5
Si dimostrerà poi come il regista non abbia attinto passivamente da questo 
genere, ma lo abbia sfruttato per definire un suo stile molto particolare e per 
creare un universo originale, al quale è impossibile e riduttivo attribuire 
un’etichetta. Il regista ha reso omaggio a coloro che considera i suoi maestri, ma 
nello stesso tempo ha ironizzato su alcuni stereotipi e meccanismi del genere, 
sfruttandoli per consolidare le caratteristiche del mondo che racconta.  
Nel terzo capitolo, si passerà ad un’analisi più approfondita dell’opera 
melvilliana, in particolare analizzando   Le Doulos e Le Samouraï. Due film che 
riassumono in modo chiaro le fasi del cammino percorso dall’autore. E’, infatti, 
possibile considerare Le Doulos, un film in cui le tracce del noir americano si 
intrecciano ai primi germi di un universo che arriverà al suo completamento in Le 
Samouraï.  
Il terzo capitolo sarà dunque dedicato a quello che si riterrà il fulcro intorno al 
quale ruota tutto il mondo raccontato dal regista: l’eroe.  
Si definiranno due categorie d’eroe, mettendole a confronto e individuando nel 
termine asceta il riassunto delle sue caratteristiche fondamentali. Per fare questo, 
si approfondirà il rapporto fra l’eroe e l’ambiente, l’eroe e le donne, cercando di 
spiegare la morale e la particolare visione del mondo che guida questi uomini.  
  Infine, nell’ultimo capitolo si concentrerà l’attenzione sul tipo di rapporto che 
Melville instaura con i personaggi e con lo spettatore, divertendosi a coinvolgere 
entrambi in un gioco basato sull’inganno e il falso indizio.  Si aprirà una piccola 
parentesi sul rapporto che l’eroe instaura con l’altra metà dell’universo 
melvilliano, la polizia, e sul modo in cui Melville attraverso un uso non 
convenzionale della colonna sonora, riesca a completare e regalare allo spettatore 
la percezione di un mondo completamente astratto ed etereo in cui si consuma la 
tragedia di uomini, che, piuttosto che scendere a compromessi con un mondo 
corrotto e subdolo, scelgono la morte per riaffermarsi ancora una volta in quanto 
esseri trascendenti tanto lontani dalla normalità dell’uomo comune. 
           
 6
    
CAPITOLO I 
 
         
 
 
             JEAN-PIERRE MELVILLE FRA FRANCIA E 
STATI UNITI 
 
 
 
1.1. Jean-Pierre Melville e il cinema francese 
 
         Jean-Pierre Melville ha avuto nella storia del cinema francese una 
posizione alquanto controversa. Amato e odiato da pubblico e critica, con le sue 
opere ha segnato il passaggio dal cinema conformista e censurato dei primi anni 
successivi al dopoguerra, al cinema di rottura affermatosi con la Nouvelle vague. 
Ha avuto, quindi, un ruolo fondamentale, anche se non riconosciutogli a causa del 
rapporto discontinuo che ebbe con l’ambiente del cinema, sin dall’inizio della sua 
carriera. Per anni fu ignorato, stroncato dalla critica (solo alcuni si resero conto 
della sua importanza) e snobbato dagli altri registi che gli attribuirono l’etichetta 
di “amatore”, perché aveva imparato a fare cinema, utilizzando cineprese 
amatoriali e frequentando assiduamente le sale di proiezione. Un cinema pieno 
d’imperfezioni e d’errori, ecco come venivano classificati i suoi film.  
   Nell’intervista concessa a Bertrand Tavernier e Claude Beylie si legge:  
 
             "(…)Un certain nombre de critique continuent à dire que Melville est par trop 
un amateur, parce que j’aime – oh combien ! – le cinéma, que je ne veux pas prendre au 
sérieux et que je continue à penser que tout le monde peut essayer de s’exprimer par le 
cinéma(…)Mais là où je suis pas un amateur, c’est quand je me crois, parmi les metteurs 
 7
en scène français, le plus technicien de tous. J’accepterais volontiers de passer un examen 
avec tous mes confrères, pour savoir qui, d’entre nous est le plus technicien. Je suis sans 
doute le seul à savoir me servir d’une caméra(…)"
1
  
 
    Come si può notare dalle sue parole, Melville dimostrava una sicurezza delle 
proprie capacità ed un’arroganza, che infastidivano l’ambiente del cinema a tal 
punto da procurargli dei nemici e da isolarlo sempre di più. Lui però, non se ne 
curava troppo, esprimeva le proprie idee senza pensare alle conseguenze. 
Conseguenze che furono evidenti verso la fine della sua carriera, quando la 
solitudine che aveva sempre ricercato per lavorare, fu causata da suoi 
atteggiamenti duri e scontrosi  nei confronti degli altri sul set e nella vita 
quotidiana.  
   In realtà, da interviste a suoi amici e collaboratori, pubblicate da Zimmer e 
Bechade in “Jean-Pierre Melville”
2 
si deduce che Melville non fosse un solitario. 
Era sempre circondato d’amici e aspiranti cineasti con cui si dimostrava una 
persona aperta e amichevole. Amava più che altro affermare di esserlo e amava 
definirsi un incompreso. Essere un out-sider faceva parte del personaggio che si 
era costruito.     
   In queste pagine però è chiaro quanto fosse difficile avere a che fare con un 
uomo dalla forte personalità, dalle passioni estreme, ma allo stesso tempo molto 
sensibile. Era ironico e divertente, aveva un gran senso dell’amicizia, amava gli 
altri, se stesso, il cinema, gli oggetti in modo totale; era capace dedicarsi 
completamente alle persone che gli stavano a cuore, ma in cambio pretendeva una  
dedizione assoluta. Bastava poco, perché si sentisse tradito e dichiarasse guerra a 
coloro che lo avevano ferito. Così accadde con Jean-Luc Godard che lo accusò di 
avergli rubato il finale di À bout de souffle in Le Doulos (Lo Spione, 1962 ),  
rovinando una grande amicizia, segnata anche da qualche collaborazione 
(Melville recitò la parte di Parvulesco nel suo primo film À bout de souffle). 
                                                 
1
 "… un certo numero di critici continua a dire che Melville sia fin troppo amatore. Ora, ben 
inteso, io sono un amatore, perché amo –oh quanto!- il cinema tanto da non volerlo prendere sul 
serio e da pensare che tutti dovrebbero provare ad esprimersi attraverso il cinema (…) Ma  non 
sono un amatore quando mi ritengo, fra i cineasti francesi, il più tecnico di tutti. Accetterei 
volentieri di sostenere un esame con tutti i miei confratelli, per sapere chi fra noi è il più tecnico. 
Sono senza dubbio il solo a saper utilizzare una cinepresa (…)” Beylie, Claude e Tavernier, 
Bertrand, "Entretien avec Jean-Pierre Melville", Cahiers du cinéma, n° 124, ottobre 1961, pp. 1- 
22.         
2
ZIMMER, Jacques e de BÉCHADE, Chantal, Jean- Pierre Melville, Ediling, Paris, 1983. 
 8
      Non ammetteva critiche al suo lavoro o pareri non positivi sulla sua persona. 
Ad esempio, in un’intervista, facendo riferimento ad una dichiarazione di Jeanne 
Moreau ( aveva affermato di non volere mai lavorare con Melville), disse: 
   
    “(…)nul doute que j’aurais aimé faire un film avec Jeanne Moreau, il y a dix ans. Je 
dis cela parce que j’ai lu dans une revue que Mme Moreau ne veut tourner avec moi. 
C’est drôle. Parce qu’elle sait très bien que c’est moi qui ne veux pas tourner avec 
elle(...)”
3
   
     
    Il suo perfezionismo e la sua grande indipendenza non gli facevano accettare 
né di perdere né di essere comandato da altri. Non ammetteva alcun tipo di 
consiglio o intromissione durante le riprese. Aveva una tale conoscenza di tutti i 
mestieri del cinema da non concepire l’impossibilità di realizzare qualcosa. Era 
molto esigente con se stesso e con gli altri e soprattutto non amava essere 
contraddetto. Se voleva ottenere qualcosa, nessuno poteva cercare di fargli 
cambiare idea.  
      Lui stesso raccontava come ogni minimo dettaglio del film, doveva essere 
previsto e non doveva sfuggire al suo controllo. Ecco che il suo rigore potrebbe 
spiegare il perché della sua vocazione ad essere un autore completo. Un rigore che 
lo portava a scegliere personalmente l’abbigliamento del protagonista (più volte si 
è parlato del suo feticismo per l’abbigliamento), gli oggetti presenti all’interno 
degli ambienti decidendone anche la posizione. 
     Per quanto riguarda la sua indipendenza,  è indicativo il fatto che Melville sia 
stato un “franc-tireur”, un regista assolutamente fuori del sistema. Ha iniziato la 
sua carriera, adottando dei metodi di produzione e realizzazione dei film 
assolutamente innovativi nel panorama cinematografico francese, per poi ritornare 
alla sicurezza delle produzioni in studio con star internazionali, quando la 
nouvelle vague aveva normalizzato i metodi del suo debutto. Insomma regista 
sempre in controtendenza, fu il primo a girare in esterni, con budget limitato ed un 
équipe ridotta al minimo; il primo a preferire attori semisconosciuti, ad imporre 
una recitazione sottotono e rifiutare il maquillage per dare maggior effetto di 
                                                 
 
3
 “(…)nessun dubbio che mi sarebbe piaciuto girare un film con Jeanne Moreau, dieci anni fa. 
Dico questo perché ho letto in una rivista che lei non vuole lavorare con me. E’ strano. Perché lei 
sa molto bene che sono io a non voler lavorare con lei(…)”, Bureau, Patrick, “Chroniques 
Melvilliennes”in Cinéma 68, n°128-129, settembre-ottobre 1968, pp. 35-43 e 74-91. 
 9
realismo. Fu però sempre lui ad affermare di preferire di girare in ambienti 
ricostruiti con star come Jean Paul Belmondo, Alain Delon, Lino Ventura.  
     In effetti, non sarebbe possibile analizzare l’opera di Melville senza fare 
riferimento a questi attori per i quali provava profonda ammirazione e grande 
rispetto. 
    Sempre in “Chroniques melvilliennes” è possibile leggere le sue opinioni 
sulle star: 
     -   “Il est pourtant rare d’entendre un autre metteur en scène français dire, avec 
 ou sans coquetterie, je veux tourner avec une star. 
         -  Mais parce que le plaisir est immense. D’abord je vais essayer de vous situer ce
 que c’est qu’une star. Une définition américaine. Pour les Américains, une star
 c’est quelqu’un comme tout le monde avec toutefois "something else extra", le
 petit quelque chose en plus(…)Lino, Jean Paul, c’est la même chose. Des
 sécurités, des certitudes de gestes. Tout est là(…) Les premiers couteaux ne
 marchent pas comme les deuxièmes. Ils font des gestes exacts, ils savent tenir un
 verre, un revolver(…)"
4
 
    
    Questi attori incarnarono il personaggio melvilliano e diedero un contributo 
fondamentale al racconto di un universo che era quello proprio del regista :  
        
     “(…)Disons que un créateur doit apporter son univers dans un film. C’est capital. Si  
un créateur de cinéma n’a pas d’univers, il n’a pas grand-chose à dire et il ne sera qu’un 
réalisateur qui dira  "moteur" et "coupez"(…) Je crois que un créateur de cinéma est un 
monsieur (…)qui apporte son univers, y enferme les acteurs et, a l’intérieur de cet 
univers, sert les acteurs, complètement. Il faut que les acteurs se sentent bien dans un 
film, c’est indispensable(…) "
5
  
 
    
                                                 
  
4
 “- è raro sentire un altro regista francese dire, con o senza civetteria, voglio lavorare con una 
star.    -  ma perché è un piacere immenso. Per prima cosa, cerco definirvi cosa sia una star. Una 
definizione americana. Per tutti gli americani, una star ha una persona come tutti gli altri, ma con 
“something else extra”, quel qualcosa in più…. Lino, Jean Paul è la stessa cosa. Una sicurezza dei 
gesti. Tutto qui.  Le star non lavorano come gli attori di secondo piano. Fanno dei gesti esatti, 
sanno come tenere in mano un bicchiere, una pistola.”, Bureau, Patrick, “Chroniques 
Melvilliennes” in Cinéma 68, n°128- 129, settembre- ottobre 1968, pp.34- 43 e pp. 74- 91. 
  
5
  “… diciamo che un creatore deve raccontare il suo universo nei film. E’ di capitale importanza. 
Se un creatore di cinema non ha un proprio universo, non  ha grandi cose da raccontare e sarà solo 
un semplice regista che dirà “ motore” e “taglia”(…) Credo che un creatore di cinema sia un 
signore(…) che racconta il suo universo, ci chiude dentro gli attori e, all’ interno di questo 
universo, è al completo servizio degli attori. E’ necessario che gli attori si sentano a proprio agio 
nel film, è indispensabile(…)” Bureau, Patrick, “ Chroniques melvilliennes”in Cinéma 68, n°128- 
129, settembre-ottobre, 1968, pp.34- 43 e pp. 74- 91. 
 10
Pensava che le doti più importanti di un regista dovessero essere uno spirito 
d’osservazione, un’acutezza visiva e uditiva superiore alla media e una grande 
memoria. Affermava che un vero regista dovesse custodire gelosamente i segreti 
del suo mestiere, non svelandoli a nessuno. 
Era allo stesso tempo un conservatore ed un innovatore. Aveva una mentalità 
all’antica, molto tradizionalista: uomo di destra e anticomunista, faceva parte della 
commissione per la censura, nonostante affermasse di essere contro qualsiasi tipo 
d’interdizione. La sua grande preoccupazione era l’aumento di scene erotiche e 
volgari all’interno dei film. Era però convinto che un regista non dovesse mai farsi 
influenzare dal proprio orientamento politico, né tanto meno dalle proprie 
opinioni religiose. Era un ateo, ma questo non gli impedì di girare una delle più 
belle riflessioni sulla fede e sulla morale della religione: Leon Morin, prêtre (Leon 
Morin, prete, 1961). Conduceva però una vita piuttosto singolare e insensata: la 
sua casa, arredata con le scenografie dei suoi film, erano gli studi in cui girava e 
lavorava volentieri di notte, costringendo tutta la troupe ad adattarsi ai suoi orari, 
perché la luce del giorno lo disturbava.  
 Uomo molto colto, Melville era anche convinto che il cinema avesse un unico 
scopo, quello d’intrattenere, e che non fosse un mezzo compatibile con la cultura: 
  
  “(…)Moi, je vais au cinéma seulement pour avoir du plaisir. C’est une grande 
distraction(…) Ce n’est pas de la culture, le cinéma, cela ne peut être que du loisirs. (…) 
On ne met pas les gens dans une salle pour leur apprendre quelque chose, mais pour les 
distraire, pour leur raconter une histoire le mieux  du monde et leur faire cette espèce de 
spectacle de music- hall qui est le cinéma à la fin du compte(…)”
6
   
 
            
                                                 
 
6
 “…io, vado al cinema solo per piacere. E’ una grande distrazione(…) Non è cultura, il cinema, 
non può che essere divertimento. Non  riempiamo le sale di gente per insegnare qualcosa, ma per 
distrarre, per raccontare una storia  e costruire questa specie di spettacolo di music- hall che in fin 
dei conti è il cinema(…)” Bureau, Patrick,  “Chroniques Melvilliennes” in Cinéma 68, n°128- 129, 
settembre- ottobre 1968, pp.34- 43 e pp. 74- 91. 
 11
 
1.2.  Melville e la nouvelle vague 
 
    Tre furono i film che influenzarono i giovani registi della nouvelle vague: Le 
silence de la mer (Il silenzio del mare, 1947), Les enfants terribles (I ragazzi 
terribili, 1949) e Bob, le flambeur (Bob il giocatore, 1955).    
    Dopo una breve escursione nel mondo del circo, con il cortometraggio Beby, 
l’ultimo dei grandi clown, girò nel 1947 il suo primo lungometraggio: Le silence 
de la mer (Il silenzio del mare), tratto dall’omonimo romanzo di Vernon. Un 
successo di pubblico che segnò l’inizio di quel rapporto conflittuale con 
l’ambiente del cinema cui abbiamo fatto precedentemente riferimento. Il sindacato 
dei tecnici e dei produttori e il Centro di Cinematografia era fortemente 
politicizzati e tendevano ad ostacolare i giovani esordienti che non appartenevano 
al partito. Così accadde a Melville al quale cercarono di ostacolare le riprese 
(costringendolo a girare con un budget di appena nove milioni di franchi e in 
clandestinità) e la proiezione del film nelle sale:  
   
      “(…)il y a eu contre moi cette guerre des Anciens qui ne voulaient pas voir de 
nouveaux venus faire du cinéma.”
7
   
      
       Proprio per questi problemi, sin da subito il regista accarezzò l’idea di 
fondare una casa di produzione allo scopo di lavorare senza scendere a 
compromessi con le regole del sistema. Poté farlo soltanto dopo aver accettato di 
girare una co-produzione franco-italiana: Quand tu liras cette lettre (Labbra 
proibite, 1953), unico film di cui non scrisse la sceneggiatura.  
    Le silence de la mer fu un film rivoluzionario se pensiamo che è stato il primo 
non documentario francese girato in ambienti reali (la casa dell’autore del 
romanzo, o meglio il salone della sua casa). Tratto dall’omonimo romanzo di 
Vercors, significò per Melville la sfida di adattare un testo a suo parere anti-
cinematografico, ed il tentativo di girare un film utilizzando un linguaggio 
                                                 
 
7
 “…c’è stata contro di me questa guerra degli Anziani che non volevano che dei nuovi arrivati si 
mettessero a fare cinema.” , Cahiers du cinéma n° 124, “ Entretien avec Jean-Pierre Melville par 
Claude Beylie et Bertrand Tavernier”, ottobre 1961, pp.1- 22. 
 12
costituito solo da immagini e suoni, in cui l’azione e il movimento fossero 
assolutamente banditi. A questo si aggiungono altre scelte molto innovative: una 
recitazione all’americana (under-play), la fotografia in bianco e nero, al posto del 
grigio tipico dei film francesi e la preferenza di attori non truccati, per dare un 
maggiore effetto di realismo. 
   Il successo di questo film permise a Melville di lavorare con Cocteau, 
nell’adattamento del romanzo Les enfants terribles.  
   Nonostante le critiche negative e i continui attacchi dell’ambiente 
cinematografico, questi due film valsero a Melville un’etichetta che lui cercò più 
volte di smentire, quella di “padre della Nouvelle Vague”.  
    I giovani critici che stavano per esordire come registi, individuarono in lui un 
padre spirituale e nei due film sopraccitati, un punto di riferimento per imparare a 
fare il vero cinema. 
   Le due opere furono mitizzate a tal punto che, Truffaut svelò a Melville di 
conoscere a memoria, tutte le battute e la musica di Les enfants terribles,
 
mentre 
Chabrol lavorando con Decaë (direttore della fotografia dei primi film di 
Melville), chiedeva a quest’ultimo di operare le stesse scelte stilistiche adottate 
sempre in Les enfants terribles.
 
 
   Insomma per tutta la sua carriera dovette cercare di divincolare la sua opera, 
difficilmente riducibile ad una sterile definizione, da questo legame con un tipo di 
cinema che non gli apparteneva assolutamente.  In effetti, condivideva con questi 
giovani registi la mancanza di una formazione cinematografica scolastica, l’amore 
senza limiti per il cinema soprattutto perché spettatore, l’anticonformismo 
produttivo
 
che per lui, all’inizio, fu una necessità, per gli altri sarà una scelta di 
stile. Altra causa dell’equivoco creato fu la sua vocazione ad essere un autore 
completo:     
    
 “(…)N’être que metteur en scène, ça ne me suffit pas, ça me ravit pas. J’ai envie de 
tout faire; j’adorerai tourner un film où je serais l’auteur des décors, de la musique, de la 
photo.” 
8
 
    
                                                 
 
8
  “ …essere semplicemente un regista non mi basta, non mi affascina. Io ho voglia di fare tutto; 
adorerei girare un film in cui io fossi autore delle scenografie, della musica, della fotografia”. 
Cahiers du cinéma n° 124,   "Entretien avec  Jean-Pierre Melville par Claude Beylie et Bertrand 
Tavernier ",  ottobre 1961, pp. 1- 22. 
 13
    Più che il padre, Melville dichiarava di essere l’inventore di un sistema, vale a 
dire l’aspetto economico e tecnico della Nouvelle Vague. Nell’intervista concessa 
a B. Tavernier per “Cinéma 60” affermava di riconoscere A. Varda, L. Malle, C. 
Chabrol, F.Truffaut, come suoi “apostoli”, ma iniziava già a prendere le distanze 
da un modo di fare cinema che non rispecchiava assolutamente il suo stile e la sua 
personalità,
9
 a volte entrando in conflitto con alcuni di questi registi.
10
 
   Se, infatti, i primi film possono sembrare molto vicini alle preoccupazioni 
della Nouvelle Vague, dopo Quand tu liras cette lettre,  i suoi interessi si rivelano 
molto diversi. Già con Bob, le flambeur e Deux hommes dans Manhattan (Le iene 
del quarto potere, 1958), s’intravedono i primi elementi che costituiranno quello 
che lui stesso ha definito “universo melvilliano”. 
   Mentre Quand tu liras cette lettre, fu una vera delusione, le critiche dei 
Cahiers du cinéma all’uscita di Bob, le flambeur, denotano un ritrovato 
entusiasmo per il cinema di Melville. Bob, le flambeur è eretto allo status di culto, 
perché rielabora e scardina gli stereotipi di un genere che sarà rivisitato dalla 
Nouvelle Vague a partire da À bout de souffle.  In effetti Chabrol (Jean-Yves 
Goutte) esaltò la capacità del regista di “ suscitare il dettaglio insolito o poetico”, 
la sua capacità di dirigere gli attori, di liberarsi da qualsiasi pregiudizio trovando 
la qualità dell’imperfezione.
11
 
    Notturno come i suoi personaggi, la cui vita si sospende all’alba per 
riprendere al calar del sole, Melville gira un film molto personale, in cui si fa 
testimone (è sua la voce off all’inizio del film) di una Montmartre del periodo 
precedente alla guerra.  Inizia a raccontare un mondo che aveva frequentato da 
giovane e che sarà al centro dell’intera sua opera: il mondo dei malviventi (il 
“milieu”). In effetti nell’intervista concessa a Rui Nogueira, afferma di 
considerare questo film non tanto un noir, quanto una commedia di costume in cui 
però è possibile individuare le tematiche care al regista, presenti in tutta la sua 
opera: amicizia virile, l’amicizia fra poliziotti e malviventi, il tradimento, il codice 
d’onore che regola il mondo dei malviventi, la solitudine, l’amore impossibile.  
                                                 
9
 Tavernier, Bertrand,  "Jean-Pierre Melville inventeur de la nouvelle vague" in Cinéma 60, n°46, 
maggio 1960, pp. 23-26. 
 
10
 Ricordiamo l’articolo pubblicato sul n° 866 di Arts loisirs (aprile 1962) dal titolo “Melville 
accuse Truffaut”. 
 
11
 Chabrol, Claude, "Saluer Melville ?", in Cahiers du cinéma n°63, ottobre 1959, p.51. 
 14
  Con il successivo Deux hommes dans Manhattan ritornano i temi della 
solitudine, dell’amicizia virile e del tradimento in modo non molto diverso: siamo 
nelle notti di New York, buie e solitarie, quanto o forse più di quelle di Parigi; la 
macchina da presa segue i personaggi nel loro vagare senza meta, così come 
accade in Bob le flambeur. Non è un noir, ma ne prende in prestito l’atmosfera e 
le ambientazioni. 
  Dopo Leon Morin, prêtre, che gira per liberarsi dall’etichetta di regista 
maledetto, troppo intellettuale, e che gli porterà un grosso successo di pubblico e 
di critica, Melville gira quello che sarà da lui stesso definito come “il primo film 
100% Melville”: Le Doulos.  
  Film che segna l’inizio di un ritorno al cinema classico, completato con Le 
deuxième souffle (Tutte le ore feriscono, l’ultima uccide!, 1966), e una presa di 
distanza netta ed evidente dalla  Nouvelle Vague, che manifesterà la sua delusione 
sui Cahiers du cinéma.
12
 Addirittura, in alcune interviste, Melville criticò 
apertamente le scelte innovatrici di questi registi, che secondo lui non avevano 
rivoluzionato l’industria del cinema. La sua idea era che questi “creatori”
13
 
indipendenti e anarchici, dopo il primo film,  diventavano dei semplici registi che 
lavoravano all’interno del sistema di produzione, assumendo ruoli di rilievo 
all’interno del sindacato e accrescendo le fila dei benpensanti. Insomma lui non 
credeva tanto in questa rivoluzione della Nouvelle Vague e continuava ad amare il 
cinema classico. Era convinto che il cinema avesse già raggiunto la sua perfezione 
con il cinema americano degli anni trenta. Rimproverava ai giovani cineasti di 
aver privato l’arte cinematografica della sintassi. Eliminare le dissolvenze o altri 
accorgimenti tecnici, voleva dire non avere rispetto per lo spettatore, 
costringendolo a fare degli sforzi supplementari per la comprensione di un 
intreccio narrativo. Si professava un appassionato difensore del cinema 
tradizionale, preferendo girare dei film inscritti nella tradizione di genere, 
rielaborandolo con ironia. 
 
                                                 
 
12
 Delahaye, Michel, "L’imposture par elle-même" in Cahiers du cinéma n°186, gennaio 1967, 
pp.69-70.  
13
 Melville amava chiamare “creatori” quei registi che lavoravano in libertà senza farsi                                  
condizionare dalle regole del sistema. All’inizio della sua carriera aveva fondato l’“Associazione 
dei Creatori indipendenti del cinema francese”.  
 15
 
 1.3. Melville, l’america e il cinema noir 
   
  Parlando di  Le Doulos è doveroso soffermarsi sul ruolo che gli Stati Uniti 
hanno avuto nell’opera, ma anche nella vita, del regista. 
  Interrogato sul suo rapporto con questo paese, Melville non ha mai negato il 
fascino esercitato su di lui dalla cultura americana e dal cinema degli anni 
precedenti alla guerra. Fascino visibile anche nel suo aspetto: occhiali neri, 
cappello Stetson da cui non si separa mai, Melville sembra uno dei personaggi dei 
suoi film.  Ha amato l’America, pur non ignorando i problemi creati dalla  politica 
adottata.  
Ha amato la letteratura americana fino a decidere di modificare il suo cognome 
(Grumbach) adottando quello di uno scrittore la cui visione del mondo e lo stile 
erano molto vicini alla sua sensibilità: Herrmann Melville.  Ha amato il senso di 
libertà che provava guidando la sua macchina (di marca americana) sulle strade 
americane e che non avrebbe potuto provare in Europa. Ha amato senza 
condizioni il suo cinema che considerava il più grande, di cui si era nutrito 
durante tutta la sua giovinezza e che gli aveva dato la certezza di volersi dedicare 
alla settima arte per tutta la sua vita
14
 . 
 
  Nell’ intervista concessa a Tavernier e  Beylie per i Cahiers du cinéma si legge: 
 
  “- Qu’est -ce que vous admirez dans le cinéma américain? Une technique, une morale, 
une conception de l’homme ? 
-  Un peu tout cela. C’est sans doute la philosophie personnelle de ces gens-là qui 
s’ajoute à des scripts admirables…”
15
 
    
   
                                                 
 
14
 "… je suis le seul homme de ma génération qui, avant- guerre, a toujours dit  « Je veux faire des 
film!”. Cette certitude je l’ai eu définitivement en voyant Cavalcade de Frank Lloyd, un film que j’ 
ai beaucoup aimé à l’époque" Trad. : "…sono il solo uomo della mia generazione che prima della 
guerra ha sempre detto « Voglio fare dei film !». Questa certezza l’ ho avuta definitivamente 
guardando Cavalcade di Frank Lloyd, un film che avevo molto amato all’epoca.”  Nogueira, Rui, 
"Le cinéma selon Jean- Pierre Melville",Edition de l’étoile /Cahiers du cinéma ,1996, Paris.  
 
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 “- Che cosa ammira nel cinema americano? Una tecnica, una morale, una concezione
dell’uomo? 
        - Un po’ tutti questi aspetti. Senza dubbio la filosofia personale di queste persone che si
 aggiunge a dei soggetti ammirevoli…”,  Beylie, Claude, e Tavernier, Bertrand  “Entretien
 avec Jean-Pierre Melville”in Cahiers du cinéma n°124, ottobre 1961, pp.1- 22. 
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 In realtà apprezzava soprattutto la fotografia in bianco e nero, che adotterà fin 
dal primo film, (quando ancora in Francia si lavorava con diverse sfumature di 
grigio) la recitazione sottotono (under-play) che impose ai suoi attori, i generi noir 
e western.     
  Troverà nel noir il genere più adatto ad esprimere la sua visione del mondo. 
    All’uscita de Le Doulos affermò che questo film non sarebbe esistito, se non 
ci fossero stati quei 63 registi (che lui aveva riunito in una lunga lista dei migliori 
cineasti americani del periodo precedente alla guerra) che lui considerava i suoi 
maestri.
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  Proprio in questo film è possibile ritrovare le basi del suo stile: non 
decostruire un soggetto filmico o disfarsi degli stereotipi tradizionali, ma innovare 
in modo sottile sfruttando doppi sensi creati da lui stesso, per giocare con 
l’attenzione dello spettatore, cercando di non soddisfarlo mai. 
  Estremizza l’ambiguità dei suoi personaggi e coinvolge lo spettatore in un 
gioco di false rivelazioni che non gli permettono di capire dove sia la verità. 
 Crea un film sulla menzogna in cui i personaggi, anche se legati da un rapporto 
d’amicizia non esitano a tradirsi, molto spesso per questioni di denaro. Come in 
Deux hommes dans Manhattan i temi restano l’amicizia virile (che Melville 
prende in prestito dal western) e il tradimento. In più, in questo film come nei 
successivi è possibile rilevare un processo di americanizzazione che si manifesta 
nelle scenografie che ricostruiscono luoghi estranei alla cultura francese e 
assimilabili alla cultura americana. 
  Il suo scopo non era quello di emulare i film di genere noir (di cui è stato 
spesso accusato), ma di dare un respiro universale al mondo che raccontava. Ed 
ecco la prima grande differenza: il noir americano è fortemente legato alla sua 
cultura e fortemente iscritto nella quotidianità della vita di questo paese, al 
contrario, Melville distacca il suo mondo dalla specifica realtà francese, 
trasformandolo in un universo mitico in cui i personaggi si rivelano molto più 
complessi e ambigui di quelli del cinema noir classico. Diventano dei tipi umani, i 
protagonisti di una tragedia classica. 
                                                 
 
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 Nogueira, Rui, “Le cinéma selon  Jean- Pierre Melville”, Edition de l’étoile/Cahiers du cinéma, 
1996, Paris.  
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  Quello che gli interessa non è tanto l’azione, quanto la psicologia di un 
personaggio sempre più solitario e complesso. 
  Importante ancora nell’analisi del rapporto fra Melville e il cinema americano è 
l’amore per il western. 
  Sempre facendo riferimento a Deux hommes dans Manhattan, è possibile 
ritrovare nei bar frequentati dai due protagonisti, l’atmosfera da saloon tipica del 
western. 
  Lo stesso Melville ammette:  
 
“- il y a eu une influence du cinéma américain dans Deux Hommes? 
- Influence non. Mais mon goût pour le western, je n’ai pas pu m’empêcher de le 
marquer un petit peu. Par exemple il est certain que le « Pike slip Inn » à la fin, c’est un 
saloon…il est difficile de faire autre chose que du western, le western c’est le cinéma, 
c’est la forme la plus parfaite du spectacle cinématographique(…)” 
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  Per lui sia Deux hommes dans Manhattan sia Le Doulos sono definibili come 
due western urbani notturni in cui porta avanti il suo percorso di riscoperta 
dell’uomo del suo tempo (con le sue angosce, i suoi dubbi e le sue speranze), 
prendendo in prestito i temi propri del genere: l’amicizia virile, il senso 
dell’onore, la lotta dell’eroe solitario e la sua morte, a volte indispensabile per 
salvare la sua reputazione. 
       Con i film successivi Melville continuerà ad approfondire queste tematiche 
calando i suoi personaggi in un ambiente sempre più freddo, in cui prevalgono il 
silenzio e la solitudine e in cui non hanno alcuna importanza i bisogni primari 
dell’uomo (i suoi eroi non hanno alcun tipo d’impulso), ma il suo destino che lo 
porta alla morte inesorabile. 
       Le Samouraï (Frank Costello faccia d’angelo, 1969) è forse il film nel 
quale si concentrano tutti gli elementi dell’universo melvilliano con una tale 
secchezza di stile e perfezione, da creare un universo dalla bellezza implacabile e 
glaciale.   
                                                 
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 “…- c’ è stata l’ influenza del cinema americano in Deux hommes dans  Manhattan ? 
 - Influenza no. Ma il mio amore per il western, non ho potuto fare a meno di …Per esempio, 
è certo che il“Pik slip Inn” alla fine è un saloon (…) è difficile girare cose diverse dal 
western, il western è il cinema, è la forma più perfetta di spettacolo cinematografico (…)”,  
Beylie, Claude e Tavernier, Bertrand, “ Entretien avec Jean- Pierre Melville” in Cahiers du 
cinéma n° 124, ottobre 1961, p. 18  
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In questo film Melville ha portato all’estremo le sue teorie sul sonoro, riducendo 
al minimo indispensabile i dialoghi e lasciando alla musica, alle immagini e alla 
loro relazione il compito di creare l’atmosfera tipica del suo mondo e il compito di 
produrre senso.