire, con o senza civetteria, voglio lavorare con una
star. - ma perché è un piacere immenso. Per prima cosa, cerco definirvi cosa sia una star. Una
definizione americana. Per tutti gli americani, una star ha una persona come tutti gli altri, ma con
“something else extra”, quel qualcosa in più…. Lino, Jean Paul è la stessa cosa. Una sicurezza dei
gesti. Tutto qui. Le star non lavorano come gli attori di secondo piano. Fanno dei gesti esatti,
sanno come tenere in mano un bicchiere, una pistola.”, Bureau, Patrick, “Chroniques
Melvilliennes” in Cinéma 68, n°128- 129, settembre- ottobre 1968, pp.34- 43 e pp. 74- 91.
5
“… diciamo che un creatore deve raccontare il suo universo nei film. E’ di capitale importanza.
Se un creatore di cinema non ha un proprio universo, non ha grandi cose da raccontare e sarà solo
un semplice regista che dirà “ motore” e “taglia”(…) Credo che un creatore di cinema sia un
signore(…) che racconta il suo universo, ci chiude dentro gli attori e, all’ interno di questo
universo, è al completo servizio degli attori. E’ necessario che gli attori si sentano a proprio agio
nel film, è indispensabile(…)” Bureau, Patrick, “ Chroniques melvilliennes”in Cinéma 68, n°128-
129, settembre-ottobre, 1968, pp.34- 43 e pp. 74- 91.
10
Pensava che le doti più importanti di un regista dovessero essere uno spirito
d’osservazione, un’acutezza visiva e uditiva superiore alla media e una grande
memoria. Affermava che un vero regista dovesse custodire gelosamente i segreti
del suo mestiere, non svelandoli a nessuno.
Era allo stesso tempo un conservatore ed un innovatore. Aveva una mentalità
all’antica, molto tradizionalista: uomo di destra e anticomunista, faceva parte della
commissione per la censura, nonostante affermasse di essere contro qualsiasi tipo
d’interdizione. La sua grande preoccupazione era l’aumento di scene erotiche e
volgari all’interno dei film. Era però convinto che un regista non dovesse mai farsi
influenzare dal proprio orientamento politico, né tanto meno dalle proprie
opinioni religiose. Era un ateo, ma questo non gli impedì di girare una delle più
belle riflessioni sulla fede e sulla morale della religione: Leon Morin, prêtre (Leon
Morin, prete, 1961). Conduceva però una vita piuttosto singolare e insensata: la
sua casa, arredata con le scenografie dei suoi film, erano gli studi in cui girava e
lavorava volentieri di notte, costringendo tutta la troupe ad adattarsi ai suoi orari,
perché la luce del giorno lo disturbava.
Uomo molto colto, Melville era anche convinto che il cinema avesse un unico
scopo, quello d’intrattenere, e che non fosse un mezzo compatibile con la cultura:
“(…)Moi, je vais au cinéma seulement pour avoir du plaisir. C’est une grande
distraction(…) Ce n’est pas de la culture, le cinéma, cela ne peut être que du loisirs. (…)
On ne met pas les gens dans une salle pour leur apprendre quelque chose, mais pour les
distraire, pour leur raconter une histoire le mieux du monde et leur faire cette espèce de
spectacle de music- hall qui est le cinéma à la fin du compte(…)”
6
6
“…io, vado al cinema solo per piacere. E’ una grande distrazione(…) Non è cultura, il cinema,
non può che essere divertimento. Non riempiamo le sale di gente per insegnare qualcosa, ma per
distrarre, per raccontare una storia e costruire questa specie di spettacolo di music- hall che in fin
dei conti è il cinema(…)” Bureau, Patrick, “Chroniques Melvilliennes” in Cinéma 68, n°128- 129,
settembre- ottobre 1968, pp.34- 43 e pp. 74- 91.
11
1.2. Melville e la nouvelle vague
Tre furono i film che influenzarono i giovani registi della nouvelle vague: Le
silence de la mer (Il silenzio del mare, 1947), Les enfants terribles (I ragazzi
terribili, 1949) e Bob, le flambeur (Bob il giocatore, 1955).
Dopo una breve escursione nel mondo del circo, con il cortometraggio Beby,
l’ultimo dei grandi clown, girò nel 1947 il suo primo lungometraggio: Le silence
de la mer (Il silenzio del mare), tratto dall’omonimo romanzo di Vernon. Un
successo di pubblico che segnò l’inizio di quel rapporto conflittuale con
l’ambiente del cinema cui abbiamo fatto precedentemente riferimento. Il sindacato
dei tecnici e dei produttori e il Centro di Cinematografia era fortemente
politicizzati e tendevano ad ostacolare i giovani esordienti che non appartenevano
al partito. Così accadde a Melville al quale cercarono di ostacolare le riprese
(costringendolo a girare con un budget di appena nove milioni di franchi e in
clandestinità) e la proiezione del film nelle sale:
“(…)il y a eu contre moi cette guerre des Anciens qui ne voulaient pas voir de
nouveaux venus faire du cinéma.”
7
Proprio per questi problemi, sin da subito il regista accarezzò l’idea di
fondare una casa di produzione allo scopo di lavorare senza scendere a
compromessi con le regole del sistema. Poté farlo soltanto dopo aver accettato di
girare una co-produzione franco-italiana: Quand tu liras cette lettre (Labbra
proibite, 1953), unico film di cui non scrisse la sceneggiatura.
Le silence de la mer fu un film rivoluzionario se pensiamo che è stato il primo
non documentario francese girato in ambienti reali (la casa dell’autore del
romanzo, o meglio il salone della sua casa). Tratto dall’omonimo romanzo di
Vercors, significò per Melville la sfida di adattare un testo a suo parere anti-
cinematografico, ed il tentativo di girare un film utilizzando un linguaggio
7
“…c’è stata contro di me questa guerra degli Anziani che non volevano che dei nuovi arrivati si
mettessero a fare cinema.” , Cahiers du cinéma n° 124, “ Entretien avec Jean-Pierre Melville par
Claude Beylie et Bertrand Tavernier”, ottobre 1961, pp.1- 22.
12
costituito solo da immagini e suoni, in cui l’azione e il movimento fossero
assolutamente banditi. A questo si aggiungono altre scelte molto innovative: una
recitazione all’americana (under-play), la fotografia in bianco e nero, al posto del
grigio tipico dei film francesi e la preferenza di attori non truccati, per dare un
maggiore effetto di realismo.
Il successo di questo film permise a Melville di lavorare con Cocteau,
nell’adattamento del romanzo Les enfants terribles.
Nonostante le critiche negative e i continui attacchi dell’ambiente
cinematografico, questi due film valsero a Melville un’etichetta che lui cercò più
volte di smentire, quella di “padre della Nouvelle Vague”.
I giovani critici che stavano per esordire come registi, individuarono in lui un
padre spirituale e nei due film sopraccitati, un punto di riferimento per imparare a
fare il vero cinema.
Le due opere furono mitizzate a tal punto che, Truffaut svelò a Melville di
conoscere a memoria, tutte le battute e la musica di Les enfants terribles,
mentre
Chabrol lavorando con Decaë (direttore della fotografia dei primi film di
Melville), chiedeva a quest’ultimo di operare le stesse scelte stilistiche adottate
sempre in Les enfants terribles.
Insomma per tutta la sua carriera dovette cercare di divincolare la sua opera,
difficilmente riducibile ad una sterile definizione, da questo legame con un tipo di
cinema che non gli apparteneva assolutamente. In effetti, condivideva con questi
giovani registi la mancanza di una formazione cinematografica scolastica, l’amore
senza limiti per il cinema soprattutto perché spettatore, l’anticonformismo
produttivo
che per lui, all’inizio, fu una necessità, per gli altri sarà una scelta di
stile. Altra causa dell’equivoco creato fu la sua vocazione ad essere un autore
completo:
“(…)N’être que metteur en scène, ça ne me suffit pas, ça me ravit pas. J’ai envie de
tout faire; j’adorerai tourner un film où je serais l’auteur des décors, de la musique, de la
photo.”
8
8
“ …essere semplicemente un regista non mi basta, non mi affascina. Io ho voglia di fare tutto;
adorerei girare un film in cui io fossi autore delle scenografie, della musica, della fotografia”.
Cahiers du cinéma n° 124, "Entretien avec Jean-Pierre Melville par Claude Beylie et Bertrand
Tavernier ", ottobre 1961, pp. 1- 22.
13
Più che il padre, Melville dichiarava di essere l’inventore di un sistema, vale a
dire l’aspetto economico e tecnico della Nouvelle Vague. Nell’intervista concessa
a B. Tavernier per “Cinéma 60” affermava di riconoscere A. Varda, L. Malle, C.
Chabrol, F.Truffaut, come suoi “apostoli”, ma iniziava già a prendere le distanze
da un modo di fare cinema che non rispecchiava assolutamente il suo stile e la sua
personalità,
9
a volte entrando in conflitto con alcuni di questi registi.
10
Se, infatti, i primi film possono sembrare molto vicini alle preoccupazioni
della Nouvelle Vague, dopo Quand tu liras cette lettre, i suoi interessi si rivelano
molto diversi. Già con Bob, le flambeur e Deux hommes dans Manhattan (Le iene
del quarto potere, 1958), s’intravedono i primi elementi che costituiranno quello
che lui stesso ha definito “universo melvilliano”.
Mentre Quand tu liras cette lettre, fu una vera delusione, le critiche dei
Cahiers du cinéma all’uscita di Bob, le flambeur, denotano un ritrovato
entusiasmo per il cinema di Melville. Bob, le flambeur è eretto allo status di culto,
perché rielabora e scardina gli stereotipi di un genere che sarà rivisitato dalla
Nouvelle Vague a partire da À bout de souffle. In effetti Chabrol (Jean-Yves
Goutte) esaltò la capacità del regista di “ suscitare il dettaglio insolito o poetico”,
la sua capacità di dirigere gli attori, di liberarsi da qualsiasi pregiudizio trovando
la qualità dell’imperfezione.
11
Notturno come i suoi personaggi, la cui vita si sospende all’alba per
riprendere al calar del sole, Melville gira un film molto personale, in cui si fa
testimone (è sua la voce off all’inizio del film) di una Montmartre del periodo
precedente alla guerra. Inizia a raccontare un mondo che aveva frequentato da
giovane e che sarà al centro dell’intera sua opera: il mondo dei malviventi (il
“milieu”). In effetti nell’intervista concessa a Rui Nogueira, afferma di
considerare questo film non tanto un noir, quanto una commedia di costume in cui
però è possibile individuare le tematiche care al regista, presenti in tutta la sua
opera: amicizia virile, l’amicizia fra poliziotti e malviventi, il tradimento, il codice
d’onore che regola il mondo dei malviventi, la solitudine, l’amore impossibile.
9
Tavernier, Bertrand, "Jean-Pierre Melville inventeur de la nouvelle vague" in Cinéma 60, n°46,
maggio 1960, pp. 23-26.
10
Ricordiamo l’articolo pubblicato sul n° 866 di Arts loisirs (aprile 1962) dal titolo “Melville
accuse Truffaut”.
11
Chabrol, Claude, "Saluer Melville ?", in Cahiers du cinéma n°63, ottobre 1959, p.51.
14
Con il successivo Deux hommes dans Manhattan ritornano i temi della
solitudine, dell’amicizia virile e del tradimento in modo non molto diverso: siamo
nelle notti di New York, buie e solitarie, quanto o forse più di quelle di Parigi; la
macchina da presa segue i personaggi nel loro vagare senza meta, così come
accade in Bob le flambeur. Non è un noir, ma ne prende in prestito l’atmosfera e
le ambientazioni.
Dopo Leon Morin, prêtre, che gira per liberarsi dall’etichetta di regista
maledetto, troppo intellettuale, e che gli porterà un grosso successo di pubblico e
di critica, Melville gira quello che sarà da lui stesso definito come “il primo film
100% Melville”: Le Doulos.
Film che segna l’inizio di un ritorno al cinema classico, completato con Le
deuxième souffle (Tutte le ore feriscono, l’ultima uccide!, 1966), e una presa di
distanza netta ed evidente dalla Nouvelle Vague, che manifesterà la sua delusione
sui Cahiers du cinéma.
12
Addirittura, in alcune interviste, Melville criticò
apertamente le scelte innovatrici di questi registi, che secondo lui non avevano
rivoluzionato l’industria del cinema. La sua idea era che questi “creatori”
13
indipendenti e anarchici, dopo il primo film, diventavano dei semplici registi che
lavoravano all’interno del sistema di produzione, assumendo ruoli di rilievo
all’interno del sindacato e accrescendo le fila dei benpensanti. Insomma lui non
credeva tanto in questa rivoluzione della Nouvelle Vague e continuava ad amare il
cinema classico. Era convinto che il cinema avesse già raggiunto la sua perfezione
con il cinema americano degli anni trenta. Rimproverava ai giovani cineasti di
aver privato l’arte cinematografica della sintassi. Eliminare le dissolvenze o altri
accorgimenti tecnici, voleva dire non avere rispetto per lo spettatore,
costringendolo a fare degli sforzi supplementari per la comprensione di un
intreccio narrativo. Si professava un appassionato difensore del cinema
tradizionale, preferendo girare dei film inscritti nella tradizione di genere,
rielaborandolo con ironia.
12
Delahaye, Michel, "L’imposture par elle-même" in Cahiers du cinéma n°186, gennaio 1967,
pp.69-70.
13
Melville amava chiamare “creatori” quei registi che lavoravano in libertà senza farsi
condizionare dalle regole del sistema. All’inizio della sua carriera aveva fondato l’“Associazione
dei Creatori indipendenti del cinema francese”.
15
1.3. Melville, l’america e il cinema noir
Parlando di Le Doulos è doveroso soffermarsi sul ruolo che gli Stati Uniti
hanno avuto nell’opera, ma anche nella vita, del regista.
Interrogato sul suo rapporto con questo paese, Melville non ha mai negato il
fascino esercitato su di lui dalla cultura americana e dal cinema degli anni
precedenti alla guerra. Fascino visibile anche nel suo aspetto: occhiali neri,
cappello Stetson da cui non si separa mai, Melville sembra uno dei personaggi dei
suoi film. Ha amato l’America, pur non ignorando i problemi creati dalla politica
adottata.
Ha amato la letteratura americana fino a decidere di modificare il suo cognome
(Grumbach) adottando quello di uno scrittore la cui visione del mondo e lo stile
erano molto vicini alla sua sensibilità: Herrmann Melville. Ha amato il senso di
libertà che provava guidando la sua macchina (di marca americana) sulle strade
americane e che non avrebbe potuto provare in Europa. Ha amato senza
condizioni il suo cinema che considerava il più grande, di cui si era nutrito
durante tutta la sua giovinezza e che gli aveva dato la certezza di volersi dedicare
alla settima arte per tutta la sua vita
14
.
Nell’ intervista concessa a Tavernier e Beylie per i Cahiers du cinéma si legge:
“- Qu’est -ce que vous admirez dans le cinéma américain? Une technique, une morale,
une conception de l’homme ?
- Un peu tout cela. C’est sans doute la philosophie personnelle de ces gens-là qui
s’ajoute à des scripts admirables…”
15
14
"… je suis le seul homme de ma génération qui, avant- guerre, a toujours dit « Je veux faire des
film!”. Cette certitude je l’ai eu définitivement en voyant Cavalcade de Frank Lloyd, un film que j’
ai beaucoup aimé à l’époque" Trad. : "…sono il solo uomo della mia generazione che prima della
guerra ha sempre detto « Voglio fare dei film !». Questa certezza l’ ho avuta definitivamente
guardando Cavalcade di Frank Lloyd, un film che avevo molto amato all’epoca.” Nogueira, Rui,
"Le cinéma selon Jean- Pierre Melville",Edition de l’étoile /Cahiers du cinéma ,1996, Paris.
15
“- Che cosa ammira nel cinema americano? Una tecnica, una morale, una concezione
dell’uomo?
- Un po’ tutti questi aspetti. Senza dubbio la filosofia personale di queste persone che si
aggiunge a dei soggetti ammirevoli…”, Beylie, Claude, e Tavernier, Bertrand “Entretien
avec Jean-Pierre Melville”in Cahiers du cinéma n°124, ottobre 1961, pp.1- 22.
16
In realtà apprezzava soprattutto la fotografia in bianco e nero, che adotterà fin
dal primo film, (quando ancora in Francia si lavorava con diverse sfumature di
grigio) la recitazione sottotono (under-play) che impose ai suoi attori, i generi noir
e western.
Troverà nel noir il genere più adatto ad esprimere la sua visione del mondo.
All’uscita de Le Doulos affermò che questo film non sarebbe esistito, se non
ci fossero stati quei 63 registi (che lui aveva riunito in una lunga lista dei migliori
cineasti americani del periodo precedente alla guerra) che lui considerava i suoi
maestri.
16
Proprio in questo film è possibile ritrovare le basi del suo stile: non
decostruire un soggetto filmico o disfarsi degli stereotipi tradizionali, ma innovare
in modo sottile sfruttando doppi sensi creati da lui stesso, per giocare con
l’attenzione dello spettatore, cercando di non soddisfarlo mai.
Estremizza l’ambiguità dei suoi personaggi e coinvolge lo spettatore in un
gioco di false rivelazioni che non gli permettono di capire dove sia la verità.
Crea un film sulla menzogna in cui i personaggi, anche se legati da un rapporto
d’amicizia non esitano a tradirsi, molto spesso per questioni di denaro. Come in
Deux hommes dans Manhattan i temi restano l’amicizia virile (che Melville
prende in prestito dal western) e il tradimento. In più, in questo film come nei
successivi è possibile rilevare un processo di americanizzazione che si manifesta
nelle scenografie che ricostruiscono luoghi estranei alla cultura francese e
assimilabili alla cultura americana.
Il suo scopo non era quello di emulare i film di genere noir (di cui è stato
spesso accusato), ma di dare un respiro universale al mondo che raccontava. Ed
ecco la prima grande differenza: il noir americano è fortemente legato alla sua
cultura e fortemente iscritto nella quotidianità della vita di questo paese, al
contrario, Melville distacca il suo mondo dalla specifica realtà francese,
trasformandolo in un universo mitico in cui i personaggi si rivelano molto più
complessi e ambigui di quelli del cinema noir classico. Diventano dei tipi umani, i
protagonisti di una tragedia classica.
16
Nogueira, Rui, “Le cinéma selon Jean- Pierre Melville”, Edition de l’étoile/Cahiers du cinéma,
1996, Paris.
17
Quello che gli interessa non è tanto l’azione, quanto la psicologia di un
personaggio sempre più solitario e complesso.
Importante ancora nell’analisi del rapporto fra Melville e il cinema americano è
l’amore per il western.
Sempre facendo riferimento a Deux hommes dans Manhattan, è possibile
ritrovare nei bar frequentati dai due protagonisti, l’atmosfera da saloon tipica del
western.
Lo stesso Melville ammette:
“- il y a eu une influence du cinéma américain dans Deux Hommes?
- Influence non. Mais mon goût pour le western, je n’ai pas pu m’empêcher de le
marquer un petit peu. Par exemple il est certain que le « Pike slip Inn » à la fin, c’est un
saloon…il est difficile de faire autre chose que du western, le western c’est le cinéma,
c’est la forme la plus parfaite du spectacle cinématographique(…)”
17
Per lui sia Deux hommes dans Manhattan sia Le Doulos sono definibili come
due western urbani notturni in cui porta avanti il suo percorso di riscoperta
dell’uomo del suo tempo (con le sue angosce, i suoi dubbi e le sue speranze),
prendendo in prestito i temi propri del genere: l’amicizia virile, il senso
dell’onore, la lotta dell’eroe solitario e la sua morte, a volte indispensabile per
salvare la sua reputazione.
Con i film successivi Melville continuerà ad approfondire queste tematiche
calando i suoi personaggi in un ambiente sempre più freddo, in cui prevalgono il
silenzio e la solitudine e in cui non hanno alcuna importanza i bisogni primari
dell’uomo (i suoi eroi non hanno alcun tipo d’impulso), ma il suo destino che lo
porta alla morte inesorabile.
Le Samouraï (Frank Costello faccia d’angelo, 1969) è forse il film nel
quale si concentrano tutti gli elementi dell’universo melvilliano con una tale
secchezza di stile e perfezione, da creare un universo dalla bellezza implacabile e
glaciale.
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“…- c’ è stata l’ influenza del cinema americano in Deux hommes dans Manhattan ?
- Influenza no. Ma il mio amore per il western, non ho potuto fare a meno di …Per esempio,
è certo che il“Pik slip Inn” alla fine è un saloon (…) è difficile girare cose diverse dal
western, il western è il cinema, è la forma più perfetta di spettacolo cinematografico (…)”,
Beylie, Claude e Tavernier, Bertrand, “ Entretien avec Jean- Pierre Melville” in Cahiers du
cinéma n° 124, ottobre 1961, p. 18
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In questo film Melville ha portato all’estremo le sue teorie sul sonoro, riducendo
al minimo indispensabile i dialoghi e lasciando alla musica, alle immagini e alla
loro relazione il compito di creare l’atmosfera tipica del suo mondo e il compito di
produrre senso.