II
conoscevano dominio straniero, e come la sconfitta militare, percepita in
Italia come una vera e propria vergogna nazionale, abbia profondamente
inciso sulla memoria storica del paese e condizionato le sue elite dirigenti e
culturali e come, allo stesso tempo, abbia modificato il modo di guardare al
continente nero da parte degli osservatori europei.
1
Capitolo primo. L’Italia potenza coloniale
Par.1. Le origini del colonialismo italiano
Il colonialismo italiano affondava le sue radici nel passato prossimo e remoto
del paese: le idee-base di una eredità da assumere e di una missione dell’Italia
avevano una matrice risorgimentale, tanto che la spinta all’unificazione
nazionale aveva trovato alimento anche nel sogno della rinascita dell’impero e
l’idea mazziniana della “terza Roma”si associava ad una visione dell’Italia
civilizzatrice dei popoli. Nelle sue opere, Mazzini rivendicò per l’Italia un posto
in Asia e soprattutto in Africa e, nell’inevitabile movimento che spingeva
l’Europa a civilizzare le regioni africane, temendo le ambizioni francesi, ribadì
che “Tunisi, chiave del mediterraneo centrale, connessa al sistema sardo-siculo,
spetta visibilmente all’Italia”1. Su questo tema concordò sostanzialmente
Gioberti, il cui <Primato morale e civile degli Italiani> si tradusse in una
esaltazione del genio italico e della sua missione. Il giovane Francesco Crispi si
nutrì di tale patrimonio risorgimentale che, se da una parte aveva trasmesso la
coscienza del diritto delle altre nazionalità, dall’altra aveva trasmesso la
passione nazionale, la fiducia nei destini del paese e lo slancio verso le grandi
imprese. Al mediocre vivere del parlamentarismo post-unitario, l’imperialismo
nazionale contrappose “ l’esempio dei combattenti eroici dell’unità e degli esuli
fedeli al loro ideale”2. Il colonialismo italiano quindi, trovò forza e continuità
nel mito di Roma post-risorgimentale, ma fu alimentato anche da altri fattori
non riscontrabili altrove, come la forte pressione demografica, la mancanza di
materie prime, la necessità di mascherare la debolezza del nuovo stato con una
politica di potenza. In questa fase furono gli stessi uomini che resero l’Italia
nazione, a sostenere tale politica; come giustamente rilevato da Mario Isnenghi,
1
G. Mazzini, Opere Edite ed Inedite, Imola, 1906-1940, vol.XCII, pag.167, citato da J.L. Miège, l’imperialismo
coloniale italiano dal 1870 ai nostri giorni, Milano, 1976, pag.11
2
J.L. Miège, op. cit., pag.14
2
ci fu un rovesciamento delle parti, con “la sinistra colonialista e i moderati che
frenano.”3
I nostri governanti dell’epoca non sentirono alcuna contraddizione nell’aver
liberato la propria nazione e nel voler conculcare quella altrui, poichè l’Italia e
più in generale la civiltà bianca, incarnavano “la storia mentre il resto era non
storia”4. “Crispi, Baratieri e gli altri si sentivano portatori di ‘storia’ nella ‘non
storia’ altrui, contro delle tribù non contro una nazione”5. Non si sentivano
affatto spogliatori di altri popoli, ma portatori di un maggior livello tecnico,
quindi di maggior sviluppo e benessere per tutti, confidando anche nel fatto che
gli italiani, pronipoti degli antichi romani, avevano civilizzato quegli stessi
popoli (Galli, Teutoni, Britanni) i cui discendenti avevano dato vita alle nazioni
più avanzate e prospere che allora dominavano il mondo. L’imperialismo
italiano, pur ritardatario e definito da Michels “l’imperialismo della povera
gente”6, seguì la medesima logica di quello delle altre potenze, con una prima
fase, da Massaua fino ad Adua, coincidente con la prima espansione industriale
del paese, seguita da una breve fase di rigetto conseguente la disfatta che, in
verità, non durò molto. Gli argomenti a sostegno della legittimità
dell’espansione coloniale dell’Italia, non erano dissimili da quelli sostenuti nei
paesi nostri concorrenti nella lotta per l’egemonia sulle zone arretrate del
pianeta e cioè, non essere condannati ad un rango secondario, ad una crisi
economica permanente, trovare sbocchi per le eccedenze produttive e
demografiche, civilizzare tribù arretrate, ma comparve anche una componente
razzista, anche se limitata a ristretti circoli politico-culturali, come dimostrò
l’uscita a Torino nel 1864 di un volume, sommario del razzismo antinero
dell’epoca, di un certo Filippo Manetta. Non secondaria fu l’influenza che ebbe
sull’Italia dell’epoca, l’esplorazione dell’Africa nonchè l’azione dei missionari.
3
M. Isnenghi, Il colonialismo di Crispi, in A. Del Boca, a cura di, Adua le ragioni di una sconfitta, Bari, 1997,
pag. 74
4
M. Isnenghi, Il colonialismo di Crispi, in A. Del Boca, op. cit., pag. 75
5
Ibidem, pag. 70
3
Pionieri in questo campo furono G. Miani e C. Piaggia che, tra il 1863 e il 1865,
entrò in contatto con i leggendari Niam-Niam, popolazione considerata
inavvicinabile poichè cannibale.
Le spedizioni che venivano organizzate dai viaggiatori nel continente nero,
venivano sempre seguite con interesse da giornali quali la <Gazzetta
Piemontese> che dedicò numerosi articoli all’argomento seppur “non
dichiaratamente ed incondizionatamente colonialista”7. Tale interesse veniva
anche testimoniato da ciò che scrisse <Critica Sociale> intorno alla metà degli
anni 90: “ quest’Africa, così bistrattata e tanto maledetta, è, dopo i maccheroni
la cosa più popolare che ci sia in Italia”8. Sull’onda di tale interesse, sorsero
numerose riviste dedicate esclusivamente all’imprese di esplorazione tra le quali
<il giornale illustrato dei viaggi e delle avventure di terra e di mare>,
settimanale pubblicato a Milano da Sonzogno tra il 1878 e la prima guerra
mondiale, <il giornale popolare dei viaggi>, edito da Treves, < in giro pel
mondo> ed altre ancora. Treves pubblicò anche numerose relazioni di
esploratori nella sua <Biblioteca di Viaggi>, come la suggestiva <attraverso il
continente nero> di H.M. Stanley. Un viaggiatore esperto come C. Piaggia però,
non tardò a realizzare il fine strumentale che si celava dietro la maggior parte di
tali pubblicazioni, che, spesso, ammantavano di leggenda azioni vergognose
perpetrate ai danni dei poveri selvaggi a scopo di lucro. L’Africa, oltre ai
viaggiatori e agli studiosi, interessava moltissimo i missionari cattolici che
competevano con protestanti e musulmani nell’accaparramento delle ultime
riserve di anime disponibili; “i Gesuiti ripresero nel 1823 la loro opera di
evangelizzazione del mondo sospesa nel 1773 e anche altri ordini vecchi e
nuovi intensificarono la loro attività”9; la Propaganda Fide, che non aveva mai
perso di vista la Chiesa Copta abissina, inviò laggiù il lazzarista ligure Sapeto
6
Ibidem, pag. 79
7
F. Surdich, L’impatto dell’esplorazione dell’Africa sull’Italia di fine 800, in Lezioni di Storia del colonialismo
italiano, Trento-Rovereto, 1991-1992, pag. 6
8
Ibidem, pag.7
4
nel 1838, il quale, dopo aver conquistato la fiducia di ras Ubiè del Tigrè,
informò la Santa Sede delle favorevoli condizioni per iniziare l’apostolato in
Etiopia e fu raggiunto l’anno seguente da altri due lazzaristi, Montuori e De
Jacobis.Fu proprio il lazzarista ligure che, più che apostolo di Cristo era
etnologo, geografo e archeologo a consigliare al ras Ubiè di cercare il sostegno
di Luigi Filippo, re di Francia, per estendere la sua influenza e puntare al trono
imperiale dove sedeva l’inetto Giovanni III.
Par.2 L’Abissinia dall’era dei Principi all’impero.
Il paese era caratterizzato dalle continue lotte fra i principi delle varie regioni e
non conobbe un vero potere centrale sino al breve tentativo unitario di Teodoro
II, che riuscì nel suo intento grazie all’aiuto dell’Abuna (massima autorità
religiosa) Salama che, appoggiandosi ora su un Principe ora sull’altro, unificò la
Chiesa abissina e bloccò la penetrazione cattolica. Teodoro il cui vero nome era
Cassa e non era di stirpe reale, ufficiale e poi genero di ras Alì, riuscì a
sconfiggere in una serie di scontri i vari signori, suocero compreso, e a porre
termine all’era dei Principi detta Zemana Mesafint. Il 7 febbraio 1855, nella
cattedrale di Debarec, Cassa fu incoronato Negus Neghesti con il nome di
Teodoro dall’Abuna stesso e, subito dopo, mosse il suo esercito verso lo Scioa,
sconfisse il Negus Melekot e trasse prigioniero il figlio di questi di appena 10
anni, Sahle Miriam, futuro imperatore con il nome di Menelik. Teodoro tentò
alcune importanti riforme che toccavano interessi consolidati e privilegi
tradizionali, la qual cosa gli alienò le simpatie della nobiltà tradizionale, del
clero copto e dei musulmani, colpiti a loro volta dalle riforme religiose che
imponevano un solo credo nel regno. Nel Tigrè, il nipote di Ubiè, Negussiè,
condusse una rivolta contro gli imperiali, confidando con la mediazione del
solito Sapeto, sul sostegno francese, ma finì torturato ed ucciso nel 1861.
D’altro lato Teodoro non riuscì a portare a compimento il suo programma
9
J.L. Miége, Espansione europea e decolonizzazione dal 1870 ai nostri giorni, Milano, 1976, pag. 148
5
innovatore e riformista per le resistenze incontrate, pertanto, gradatamente, il
riformista lasciò il posto al tiranno; l’opera di repressione fu tanto feroce che A.
Franzoj, attraversando il paese 15 anni dopo tali fatti, descrisse il regno come “
un vasto cimitero nel quale non viveva più che gente sfregiata o storpiata”10.
Non fu soltanto il sogno unitario a trasformare l’imperatore in un despota, ma
anche “l’incapacità di attuare il suo disegno di politica estera che si basava sulla
fiducia di potersi alleare con la Cristianità per battere i musulmani che
assediavano l’Impero cristiano d’Etiopia”11.
Deluso ed irritato dall’atteggiamento delle potenze europee tese a difendere i
loro interessi più che la Cristianità, Teodoro non esitò ad infrangere le leggi del
<mondo civile> deliberatamente, conscio del fatto che esse proteggevano solo
chi le aveva fatte; nel 1864, mise in catene i circa 70 europei che si trovavano
nel regno, per punire il console inglese Cameron, recatosi inopportunamente in
Sudan a rendere omaggio ai musulmani egiziani, mentre la sua Regina non si
degnava nemmeno di rispondere alle richieste abissine di aiuto tecnico, basilare
per dotare il paese di un embrione di industria. Mentre continuava il braccio di
ferro con gli inglesi, l’impero si sfaldava progressivamente , anche per la fuga
dal campo imperiale del successore designato, Menelik, divenuto nel frattempo
genero di Teodoro ed onorato del grado di Degiac, che raggiunse lo Scioa per
rimpadronirsi con l’appoggio del clero e dei capi militari scioani, del trono degli
avi. A questo punto Teodoro, con poche migliaia di seguaci, si trincerò in
Magdala, sapendo che un corpo di spedizione britannico era sbarcato a Zula nel
gennaio 1968 e avanzava verso di lui; con abile calcolo, decise di cadere per
mano straniera piuttosto che dei rivali interni, per assurgere a mito. I 13.000
soldati anglo-indiani, dotati di armi ultramoderne, ebbero facilmente la meglio e
l’imperatore scelse di porre fine alla propria esistenza con un colpo di pistola.
Gli inglesi, dopo essersi impadroniti del tesoro imperiale, se ne andarono senza
10
A. Franzoj, Continente nero, Istituto Geografico De Agostini, Novara, 1961, pag. 110 citato da A. Del Boca,
Gli italiani in Africa Orientale, Roma-Bari, 1976, pag. 23
6
immischiarsi nella lotta di successione al trono, pur lasciando al Degiac Cassa
del Tigrè, quale compenso per la fattiva collaborazione, i magazzini di Senafè e
Molkutto contenenti 2000 moderni fucili e una dozzina di obici, grazie ai quali
egli riuscì a prevalere, in uno scontro vicino ad Adua, sul ras del Lasta,
Gobesiè, che si era fatto proclamare imperatore con il nome di Taklè Georghis
II. Menelik, pur ritenendosi il legittimo erede al trono imperiale, saggiamente si
mantenne fuori dalla disputa, per meglio consolidare il proprio potere nello
Scioa, e così Cassa potè essere incoronato dall’Abuna Atanathios, Negus a
Neghesti zu Ithiopia, con il nome di Johannes IV.
Par.3. I primi passi nel corno d’Africa.
L’Italia si interessò a quest’area geografica nell’imminenza dell’apertura del
canale di Suez per la “conseguente necessità di assicurare lungo la nuova via di
comunicazione con l’estremo oriente una stazione di servizio”12. Fu l’ex
lazzarista Sapeto a ricevere l’incarico da lui stesso sollecitato, da parte del
ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio, di recarsi sul posto per
meglio valutare gli effetti che la realizzazione dell’opera avrebbe potuto avere
sull’economia nazionale; giunto in Egitto nel febbraio del 1863, il ligure
proseguì fino ad esplorare il litorale eritreo per conto del governatore inglese di
Aden, Sir Coghlan, a cui aveva offerto i propri servizi, in cerca di miniere di
carbone; al rientro in Italia, Sapeto relazionò sia il ministero dell’Industria che
quello dell’Istruzione, detenuto dall’amico Michele Amari, e nel 1869 pubblicò
anche un libro dal titolo <l’Italia e il canale di Suez> nel quale perorava con
forza il progetto di uno scalo nel Mar Rosso, riuscendo ad ottenere qualche
risultato; infatti nel 1867, il ministro della Marina aveva inviato il capitano di
fregata Bertelli a verificare se le isole Dahalak si prestassero ad una eventuale
occupazione e, l’anno seguente, l’armatore genovese Rubattino, in prossimità
11
Ibidem, pag. 24
12
A.Del Boca, op. cit., pag. 33