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chassidismo partendo da raccolte di leggende che erano state
tramandate dagli stessi chassidim, mentre Scholem tentò di trattare il
movimento in maniera più scientifica, attraverso gli scritti dei teorici
del chassidismo.
Con l’analisi di entrambe le prospettive ho ritenuto di poter
ottenere un quadro piuttosto esauriente di quello che è stato un
fenomeno alquanto complesso.
Ho iniziato dunque con l’analizzare il chassidismo in maniera
generale, partendo dalla sua nascita ad opera di Rabbi Israel ben
Eliezer (1700ca-1760), detto il Baal Shem Tov, il portatore del buon
nome. Costui riteneva il fervore religioso ben più importante dello
studio biblico e talmudico, e proprio con questa impostazione creò la
prima comunità di chassidim, i pii. Sono passata poi ad analizzare i
due concetti sui quali si basa tutta la dottrina del Baal Shem, e sui
quali costruì la sua comunità: la teshuvah, il risveglio che permette la
conversione, e la kawwanah, la giusta intenzione che trasforma in atto
sacro anche quello più profano. A questo punto sono passata a
descrivere la figura chiave del chassidismo: lo zaddik, il giusto. Ogni
singola comunità di chassidim ebbe un proprio maestro, che ne fu
consigliere, predicatore e guida. Lo zaddik è un santo che però non
manca di scendere al livello del devoto per poterlo guidare nella fede,
5
ma anche nella vita di ogni giorno. Gli zaddikim furono venerati dalle
proprie comunità al punto che venne a crearsi un fenomeno, detto
zaddikismo, che vide i maestri prendere sempre più potere, e formarsi
una sorta di inimicizia tra i seguaci di questo o di quello zaddik. I
nostri due autori vedono in modo diverso lo zaddikismo: Buber come
una degenerazione del chassidismo, Scholem come un processo
inevitabile, insito già nella natura stessa del movimento.
Dopo aver introdotto il chassidismo ho preso in esame la sua
teologia, occupandomi prima, in generale, dello Zohar, il libro dello
splendore, e poi più approfonditamente della kabbalah luriana, che da
questo libro attinse le sue idee di base. Dalla kabbalah luriana il Baal
Shem trasse la propria teologia quasi per intero. Ho dunque esposto le
teorie chiave della cosmogonia e dell’escatologia luriane: lo zimzum,
la shevirat-ha kelim, l’emanazione delle Sephiroth, il tikkun.
Nell’esposizione non ho mancato di sottolineare la possibilità di una
interpretazione gnostica di questo corpus mistico. Il chassidismo
riprese queste idee, reinterpretandole alla luce dell’amore di Dio per
Israele e, più in particolare, per gli zaddikim.
A questo punto sono passata ad illustrare la religiosità chassidica,
evidenziando come i chassidim non abbiano mai messo in discussione
i precetti dell’ebraismo rabbinico. Il chassidismo ha, infatti,
6
semplicemente fornito una nuova interpretazione di quegli stessi
precetti, basata sull’hitlahabut, l’entusiasmo religioso.
Il secondo capitolo è dedicato all’interpretazione che Buber dà del
chassidismo. Ho definito l’impostazione buberiana come romantica,
nel senso non storico-letterario, ma corrente del termine. Buber prende
in esame soprattutto la vita quotidiana dei chassidim, dei quali non
mette in discussione la santità, indicando come aspetto più importante
della loro devozione la santificazione di ogni atto, tramite la giusta
kawwanah. Per Buber perde di importanza tutto l’impianto mitico e
rituale, e la sua attenzione si focalizza, invece sulla religiosità. Buber
vide nel chassidismo la quintessenza dell’ebraismo, tanto da additarlo
come tramite per una rinascita della religione ebraica. Religione che, a
suo parere, ha perso di forza ed è diventata niente più che un insieme
di norme ed atti che hanno smarrito il loro significato simbolico di
legame con Dio. Per riscoprire la gioia del credere, ma anche per una
rinascita personale, Buber indica un percorso fatto di varie tappe,
ognuna delle quali introdotte da un aneddoto chassidico. Tanta fu la
passione del nostro autore per il chassidismo che se ne trova l’eco
anche nei suoi studi più prettamente filosofici. La filosofia del dialogo
di Buber, grazie alla quale egli è conosciuto dai più, è, infatti, infarcita
7
di influenze chassidiche, influenze che ho cercato di analizzare
nell’ultima parte del capitolo a lui dedicato.
Ho invece definito l’impostazione di Scholem, che ho analizzato
nel terzo capitolo, come storica. Egli, infatti, non si limita ad una
descrizione della vita dei chassidim, ma prende in esame tutta la
letteratura kabbalistica che la fonda. Per Scholem è la riscoperta della
kabbalah in generale, e non solo del chassidismo, che può restituire
vigore alla religione ebraica. L’impostazione religiosa dell’ebraismo
rabbinico, sostiene il nostro autore, tende ad abbandonare le
suggestioni mitologiche, ed a propugnare un concetto di Dio il più
possibile puro. Ma abbandonare la dimensione più popolare della
religione, quella, appunto, legata al mito, non può che generare
freddezza, non può che allontanare il popolo dalla religione. La
kabbalah risolverebbe questo problema: con la riscoperta del mito, la
mistica restituirebbe significato al rito ed al credere in generale,
donando di nuovo agli ebrei quel fervore religioso che avevano perso.
Il chassidismo, secondo questo punto di vista, non sarebbe che la fase
finale di questo processo di remitizzazione del rito e della conseguente
popolarizzazione della kabbalah. Questo processo, iniziato con Luria,
passa però anche attraverso l’eresia mistica, rappresentata dal
sabbatianesimo, del quale ho parlato ampiamente nel paragrafo a esso
8
dedicato. Questo movimento, che si autodistrusse in breve tempo,
sarebbe, per Scholem, il vero predecessore del chassidismo.
Quest’ultimo nascerebbe dalle ceneri del sabbatianesimo, a riprova di
questo c’è il fatto che il Baal Shem ha iniziato la sua opera proprio nei
luoghi in cui il sabbatianesimo aveva messo radici più profonde, e
proprio quando i sabbatiani iniziavano a ritenersi traditi da quello che
si era rivelato un falso Messia. La sostanziale differenza tra i due
movimenti, oltre naturalmente alla mancanza di idee sacrileghe nel
chassidismo, starebbe nel fatto che il chassidismo trasferì la salvezza
da un eventuale futuro messianico al qui ed ora, alla quotidianità. Il
chassidismo, inoltre, riuscì a non entrare in conflitto con l’ebraismo
rabbinico, e dunque con l’autorità religiosa. Questo, che garantì al
chassidismo una vita ben più longeva di quella del sabbatianesimo, è
da ritenersi merito degli zaddikim, i quali usarono la propria influenza
sui chassidim non per distruggere la tradizione, come avevano fatto i
capi sabbatiani, ma per confermarla. L’idea dei maestri chassidici era
di ottenere una rivitalizzazione dell’ebraismo agendo al suo interno,
non rivoluzionandone le abitudini. Il rapporto fra mistica, considerata
in generale, ed autorità religiosa è il fulcro dell’ultima parte di questo
capitolo.
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Dopo aver analizzato le impostazioni di Buber e di Scholem, ho
ritenuto di dover fare il punto della situazione, mettendo in evidenza i
motivi di disaccordo e quelli di contatto dei due autori. Ho individuato
come differenza sostanziale l’approccio allo studio del chassidismo,
romantico quello di Buber, storico quello di Scholem. Questa
differenza si ripercuote poi sulla scelta delle fonti che saranno per
Buber le leggende sugli zaddikim e per Scholem i classici della
kabbalah e gli scritti teorici dei maestri del chassidismo. I due sono
invece accomunati dalla convinzione che la kabbalah sia degna di
essere riabilitata dopo essere stata mal giudicata dai teorici
dell’haskalah, l’illuminismo ebraico. Per entrambi la riscoperta della
kabbalah non può che ridonare fervore ad una religiosità assopita,
messa a tacere dagli ebrei stessi per l’ansia di emancipazione. Sia
Buber che Scholem prendono una posizione critica rispetto al
fenomeno dell’assimilazione ed entrambi abbracciano il sionismo,
nella speranza di vedere tutti gli ebrei riuniti non tanto sotto una stessa
bandiera quanto sotto una stessa spiritualità. Le affinità tra i due mi
sono parse ben più importanti delle differenze che li divisero, basate
non su convinzioni religiose o morali, quanto semplicemente sul
metodo di studio. Ho dunque sottolineato come mi sembrassero futili
le motivazioni sulle quali si fondò la diatriba Buber-Scholem e
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quanto, invece, sia importante, per chi si avvicini allo studio non solo
del chassidismo ma di tutte le forme religiose, disporre di più
prospettive. Questo non può che portare alla conclusione che ci sono
più punti di vista, che non necessariamente devono urtarsi fra loro.
Questa è la base della tolleranza.
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Capitolo 1: Il chassidismo, linee generali
1.1 La figura dello zaddik ed il problema dello zaddikismo
Nel XVIII secolo, in Europa orientale, si sviluppò in seno all’ebraismo
il chassidismo, un movimento di stampo mistico. Fondatore di tale
corrente fu Rabbi Israel ben Eliezer, nato forse nel 1700 e morto nel
1760
1
. Rabbi Israel era più conosciuto col titolo di Baal Shem Tov, il
possessore (o anche maestro) del buon nome, il nome di Dio. I baale
shem, molto numerosi in quel periodo nell’Europa orientale, erano
rabbini che viaggiavano di città in città esercitando la kabbalah
pratica, ovvero operando guarigioni ed esorcismi grazie alla
conoscenza di particolari formule nonché del nome segreto di Dio. Si
narra che già in questo periodo in cui si guadagnava da vivere
attraverso la kabbalah pratica, il Baal Shem s’interessasse più delle
guarigioni spirituali dei propri pazienti che di quelle fisiche. Così tra il
1740 ed il 1745 il Baal Shem si trasferì definitivamente a Mesebitz, in
Podolia, dove raccolse numerosi discepoli, i chassidim, i pii, e qui
fondò il movimento che da loro prende il nome. Fondando il
chassidismo il Baal Shem intende dare nuova vita ad un ebraismo che
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considera spento, annichilito dalla rigidità del rabbinismo ortodosso,
che si basava, a suo parere, più sulla conoscenza dei testi sacri che
sulla fede vera e propria. La visione della religione che ha il Baal
Shem si basa invece sull’esperienza personale del devoto, sulla gioia
che suscita la fede in Dio, sul rapporto tra l’uomo e Dio attraverso la
preghiera più che attraverso lo studio. Secondo questo punto di vista
anche gli indotti possono ottenere la santità e la salvezza se si
comportano secondo i dettami della Torah e se vivono una vita piena
di amore per Dio. Con questo non si intende affermare che lo studio
della Torah venga svalutato, viene soltanto ridimensionata la
convinzione che lo studio basti per ottenere la salvezza. Il Baal Shem
disse una volta riguardo un giovane studioso: “Gli invidio la sua
applicazione allo studio, ma che debbo fare? Io non ho tempo di
studiare perché devo servire il creatore”
2
. Ma la critica in realtà non si
rivolge tanto a chi ha dedicato allo studio la sua vita, purché questo
studio non sia sterile e privo di amore per Dio, quanto a chi fa delle
proprie conoscenze uno strumento di potere sulle masse non erudite o
a chi ne fa sfoggio in inutili diatribe
3
. In realtà il Baal Shem teneva in
1
Per le notizie biografiche sul Baal Shem mi sono affidata a D. Leoni, I maestri del chassidismo,
vol. 1, Città nuova, Roma 1993.
2
M. Buber, I racconti dei Hassidim, Guanda, Parma 2002.
3
Il Baal Shem si scaglia per esempio contro la pratica del pilpul, un esercizio di dialettica seguito
durante lo studio del Talmud che serviva a potenziare le capacità dialettiche di chi lo praticava,
permettendogli di avere la meglio nelle dispute teologiche.
13
gran conto l’importanza dello studio fatto per amore della cosa in sé e
non per secondi fini, in essi inclusa anche la speranza di salvezza.
La dottrina del grande zaddik, il giusto, titolo che venne attribuito
ai maestri chassidici, si basa su due importanti concetti: la teshuvah e
la kawwanah.
La teshuvah, è la conditio sine qua non della devekut
4
. Infatti, con
il termine teshuvah si intende quel sommovimento dell’anima che
porta alla conversione. Il primo passo per una conversione completa e
profonda è il riconoscere il proprio peccato, il quale rattrista Dio.
Questo riconoscimento non deve essere negativo, non si deve
compiere nell’afflizione sterile, ma deve essere positivo ovvero
precedere un reale cambiamento, essere la stimolo che consente di
iniziare una nuova vita nella Torah e nel timore di Dio. Il peccato non
solo provoca ira in Dio, ma anche e soprattutto lo rattrista. Per questo
motivo la vera teshuvah deve essere compiuta nella gioia, la gioia di
poter di nuovo vivere nella legge divina e di poter recuperare quel
rapporto con Dio che nel peccato era stato perduto. Inoltre le buone
azioni, che una volta compiuta la teshuvah si potranno portare a
4
Con il termine devekut s’intende una particolare forma di unione mistica. Non si tratta, infatti,
della unyo mistica comunemente intesa, che prevede un’esperienza di estraniazione dal mondo
sensibile ed un’uscita da sé per unirsi completamente a Dio. La devekut è invece un camminare
con Dio, per così dire, un vivere costantemente in questo rapporto mistico anche durante le
occupazioni più profane, ma mantenendo la propria individualità rispetto a Dio.
14
termine, rallegrano Dio il quale proprio in previsione della gioia che
queste Gli avrebbero portato ha creato il mondo. Ma una vera
teshuvah può essere effettuata solo con l’osservanza puntuale dei
precetti della Torah, il che sottolinea quanto la dottrina del Baal Shem
non fosse indirizzata verso una critica all’ebraismo ortodosso in sé,
ma che anzi ne volesse riprendere le basi per dargli nuovo vigore
senza rinnegare né la tradizione né i testi sacri tradizionali della
religione ebraica.
Il termine kawwanah significa “intenzione”. Ogni azione sacra,
ogni precetto ed ogni preghiera devono essere compiuti con la giusta
kawwanah. La giusta intenzione per quanto riguarda le azioni è
l’assoluta mancanza di secondi fini. Se si adempie ai precetti per la
speranza di redenzione, per paura della dannazione o per apparire più
pii di quanto non si sia realmente, l’azione sacra si svuota di
significato e, anche se compiuta con la più puntuale precisione, la sua
sacralità viene meno. Viceversa, se in ogni momento il pensiero si
rivolge a Dio, se si compiono i doveri quotidiani con giusta
kawwanah, con timore di Dio e con amore per Lui, anche l’azione più
profana, come il bere ed il mangiare, acquista una sua dimensione
sacra e rallegra Dio. La stessa cosa si può dire per quanto riguarda la
preghiera. Non si deve pregare per ottenere qualcosa di materiale e
15
neanche per chiedere di essere redenti. La giusta kawwanah consiste
nel pregare perché si ricostituisca quell’unità divina che era andata
persa durante la shevirat ha-kelim, della quale tratterò più ampiamente
in seguito.
Il Baal Shem non fu soltanto il fondatore del chassidismo, ma ne
fu soprattutto il capo carismatico. Tanta fu la venerazione che il
Besht
5
suscitò, che le leggende agiografiche sul suo conto iniziarono a
nascere mentre lui era ancora in vita. La stessa cosa si può dire di tutti
quegli zaddikim che comparvero in seguito al costituirsi di numerose
comunità chassidiche.
Quella dello zaddik è una figura fondamentale per capire il
chassidismo, o meglio, quest’ultimo non può nemmeno essere pensato
senza lo zaddik. Lo zaddik è un uomo particolare, diverso da tutti gli
altri: è, infatti, un giusto, un uomo che ha raggiunto la devekut perfetta
ed in essa permane costantemente. Si narra di uno zaddik che durante
le proprie preghiere era costretto a guardare spesso l’orologio: questo
gesto, infatti, lo teneva legato al mondo materiale impedendogli,
nell’estasi che la preghiera gli provocava, di morire e volarsene via
6
.
Lo zaddik ha spesso capacità divinatorie, s’incontra inoltre con altri
zaddikim defunti e perfino con i profeti (per lo più il profeta Elia,
5
Abbreviazione di Baal Shem.
16
considerato colui che prepara la grande liberazione e colui che precede
il Messia). Nonostante la sua evidente superiorità rispetto al resto
degli uomini, lo zaddik è profondamente umile. La sua è un’umiltà
pura, lo zaddik non si ritiene meno santo di quanto non sia, ma ricorda
di essere uomo. A causa di tutte queste caratteristiche, lo zaddik
merita di essere il capo di una comunità chassidica.
Nella Bibbia il termine zaddik è prima di tutto un attributo divino:
Dio viene, infatti, spesso indicato come il Giusto, il Santo. Riferito
all’uomo l’aggettivo si contrappone a rasha, malvagio. Giusto è in
questo senso colui che vive secondo le leggi di Dio. Nella kabbalah il
termine acquista un significato più specifico e zaddik designa qui colui
che è capace di avere esperienze mistiche e che grazie a queste ha una
conoscenza profonda dei precetti divini.
Nello Zohar
7
lo zaddik viene descritto secondo alcune
caratteristiche: il giusto, innanzi tutto è un uomo che studia la Torah e
la comprende, inoltre grazie ai suoi meriti può influenzare le decisioni
divine e sconfiggere il male che ha in sé (lo jezer ha-ra, l’istinto
malvagio) e che è negli altri, portandoli a conversione.
6
M. Buber, I racconti dei Hassidim, Cit., pag 232.
7
Il sefer ha-Zohar, il libro dello splendore, testo classico della kabbalah spagnola. Lo Zohar risale
al XIII secolo ed è da attribuire, almeno per quanto riguarda la sua parte centrale al kabbalista
spagnolo Mosè de Leòn (1240-1305 ca).
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E’ con il Baal Shem, che studia e reinterpreta lo Zohar, che lo
zaddik diventa rebbe zaddik, ovvero “giusto” termina di essere un
aggettivo attribuito a chi si comporta rettamente o ha esperienze
mistiche e diventa invece un sostantivo, diventa il titolo che si
attribuisce al maestro chassidico. Con il Besht, inoltre, lo zaddik
acquista nuove caratteristiche. Questo non solo è in grado di avere
esperienze mistiche, ma può elevarsi così in alto da raggiungere quelle
sfere in cui i decreti divini non sono stati ancora promulgati e mutarli.
Dio accetta di cambiare le sue decisioni a causa della santità dello
zaddik. Il passo del Talmud in cui Dio dice: “ Io promulgo un decreto
ed egli (il giusto) lo annulla” prende qui un significato diverso da
quello comunemente inteso per cui Dio esaudisce le preghiere di colui
che è giusto. L’uomo giusto diviene nell’interpretazione del Baal
Shem lo zaddik, il maestro, per il quale Dio non solo esaudisce le
preghiere ma modifica le decisioni che aveva preso riguardo a tutto il
popolo di Israele. Lo zaddik, secondo il Baal Shem, può ottenere di
essere esaudito da Dio in virtù della propria fede. E’ quest’ultima,
infatti, che caratterizza principalmente lo zaddik, non il sapere. Per
questo ogni uomo può diventare uno zaddik, anche l’indotto. Con