3
argomenti alla letterature filosofico giuridica ma sia il problema per
antonomasia, una sfida che non può non vederci interessati, una alternativa
che richiede a chiunque si occupi di diritto di schierarsi.
Diversa, in questi anni, è stata la sorte di questi due giuristi, di queste due
metafore del novecento
1
. Hans Kelsen è il giurista che ha, senza ombra di
dubbio, maggiormente influenzato gli sviluppi della scienza giuridica del
novecento; ancora oggi, nelle nostre università, è tra gli autori più studiati e
commentati : la sua importanza dal punto di vista della autorità scientifica,
quindi, è pari alla fortuna che le sue teorie hanno avuto tra gli esperti del
diritto, molti dei quali, fermamente, si definiscono tuttora kelseniani
2
.
Molto diverso è invece il discorso rispetto a Carl Schmitt. Il giurista di
Plettemberg, pur avendo ricoperto un ruolo non meno centrale all’interno del
pensiero giuridico del secolo scorso, è stato vittima di una colpevole
marginalizzazione – in particolar modo nella natia Germania – che ha avuto
come causa la sua adesione al regime nazionalsocialista.
1
A. Carrino, introduzione a Carl Schmitt, “La condizione della scienza giuridica europea”.
2
H. Kelsen, prefazione ai Lineamenti di dottrina pura del diritto :
“Oggi posso dichiarare con soddisfazione che non sono rimasto solo su questa via. In tutti i paesi civili, in
tutti gli ambienti professionali del multiforme lavoro giuridico, tanto presso i teorici quanto presso i pratici
e anche i rappresentanti di scienze affini, io ho trovato consenso ed incoraggiamento. Studiosi orientati
verso scopi comuni si sono riuniti strettamente fra loro formando quella che si chiama la mia “scuola”, e
che è tale solo nel senso che ognuno cerca di imparare dagli altri senza rinunciare per questo a seguire la
propria strada. E non è certo piccolo il numero di coloro che, senza aderire alla dottrina pura del diritto e a
volte senza nominarla nemmeno e magari anche respingendola direttamente e con espressioni poco
amichevoli,traggono da questa alcuni risultati essenziali”.
4
E’ illuminante, a proposito, l’opinione di uno dei più lucidi studiosi tedeschi
del pensiero schmittiano– Hasso Hoffman - :
“ Al centro della discussione vi è stata, piuttosto che la qualità della sua
dottrina, soprattutto la sua persona, in particolare il ruolo di Schmitt negli
anni 1933-36 e in questo contesto rappresenta un pezzo del problema tedesco
del superamento del passato”
3
.
La diffidenza verso schmitt si è spinta anche oltre, tanto che più di un
commentatore ha messo in dubbio la possibilità stessa di definirlo un
giurista
4
, nonostante a più riprese lo stesso Schmitt abbia rivendicato
5
questo
status. M. S. Giannini ha sostenuto questa ipotesi nel corso del suo intervento
al convegno “La concezione giuridica di Carl Schmitt” – tenutosi a Roma nel
1986 – adducendo tra le motivazioni il giudizio che Santi Romano dava dello
stesso Schmitt, che lo considerava tra quegli studiosi del diritto che
intrecciavano la propria riflessione giuridica con la politica, la sociologia, la
filosofia e che quindi non meritavano la qualifica di giuristi
6
.
3
H.Hofman, Legittimità contro Legalità.
4
G. Ferrara ha pubblicato sul Corriere della Sera del 25 maggio del 1986 un articolo dall’emblematico
titolo “Carl Schmitt, il giurista inesistente”.
5
“Mi sento al cento per cento giurista e nient’altro. E non voglio essere altro. Io sono giurista e lo rimango
e muoio come giurista e tutta la sfortuna del giurista vi è coinvolta “. – da F.Lancaster, Un giurista davanti a
se stesso. Carl Schmitt.
6
E’ curioso notare che, a giudizio di S.Romano, lo stesso Kelsen – definito “giurista verniciato di politica”-
non meriterebbe, al pari di Schmitt, questa qualifica.
5
Per fortuna oggi, conclusasi questa ingiustificata damnatio memoriae, è
possibile registrare una rinnovata attenzione al pensiero di Schmitt, così
significativa da far parlare addirittura di una vera e propria Schmitt –
Reinassance, fenomeno che ha trovato terreno fertilissimo anche in Italia. E’
però bene chiarire come la scelta di individuare in Schmitt uno dei due
termini del nostro confronto non sia semplicistica adesione a quelle che
potremmo definire la moda schmittiana attualmente in voga – come non
sarebbe stata mero anticonformismo se attuata qualche anno addietro – ; ma
invece il frutto di una attenta considerazione, come spiegato in apertura, sulla
sconvolgente attualità, al pari di Kelsen, del pensiero del giurista di
Plettemberg.
Per comprendere la attualità di questo confronto è necessario, però, collocarlo
all’interno del contesto storico – politico nel quale questo ha avuto inizio e
lungo il quale si è sviluppato. Il teatro di questo confronto è stato il
novecento, secolo che si è caratterizzato per la molteplicità e la importanza
delle contraddizioni e delle contese che lo hanno attraversato; secolo che è
stato teatro della fine di molte certezze – in particolar modo nel campo della
politica e del diritto - ma allo stesso tempo della nascita di nuove ideologie e
del loro scontro . Un periodo storico gravido di problematiche, molte delle
quali, irrisolte, si presentano con maggiore incisività ai giorni nostri; un
periodo storico che inevitabilmente ha lanciato molte sfide, alle quali giuristi
del calibro di Schmitt e Kelsen non si sono certamente sottratti.
6
Due giuristi europei a confronto nel secolo che ha visto l’Europa perdere
gradualmente la sua centralità; alla quale forse solo i giuristi sono i grado di
fornire la via per recuperarla. Schmitt, nella premessa all’edizione italiana di
alcune sue opere, ha espresso in maniera chiara la consapevolezza di trovarsi
ad esprimere il proprio pensiero in una siffatta situazione :
“Nel corso di mezzo secolo l’Europa ha perduto il suo ruolo di centro della
politica mondiale : è questo il periodo in cui sono apparsi i miei lavori
scientifici”.
Questa condizione, come abbiamo premesso, ha ovviamente comportato
delle importanti ripercussioni anche sulla scienza giuridica :
“La detronizzazione dell’Europa ha significato anche uno scuotimento di
concetti specifici che erano stati elaborati dalle nazioni europee, attraverso
faticosi processi di pensiero. Rientrano tra questi, concetti propri della
scienza del diritto come Stato e Sovranità, costituzione e legge, legalità e
legittimità […] che appartengono […] al […]Jus Publicum Europaeum[…] e
vanno a fondo con esso.
Un’era è giunta alla conclusione : quella della modernità, che aveva trovato la
sua genesi storica a cavallo tra i secoli XVI e XVII, durante i quali l’Europa
7
vive una delle fasi cruciali e più tragiche della sua storia, quella delle guerre
di religione. Questa fase, oltre alle ingenti quantità di vite umane, vide cadere
sul campo di battaglia un concetto, quello dell’universitas christiana, il cui
tramonto segnerà irreparabilmente la storia del diritto e delle istituzioni.
L’elemento unificatore costituito dal comune credo religioso era stato la base
che aveva reso possibile la costruzione di una determinata struttura
istituzionale comunque propria di tutto il mondo indo-europeo
7
- e,
soprattutto,ne aveva costituito il principale motivo di giustificazione- : una
struttura complessa che vede coesistere, sulla base di una differenziazione
funzionale, il vertice della organizzazione ecclesiastica ed i rappresentanti del
potere politico, senza che gli attriti
8
– che pure ci furono – tra queste due
componenti mettessero a repentaglio la validità di questo schema. Lo stesso
Schmitt,in una delle sue opere maggiormente significative, ha fornito una
spiegazione esaustiva di questa situazione :
“L’unità medioevale di imperium e sacedotium, propria dell’Europa
occidentale e centrale, non è mai stata un accentramento di potere nelle
mani di un unico uomo. Si era invece fondata una netta distinzione tra
7
Sul punto è particolarmente illuminante l’opera di M.Eliade, La sovranità presso gli indo – europei, in Id. ,
Spezzare il tetto della casa. La creatività ed i suoi simboli. Importante è anche l’opera di G.Dumezil, Gli dèi
sovrani degli indo –europei.
8
C. Schmitt, Il Nomos della Terra :
Neppure per un istante l’unità della respublica christiana venne messa in discussione : né quando un
imperatore nominò o destituì un papa a Roma, né quando un papa a Roma sciolse i vassalli di un
imperatore o di un re dal giuramento di fedeltà al loro sovrano “.
8
potestas ed auctoritas quali principi di ordine diversi ma facenti capo alla
medesima unità complessiva. Papa ed imperatore non erano tra loro
contrapposti in modo assoluto, ma solo quali diversi ordines in cui viveva
l’ordinamento della respublica christiana.Il problema quivi insito del
rapporto tra Chiesa ed Impero era essenzialmente diverso da quello,
successivo, del rapporto tra Chiesa e Stato, giacchè Stato avrebbe significato
il superamento delle guerre civili di religione, possibile solo a partire dal
secolo XVI e ottenuto traverso un processo di neutralizzazione. Nel Medioevo
le mutevoli situazione politiche e storiche facevano sì che l’imperatore
reclamasse auctoritas ed il papa potestas. Ma la disgrazia accade solo
quando, dal secolo XIII in poi, la dottrina aristotelica della societas perfecta
venne adoperata al fine di separare Chiesa e mondo in due generidi
societates perfectae […]. La contesa medioevale tra imperatore e pontefice
non è assolutamente una lotta tra due societates, sia che si intenda qui con il
termine societas quanto in tedesco viene designato con Gesellschaft o con
Gemeinschaft. Essa non era neppure un conflitto tra Chiesa e Stato sul
genere del Kulturkampf bismarckiano o del processo francese di
laicizzazione dello Stato. Non era infine nemmeno una guerra civile come
quella tra partigiani rossi e bianchi nella lotta di classe socialista. Ogni
analogia con l’ambito tipico dello Stato moderno è qui storicamente falsa,
come lo è ogni impiego, esplicito o implicito, delle idee di unificazione o
9
centralizzazione che dal tempo del Rinascimento, della riforma o della
Controriforma si è soliti collegare alla rappresentazione di unità”
9
.
. Di conseguenza vi è una netta distinzione funzionale tra chi rappresenta il
vertice di quest’ultima casta, il Papa – titolare appunto dell’autorità – e
l’Imperatore, titolare della regia potestas, che ha il preciso compito di “far
rispettare tutte quelle autorità che sono state riconosciute vincolanti e
risalenti a Dio” .Fin troppo chiara appare quindi la legittimazione del potere
politico : all’ Imperatore si deve obbedienza in quanto titolare di un potere
che, in ultima istanza, è ”approvato” da Dio tramite il suo diretto
rappresentante in Terra – il Papa – e sino a quando tale approvazione
permane – . La legge vale non perché espressione della voluntas del sovrano
–quindi effetto della sua potestas , ma perché è la espressione di una veritas;
quasi come se la voce del sovrano terrestre fosse solo l’eco di quella del
sovrano celeste.
Improvvisamente, però, si registra un radicale cambiamento di ruolo della
religione cristiana. Questa, difatti, da elemento fondante della universitas si
trasforma in elemento destabilizzante, foriero di lacerazioni e divisioni, di
contrapposizioni amico/nemico – tanto per utilizzare una terminologia
tipicamente schmittiana – che implicano la necessità di una neutralizzazione.
Lo schema istituzionale sopra delineato perde la sua fonte di legittimazione;
il compito è adesso quello di costruire forme nuove idonee allo
9
C. Schmitt, Il Nomos della Terra.
10
scopo,l’obiettivo è quello di fondare una nuovo ordine capace di riportare la
pace e la stabilità; nuove istituzioni che, necessariamente, debbono trarre
forza da un nuovo e diverso motivo di legittimazione. A questi bisogni fu
data una risposta precisa : lo Stato – ed il sovrano che ne è a capo – è la
istituzione che, monopolizzando l’uso della forza, riesce a porre fine alle
lacerazioni generate dalle guerre di religione. Il potere è frutto non di un
mandato divino bensì di un patto tra i consociati, i quali rinunciano a parte
della loro libertà e giurano obbedienza – meramente “esterna”
10
- all’ordine
costituito in quanto vedono in questo l’unico rimedio allo stato di guerra
civile causato dai conflitti religiosi. Proprio Schmitt, in breve, ci delinea il
percorso di questo cambiamento :
“[…] Anche altre determinazioni storiche territoriali della respublica
christiana medioevale, istituzioni con un proprio senso come le “corone”
perdono il loro carattere tipico e si avviano ad essere utilizzate per lo
sviluppo che porta allo Stato. Il monarca si trasforma da portatore sacrale di
una corona in capo di uno Stato sovrano”.
10
A. Catania, “Lo Stato moderno. Sovranità e giuridicità ” : “Ora noi sappiamo che […]L’obbedienza viene
a delinearsi ed a fissarsi come obbedienza meramente esterna. Al suddito non si chiede di essere
necessariamente convinto della intrinseca bontà del contenuto del comando, ma si chiede l’obbedienza al
comando del sovrano, al fine di garantire, in ultima analisi, la pace sociale intesa come mero ordine […].In
un certo senso il sovrano hobbesiano, il Leviathano, la machina machinarum, il mostro senz’anima, fonda e
costituisce lo Stato moderno grazie alla scissione tra foro interno e foro esterno, fra opinione ed azione,
dunque proprio grazie al fatto che è privo di anima. Ciò che è richiesto al suddito è il conformismo
esteriore”.
11
A conclusione di queste vicende il fattore religioso finisce per esaurire la sua
funzione centrale sia in positivo – quale fattore di aggregazione – sia in
negativo - quale motivo di scontro – divenendo un elemento indifferente alla
politica, finendo per trovare spazio solamente nella sfera interiore
11
di
ciascun cittadino; sfera che, come abbiamo precisato, è libera da ogni forma
di condizionamento del sovrano. Sorge quindi in Europa l’epoca dello Stato
che, persa ogni aurea di sacralità, si afferma ora, completamente
secolarizzato, come strumento, come machina funzionale alla
neutralizzazione del conflitto religioso, ponendosi come unica istituzione
capace di assicurare, in cambio di una obbedienza meramente esteriore, una
prospettiva di pace e stabilità; istituzione che monopolizza la sfera della
11
H. Hofman, nell’opera “Legittimità contro legalità”, ha giustamente notato come quest’aspetto della
dottrina hobbesiana costituisse per Schmitt l’elemento destabilizzante che avrebbe causato il crollo della
costruzione elaborata dal giurista inglese :
“[…]Ma Hobbes – in una certa misura alfine di introdurre nel suo sistema totale una valvola di sicurezza
per l’eccessiva pressione – avendo ammesso una distinzione tra la confessione esteriore prescritta dallo
Stato e la fede interiore, personale, aveva egli stesso offerto agli avversari il punto di appoggio per la
distruzione del Leviatano, in quanto a partire da qui il rapporto voluto da Hobbes tra esistenza privata ed
esistenza pubblica poteva essere rovesciato nel suo contrario. Con questo strappo tra la sfera pubblica e la
sfera privata, ancora poco visibile nell’opera di Hobbes, ma in seguito approfonditasi sia in sede teorica
che in sede pratico – politica, il suo Leviatano aveva sin dall’inizio portato in sé il germe mortifero che
doveva distruggerlo dall’interno. In seguito a questa scissione, scrive ancora Schmitt, la costruzione
politica di Hobbes doveva svilupparsi, nella sua realizzazione, in quanto mero apparato e strumento, in uno
Stato esteriormente onnipotente, da un lato, dall’altro però internamente impotente, dunque in uno Stato
neutrale e totale per debolezza, essa doveva attuare l’antitesi radicale tra la legalità formale e la legittimità
dei contenuti reali, e dall’altro lato portare alla vittoria la sfera privata su quella pubblica, alla vittoria
delle forze indirette, sociali, sullo Stato quale loro mero potere e alla demonizzazione del frainteso simbolo
del filosofo di Malmesbury”.
12
politica, anzi si identifica
12
con essa, esaurendola. la Lo spazio europeo è
quindi diviso tra i vari Stati sovrani
13
che, quali magni homines, creano quella
serie di regole e di relazioni da Schmitt riassunti nella efficace formula di Jus
Publicum Europaeum che si fonda proprio sui concetti di sovranità e di Stato
ed in essi trova il proprio principale presupposto. Il pensiero di Schmitt e
Kelsen nasce e si sviluppa proprio durante la crisi di questo assetto e della
civiltà giuridica
14
che attorno ad esso si era sviluppata; costituendo una
risposta, ovviamente non omologa, alle domande che tale crisi
inevitabilmente portò con sé.
12
Come Schmitt afferma chiaramente ne “Il concetto di ‘politico’ ” questa identificazione – quella tra
“politico” e “Stato” – è possibile solamente “finchè lo Stato è realmente una identità chiara, univoca e
determinata e si contrappone ai gruppi ed agli affari non statali e perciò anche non politici, finchè cioè lo
Stato ha il monopolio del ‘politico’ “.
A tal proposito è interessante riportare le osservazioni di Gianfranco Miglio, uno dei più attenti studiosi
italiani del pensiero del giurista di Plettemberg e delle sue implicazioni.
Miglio, in un saggio dal titolo “Oltre Schmitt”, sostiene la assoluta non - politicità dello Stato moderno.
Riportiamo alcuni brani del saggio per meglio chiarire la prospettiva dello studioso italiano e per fornire uno
spunto per la riflessione :
“Patto politico e contratto-scambio devono essere intesi come due elementi rigorosamente distinti : diviene
così possibile comprendere – in modo assai divergente rispetto a tutte le interpretazioni finora emerse –cosa
sia lo “Stato moderno “ : lo Stato moderno in quanto Stato di diritto è una costruzione che poggia
interamente sul contratto e che quindi si colloca entro l’area non politica del “privato”[…]Per quanto
paradossale possa apparire una simile tesi essa sola, nella sua correttezza metodologica, riesce a dare
ragione del perché la politica si sia sviluppata oramai secondo modi non statuali e si collochi fuori dai
confini dello Stato. Lo Stato moderno è sinonimo di “normalità” : tutto il suo aspetto si viene a riprodurre
in una zona esterna rispetto al patto politico e i suoi poteri sono poteri regolamentati e regolari, ossia poteri
‘ ordinari ’ ”.
13
C. Schmitt, Il Nomos della Terra :
“ Il diritto internazionale europeo – continentale, lo jus Publicum Europaeum, fu essenzialmente – dal
secolo XVI in poi - un diritto interstatale fra sovrani europei e determinò, partendo da questo nucleo
europeo,il nomos del resto della terra”.
14
G. Miglio, “Oltre Schmitt” in “La politica oltre lo Stato : Carl Schmitt” a cura di G. Duso.
13
Lo Stato sembra aver concluso la sua funzione storica : non sembra più in
grado di porsi come elemento di unificazione, di neutralizzazione delle
tensioni e delle conflittualità che si formano e si scatenano all’interno della
compagine sociale che ne costituisce l’elemento soggettivo. All’interno dello
Stato nascono nuove aggregazioni amico/nemico, non più fondate
sull’elemento religioso, ma di altra natura ( una su tutte le contrapposizione
tra classi, elemento fondante della dottrina marxista ) ugualmente in grado di
accendere contrapposizioni radicali, e difficilmente componibili. Lo Stato è
messo in difficoltà, non sembra in grado di porsi come istituzione in grado di
porre argine alla conflittualità interna, neutralizzandola. Esempio concreto di
questa situazione è la Germania di Weimar, la cui costituzione, così come la
sua critica, è stata influenzata dal pensiero di Kelsen e di Schmitt. Nella
Germania del primo dopoguerra è possibile identificare lo specchio della
situazione di enorme crisi che le istituzioni tradizionali – lo Stato in primis –
attraversano e degli eventi che ne furono la naturale, inevitabile conseguenza.
Fino alla prima guerra mondiale, infatti, la complessità interna era stata
“neutralizzata” grazia al riferimento alla comune radice nazionale, elemento
di sintesi delle varie anime all’interno della compagine sociale, di cui le
istituzioni si ponevano come forma rappresentativa. Dopo la tragedia della
guerra, finito il “mito” nazionale, emergono con forza nuovi motivi di
conflittualità, che chiedono, se possibile, una differente ragione di sintesi.