II
difficoltà di uniformare i vari sistemi di valutazione della “scientia decoctionis” adottati
dai singoli collegi giudicanti.
Ha, invece, riscosso maggiore successo un altro tentativo inteso a superare le
segnalate ingiustizie: quello secondo cui le rimesse in conto corrente avrebbero efficacia
solutoria e sarebbero pertanto revocabili solo nei limiti della differenza fra il “massimo
scoperto” ed il saldo finale del conto.
Anche la tesi del “massimo scoperto”, che si configura come tesi intermedia tra
quella della totale irrevocabilità e quella, opposta, della totale revocabilità delle rimesse,
ha sollevato non poche critiche in dottrina, soprattutto perché trascurava l’esame delle
singole rimesse le quali, si è osservato, non costituiscono delle differenze ma, al
contrario, ai fini della revocabilità devono essere considerate autonomamente.
Finalmente nel 1982, con la sentenza 18 ottobre n. 5413, la Suprema Corte ha
indicato i requisiti essenziali affinché le rimesse potessero essere assoggettate a
revocatoria. La Cassazione ha per la prima volta introdotto i concetti di conto “passivo”
e di conto “scoperto”, giudicando revocabili le rimesse che affluiscono su quest’ultimo
conto e non revocabili quelle che affluiscono sul primo. Tale soluzione se non ha
scontentato gli istituti di credito, riconoscendo la revocabilità di tutte le rimesse
effettuate su conto scoperto, non li ha nemmeno accontentati.
Per questa ragione la decisione della Corte, nonostante abbia avuto largo seguito
dottrinale e giurisprudenziale, è stata esposta a vari commenti critici che hanno messo in
evidenza come la posizione assunta dalla Cassazione non tenda affatto a ripristinare una
“par condicio” violata ma, al contrario, avvantaggi la massa creditoria a danno di uno
solo dei creditori, le banche. A ciò si aggiunga che la sentenza 5412/1982, sebbene
abbia segnato una svolta tanto da essere giudicata da qualche autore “un onorevole
compromesso tra le varie esigenze di tutela”, ha lasciato irrisolti molti problemi
connessi alla revocabilità delle rimesse, quali quelli relativi all’individuazione del saldo
cui riferirsi al fine di verificare l’entità dello “scoperto”, alla revocabilità delle
operazioni bilanciate, alla revoca del giroconto, alla determinazione del limite del fido
in presenza di una pluralità di affidamenti eventualmente concessi dalla banca a favore
del correntista e, ancora, alla ripartizione dell’onere della prova tra banche e curatele.
Prima di procedere all’esame di tali problematiche, il presente lavoro si propone
di approfondire uno degli aspetti di maggior rilievo dei rapporti tra banche e organi
fallimentari, ossia il diritto del curatore (oramai espressamente riconosciuto dal
legislatore) alla consegna della documentazione bancaria dell’imprenditore poi fallito.
Come è noto, i contrasti tra curatori e istituti di credito sorgono soprattutto nelle ipotesi
in cui devono essere promosse azioni revocatorie di rimesse in conto corrente bancario.
Al fine di ricostruire la contabilità ed il patrimonio del fallito, di riferire sulle
cause e sulle circostanze del dissesto, di accertare eventuali responsabilità del fallito e
soprattutto di valutare l’opportunità di esperire eventuali azioni revocatorie, il curatore
necessita di venire a conoscenza di tutti gli elementi desumibili dai contratti e rapporti
intrattenuti dal cliente fallito con la banca medesima.
Spesso, gli istituti di credito hanno manifestato scarsa disponibilità a soddisfare
le richieste avanzate dagli organi fallimentari. La ragione dell’atteggiamento
ostruzionistico assunto dagli istituti di credito risiede nel fatto che il curatore nel
richiedere la documentazione, in genere, non si propone di controllare la regolarità delle
modalità di esecuzione del rapporto banca – correntista, ma intende soprattutto
ricostruire i movimenti ed in particolare individuare i pagamenti effettuati alla banca
anteriormente al fallimento, riconducibili nella fattispecie dell’art. 67, secondo comma,
l. fall.
III
Talvolta i curatori, forti dell’autorizzazione del giudice delegato e della loro
qualifica di pubblico ufficiale e quindi della natura pubblicistica delle funzioni
affidategli, hanno abusato di tale “posizione di supremazia”, tanto da essere accusati di
assumere comportamenti da “sceriffi”, scarsamente riguardosi dei legittimi diritti dei
terzi nella procedura fallimentare e soprattutto di considerare le banche come “soggetti
forti” nel rapporto con i clienti falliti. Si comprende, dunque, la riluttanza delle banche
ad adempiere spontaneamente all’obbligo di consegna della documentazione al curatore
che ne faccia richiesta.
La considerazione degli istituti di credito, quali soggetti forti nell’ambito del
ceto creditorio, ha portato gli stessi giudici che si sono occupati di problematiche
connesse alle procedure concorsuali, ad adottare decisioni a volte severe nei confronti
degli stessi. In particolare, gli orientamenti più rigorosi nei confronti delle banche sono
stati determinati da una condotta non molto rispettosa nei confronti dei loro clienti, in
quanto hanno preferito spesso concedere credito utilizzando il meccanismo dello
scoperto di conto anziché stipulare regolari contratti, come l’apertura di credito o
l’anticipazione bancaria nel rispetto degli adempimenti previsti dalle norme di
vigilanza. Tale modalità operativa lascia ampia libertà d’azione alle banche le quali
possono, in tal modo, aumentare o diminuire a propria discrezione il fido concesso, fino
a chiedere l’immediato rientro senza dover concedere termini di preavviso o di
restituzione.
In quest’ottica, la revocatoria in sede fallimentare delle operazioni bancarie e in
particolare delle rimesse in conto corrente, oltre ad assolvere la finalità di tutela della
“par condicio” fra i creditori entrati in rapporti con l’imprenditore insolvente prima
della dichiarazione di fallimento, costituisce un deterrente idoneo a indurre le banche al
rispetto delle regole formali nell’erogazione del credito. In sostanza, attraverso lo
strumento della revocatoria si vuole improntare ad un criterio di maggiore efficienza e
produttività il ruolo delle banche nella crisi delle imprese, il che significa costringere le
stesse a concedere finanziamenti solo ad imprese che non versano in una situazione
irreversibile di insolvenza ma che possono recuperare efficienza e produttività.
E’ necessario, quindi, che le banche, nel tentativo di recuperare direttamente il
proprio credito, non favoriscano la prosecuzione dell’attività di organismi già
condannati ancora prima della formale dichiarazione dello stato di insolvenza e ne
chiedano tempestivamente il fallimento.
La “concessione abusiva di credito” a favore di imprese oramai insolventi che
difficilmente potranno restituirlo, costituisce un danno per tutta l’economia in quanto,
consentendo alle imprese di effettuare nuovi investimenti e quindi aggravando lo stato
di dissesto, finisce per pregiudicare tutti gli altri creditori, sia quelli anteriori alla
concessione del fido che hanno avvertito in ritardo lo stato di decozione dell’impresa e
non sono stati in condizione di limitare la loro esposizione (anzi spesso sono stati
costretti a fare credito per evitare la loro sostituzione da parte dell’imprenditore con altri
fornitori), sia quelli successivi per essere stati a loro volta costretti a fare credito
facendo affidamento sulla apparente solvibilità determinata dal finanziamento bancario.
In sostanza, assoggettando a revocatoria i pagamenti effettuati a favore delle
banche nel periodo sospetto, si vuole perseguire un duplice obiettivo: da un lato, evitare
che la banca, di fronte ad un cliente in stato di insolvenza, si avvantaggi rispetto agli
altri creditori utilizzando l’elasticità del rapporto di conto corrente, dall’altro, che agisca
in senso contrario ossia interrompa bruscamente l’erogazione del credito determinando
l’eliminazione dal mercato dell’impresa insolvente.
IV
Gli strumenti a disposizione delle banche per aggirare l’ostacolo e sfuggire alla
revocatoria sono diversi. Tra questi assumono particolare rilevanza l’istituto della
compensazione legale che, in quanto tale, non è soggetta a revocatoria e la prova
dell’esistenza di un’apertura di credito concessa a favore del correntista. Quanto alla
prima, in giurisprudenza si rinvengono numerosi casi in cui le banche, attraverso
particolari “escamotage”, sono riuscite a creare artificiosamente le condizioni per la
compensazione superando, in tal modo, l’unitarietà che caratterizza il contratto di conto
corrente bancario e che, come è noto, costituisce il principale ostacolo all’operatività di
tale istituto.
Riguardo invece alla prova degli affidamenti, fortemente dibattuta è la questione
relativa alla possibilità di desumere la sussistenza degli stessi da “facta concludentia”,
soprattutto a seguito dell’entrata in vigore della legge sulla trasparenza bancaria che
prevede la forma scritta, obbligatoria per tutte le operazioni di prestito o di
finanziamento.
Il tema della distribuzione dell’onere probatorio tra banche e curatele costituisce
uno dei principali argomenti in materia di revocatoria di rimesse bancarie: questo non
tanto in relazione alla prova, gravante sulla banca, dell’esistenza di un’apertura di
credito, quanto piuttosto in ordine a quella della “scientia decoctionis” che l’art. 67 l.
fall. pone in capo al curatore.
E’ affermazione ricorrente che, ai fini della prova della conoscenza, da parte
della banca, dello stato di insolvenza del proprio debitore, debba aversi riguardo alla
qualità del creditore e alle specifiche conoscenze tecniche a sua disposizione, soprattutto
se il creditore sia una banca la quale, proprio per l’istituzionalizzato “servizio di
accertamento” di fatti attinenti alle eventuali situazioni di crisi dei propri clienti, presta
particolare attenzione al manifestarsi dei segni di insolvenza di questi ultimi ed ha una
possibilità di informazione della loro situazione patrimoniale superiore a quella comune.
Le banche dispongono di una visione completa dello stato di salute del proprio
cliente: i conti correnti del correntista danno, infatti, un quadro non solo dei rapporti
generali di dare e avere, ma consentono di individuare nominativamente i fornitori e i
clienti del correntista, di verificarne l’affidabilità, di conoscere l’indebitamento a breve
o a medio termine. Inoltre, nel corso dei rapporti con i propri clienti, attraverso la
Centrale Rischi, le banche possono venire a conoscenza, più agevolmente e prima degli
altri creditori, non solo di protesti e pignoramenti ma anche di ritardi e irregolarità
nell’adempiere agli impegni assunti sia verso la banca stessa che verso i terzi (e in
particolare i fornitori), del mancato pagamento dei crediti ceduti per lo smobilizzo, di
assegni o effetti, di esercizi chiusi in perdita, ecc.
Insomma non si può negare che esiste una profonda differenza tra la situazione
del singolo fornitore e quella delle banche che, grazie alla loro organizzazione moderna
e attentissima ai mutamenti economici, alla rete informativa capillare di cui dispongono,
ricevono notizie di prima mano circa le vicende economiche del proprio cliente e, in
virtù della forza che esse rappresentano nella società, costituiscono la categoria più forte
del ceto creditorio considerato nel suo complesso. A sostegno di tale affermazione si
aggiunga che, a differenza degli altri creditori, le banche sempre, ma soprattutto quando
concedono fidi ad imprese costituitesi in forma societaria, rafforzano la loro esposizione
pretendendo fideiussioni da parte dei soci e di terzi garanti riducendo in tal modo
notevolmente il rischio. Spesso ne fanno le spese gli imprenditori che, per ottenere
credito, devono sottostare alla concessione di garanzie reali e personali, eccessive e
onerose che si ripercuotono pesantemente sulla gestione delle imprese.
V
Queste considerazioni portano a respingere quegli orientamenti secondo i quali
le banche sopporterebbero un rischio maggiore e che, conseguentemente, accusano i
giudici di assumere atteggiamenti troppo severi nei confronti delle stesse, ricorrendo
esageratamente allo strumento della revocatoria delle rimesse sul conto corrente con
saldo debitore dell’imprenditore poi fallito. D’altra parte, se è vero che le procedure di
salvataggio delle imprese in crisi tendono a coinvolgere le banche addossando alle
stesse il rischio imprenditoriale (tanto che talvolta sono state ritenute responsabili per
aver concorso a provocare un dissesto di più ampie proporzioni rispetto a quello che si
sarebbe verificato qualora il credito non fosse stato accordato), è anche vero che gli
istituti di credito dispongono di un sistema di autotutela che consente loro di sottrarsi a
tale coinvolgimento e ridurre notevolmente il rischio e, ammesso che abbiano subito i
costi di salvataggio, la loro sorte non è stata diversa da quella degli altri creditori.
Non si vede quindi la ragione per cui alle banche che ricevono pagamenti su
conti correnti in rosso debba essere riservato un trattamento preferenziale, diverso, per
uno o più aspetti, da quello praticato alle altre categorie di creditori che dal fallimento
del proprio debitore vengono colpiti in misura spesso irreparabile.
1
Capitolo 1
IL CURATORE FALLIMENTARE E IL DIRITTO ALLA
CONSEGNA DEI DOCUMENTI BANCARI DEL FALLITO
1.1 . Il curatore fallimentare: poteri e responsabilità
La procedura di fallimento comporta lo svolgimento di varie e complesse attività
volte, da un lato, alla formazione della massa passiva, ossia alla ricostruzione della
complessiva situazione debitoria del fallito, dall’altro alla formazione della massa attiva
ossia alla ricostruzione del suo patrimonio; a questa segue la liquidazione ovvero la
trasformazione in danaro liquido dell’insieme dei beni che lo compongono e la
ripartizione del ricavato derivante dalla vendita degli stessi nel rispetto della “par
condicio creditorum”.
Allo svolgimento di queste attività sono preposti quattro organi, la cui
competenza è disciplinata dagli art. 23 – 41 l. fall.
Gli organi della procedura sono specificatamente:
il tribunale fallimentare, il cui compito è quello di risolvere tutte le controversie che
insorgono durante la procedura e di decidere i reclami contro i provvedimenti del
giudice delegato; il giudice delegato, cui spetta la direzione delle operazioni del
fallimento e la vigilanza sull’operato del curatore e di ogni altro incaricato di prestazioni
nell’interesse del fallimento (esperti, professionisti e tecnici, ecc); il curatore
1
che, ai
sensi dell’art. 31, 1° comma, l. fall., è nominato dal tribunale ed è l’organo preposto alla
custodia e all’amministrazione del patrimonio fallimentare, sotto la direzione del
giudice delegato; infine, il comitato dei creditori che è dotato di funzioni solo
consultive.
Tali organi, che proprio secondo la definizione offerta dalla stessa legge
fallimentare, sono “preposti al fallimento”, se considerati unitariamente costituiscono
l’ufficio fallimentare nel cui ambito il curatore funge da baricentro, ponendosi al di
sopra tutte le parti coinvolte
e degli stessi terzi quale organo ausiliare
dell’amministrazione della giustizia.
Queste prime affermazioni, unitamente a quella secondo la quale “la funzione
dell’amministrazione fallimentare è l’esser strumento per consentire la realizzazione
dello scopo del fallimento”
2
, evidenziano l’importanza del ruolo che compete al
curatore, ruolo che è legato alle esigenze strutturali della procedura fallimentare. A
questo proposito si è osservato che “la giustificazione ontologica e funzionale della
figura del curatore si ricollega alla necessità, dettata dalla stessa configurazione del
fallimento come processo, di frapporre tra il giudice e la complessa realtà economica,
un organo professionalmente esperto ed idoneo ad amministrare, a negoziare, a
1
Per una completa trattazione della figura del curatore si veda G. CASELLI, Organi del
fallimento, in Commentario Scialoja - Branca, Bologna, Roma, 1977, p. 133 e ss.; P. PAJARDI, Il
curatore del fallimento, ruoli, funzioni, compiti, facoltà, responsabilità del curatore e delle figure affini,
Milano, 2000; F. SEMIANI BIGNARDI, Il curatore del fallimento pubblico ufficiale, Padova, 1965; B.
QUATRARO - S. D’AMORA, Il curatore fallimentare: adempimenti, doveri, responsabilità, Milano,
1999.
2
G. CASELLI, op. cit., p. 15.
2
liquidare, a diagnosticare, a relazionare, a consigliare, ad inserirsi tra processo e
patrimonio del debitore oggetto del processo, tra debitore e creditore, tra processo e
terzi, in posizione di ausiliario del giudice, elevato al rango di organo del processo”
3
.
Spesso si tende a sminuire la funzione che il curatore esercita nell’ambito della
procedura, affermando semplicemente che il suo compito è quello di amministrare il
patrimonio del fallito. Tuttavia tale affermazione è alquanto riduttiva e banale, sia
perché il curatore è amministratore del patrimonio diretto dal giudice delegato, sia
perché l’amministrazione del patrimonio costituisce solo un aspetto del complesso di
attività svolte da tale organo concorsuale. Oltre all’attività amministrativa, nella quale
peraltro si inserisce un’attività negoziale, il curatore svolge, infatti, un’attività
processuale, ausiliaria a quelle svolte dal giudice delegato.
Quanto all’attività amministrativa, si è soliti operare una quadripartizione
4
degli
atti amministrativi che rientrano nel potere del curatore. Tale classificazione emerge
dall’insieme di norme della legge fallimentare che disciplinano la figura del curatore,
quale organo del fallimento. In particolare ci si riferisce all’art. 31 che, come è noto,
attribuisce al curatore l’amministrazione del patrimonio fallimentare sotto la direzione
del giudice delegato (il compimento degli atti di ordinaria amministrazione rientra
nell’autonomo potere del curatore il quale può decidere di compierli senza bisogno di
alcuna autorizzazione); all’art. 25 sia nella parte in cui dispone che al giudice delegato
spetta la direzione dell’operazione di fallimento e la vigilanza sull’opera del curatore,
sia nella parte in cui prevede che quest’ultimo debba munirsi dell’autorizzazione del
medesimo organo per stare in giudizio, in luogo del fallito, per le controversie relative ai
rapporti di diritto patrimoniale compresi nel fallimento (ad es. recupero di crediti del
fallito) e per compiere atti di straordinaria amministrazione; all’art. 35, che impone al
curatore di richiedere rispettivamente al giudice delegato e al tribunale l’autorizzazione
per il compimento di atti di importanza particolare o per atti il cui valore è
indeterminato o superiore alle lire 200000; agli artt. 36 e 26 che disciplinano, il primo i
reclami contro gli atti del curatore e il secondo quelli del giudice delegato; agli artt. 37 e
38 che regolano rispettivamente la revoca e la responsabilità del curatore; agli artt. 42 e
43 che prevedono, l’uno, il cosiddetto “spossessamento del fallito”, l’altro, il potere del
curatore a stare in giudizio in luogo del fallito, anche nelle controversie in corso al
momento della dichiarazione di fallimento. Uguale condizione giuridica spetta ai beni
che pervengono al fallito durante il fallimento, ad esempio per eredità, per crediti che il
curatore ha ricuperato, ecc. (art. 44 l. fall).
L’attività amministrativa, che si estrinseca nell’apprensione e custodia, nella
conservazione e nella liquidazione dei beni che costituiscono la massa attiva
3
P. PAJARDI, Il curatore, p. 17; ID., Manuale di diritto fallimentare, Milano, 2002, p.186; G.
LO CASCIO, Il fallimento e le altre procedure concorsuali, Milano, 1998, p. 117, il quale evidenzia che
“l’interpretazione giurisprudenziale ci ha offerto una vasta casistica dell’attività del curatore, ponendo in
luce che egli è rappresentante esterno del fallimento, riferisce su tutte le notizie utili alla gestione e
promuove i provvedimenti del giudice delegato. E’ il responsabile dell’intera conduzione della procedura
e dei risultati cui essa è destinata”. In giurisprudenza v. Trib. di Milano, 20 maggio 1985, in Il fall., 1985,
p. 977, secondo il quale “il curatore è chiamato a collaborare con gli altri organi della procedura e a
fornire loro le informazioni più tempestive e più complete sullo stato del fallimento, per rendere effettiva
la possibilità di esercizio dei poteri del giudice delegato.”; Cass., 25 febbraio 1975, n. 738, in Dir. fall.,
1975, II, p. 686, che sottolinea la qualità di ausiliario della giustizia del curatore “con potere - dovere di
indagare e riferire, proporre e realizzare, anche se manca di potere decisionale” che spetta al giudice
delegato e al tribunale fallimentare.
4
G. CASELLI, op. cit., p. 151; P. PAJARDI, Codice del fallimento, sub. art. 31, § 2, Milano,
2001.
3
fallimentare, è strumentale all’attività processuale, mentre quest’ultima è istituzionale:
“il curatore è innanzitutto organo del processo a tutte le fasi del quale partecipa con una
funzione insopprimibile ed essenziale”
5
.
Il giudice delegato ben poco potrebbe fare senza l’ausilio del curatore, organo
che, nella sua qualità di rappresentate esterno dell’ufficio fallimentare, consente al
giudice delegato di conoscere e valutare la realtà economica dell’impresa fallita e lo
mette in condizione di esercitare il suo potere volitivo nella direzione del processo del
fallimento.
D’altra parte, se è vero che il curatore nell’ambito della procedura esercita
un’attività di proposta, di suggerimento, di consulenza nel rapporto col giudice
delegato, è altrettanto vero che è il giudice delegato che, nell’ambito dei poteri di
direzione attribuitegli dall’art. 25 l. fall, decide e dispone. Il giudice delegato è il centro
deliberatore e propulsore del processo di fallimento e tutte le attività attribuite al
curatore vengono svolte sotto la sua direzione, ai sensi dell’art. 31 l. fall.
E’ importante soffermarsi sull’espressione “vengono svolte sotto la sua
direzione” in quanto essa è stata talvolta interpretata in termini restrittivi tanto da
relegare il curatore al ruolo di “mero esecutore di ordini”,
privo cioè di ogni potere di
decisione e posto comunque in una posizione gerarchicamente subordinata rispetto agli
altri organi della procedura.
Questa posizione è vero che gli conferisce poteri decisionali, ma limitatamente
agli atti di ordinaria amministrazione e, peraltro, in un ambito che è lasciato alla
discrezionalità del giudice delegato o, se del caso, del tribunale
6
.
Tuttavia gli orientamenti sopra esposti non sono condivisibili, infatti il rapporto
tra giudice delegato e curatore non può configurarsi come rapporto di subordinazione.
Non c’è dubbio sul fatto che se il giudice delegato è il direttore della procedura e il
curatore amministra il patrimonio sotto la sua direzione, quest’ultimo non possa avere
autonomi e illimitati poteri decisori e deliberativi, ma ciò non significa che, al pari del
comune amministratore, non abbia poteri d’iniziativa. Del resto, non bisogna
confondere i termini “direttore” e “direzione” con quelli di “comandante” e “comando”:
i primi sottintendono proprio “un’attività di indirizzo che lascia un margine di
discrezionalità e di autonomia di decisione del soggetto indirizzato”.
7
Non deve trarre in inganno il fatto che, ai sensi dell’art. 25 l. fall, il curatore, per
compiere atti di straordinaria amministrazione e per stare in giudizio
8
, debba essere
autorizzato dal giudice delegato (art. 25 l. fall.).
5
P. PAJARDI, Manuale, op. cit., p. 191 secondo il quale “è’ soprattutto nel procedimento di
accertamento dei crediti che si esplica la figura del curatore quale organo del processo, ma ancora
nell’omologazione del concordato, nell’estensione del fallimento e in genere nella partecipazione a tutti i
procedimenti interinali e parentetici inerenti la procedura”.
6
G. CASELLI, op. cit., p. 215.
7
G. CASELLI, op. cit., p. 216; A. BONSIGNORI, Diritto fallimentare, Torino, 1992, p. 98, il
quale sottolinea che “il curatore fallimentare non è un semplice esecutore di ordini del giudice delegato ed
del tribunale, ma svolge un’autonoma funzione di amministrazione del patrimonio del fallito, oltre a
quelle di ausilio alle funzioni degli organi giurisdizionali fallimentari”.
8
P. PAJARDI, Il curatore, op. cit., p 21, il quale, a proposito del provvedimento autorizzativo
emesso dal giudice delegato, evidenzia come sia opinione prevalente che non si tratti di una vera e propria
autorizzazione quanto piuttosto di un ordine impartito dal giudice delegato o dal tribunale che vincola il
destinatario a tenere un certo comportamento processuale e gestorio; tanto è vero che “nessuno dubita
che, concessa la cosiddetta autorizzazione e non utilizzata, il curatore vada revocato e cada in
responsabilità appunto per trasgressione di un provvedimento che lo vincolava ad un certo
comportamento”.
4
E’ vero che la legge parla di “autorizzazioni” ma questo termine “suggerisce la
necessità della partecipazione della volontà del soggetto cui il provvedimento è
indirizzato”
9
.
In particolare, in relazione alla natura dell’autorizzazione, si è osservato in
dottrina che essa sia creativa del potere del curatore di compiere atti di straordinaria
amministrazione; in altri termini, l’autorizzazione concessa dal giudice delegato si
configura come un presupposto di legittimazione ossia come un presupposto del potere
d’agire. La mancanza dello stesso, come accade in generale nei casi di difetto di
legittimazione, comporta l’inefficacia in senso stretto dell’atto
10
e non la sua
annullabilità, contrariamente a quanto sostenuto dall’opinione prevalente che perviene a
tale conclusione partendo dall’assunto che l’autorizzazione avrebbe funzioni integratrici
della capacità negoziale del curatore. Quanto detto porta dunque ad escludere che il
curatore sia del tutto privo di potere di decisione.
A sostegno di questa tesi interviene inoltre l’art. 31 che attribuisce non al giudice
delegato ma al curatore l’amministrazione del patrimonio fallimentare, (sia pure sotto la
direzione del giudice delegato), nonchè altre disposizioni (quale, ad esempio, l’art. 116
cod. civ.) nelle quali si parla di gestione del curatore. Non si deve dimenticare inoltre
che il curatore è legittimato a reclamare contro i provvedimenti del giudice delegato.
Sulla base delle ragioni sin qui esposte deve respingersi la tesi restrittiva
secondo cui il curatore sarebbe un mero esecutore di ordini altrui e che in quanto tale
non risponderebbe per aver tenuto comportamenti previsti da un provvedimento del
giudice delegato.
Se così fosse, non avrebbe senso chiedere un’autorizzazione per il compimento
di atti di particolare importanza che incidono sulla consistenza del patrimonio: ciò
significherebbe che il curatore, in qualità di esecutore privo di ogni potere di decisione,
dovrebbe richiedere l’autorizzazione al giudice delegato o, a seconda dei casi, al
tribunale “per fare ciò che il giudice delegato o il tribunale gli hanno detto di fare”
11
.
Ragionando in questi termini si arriverebbe all’errata conclusione che nessuno è
responsabile dell’amministrazione, dal momento che il giudice delegato potrà
respingere ogni pretesa di risarcimento, affermando che egli è tenuto a rispondere
soltanto nelle ipotesi di dolo, frode, concussione o di rifiuto ingiustificato di provvedere
(artt. 25 - 26, n. 9 e 12).
Le tesi restrittiva delle funzioni e delle responsabilità del curatore deve essere
quindi respinta “per l’erroneità della premessa che ne costituisce il fondamento”.
12
9
G. CASELLI, op. cit, p. 217; F. GALGANO, L’imprenditore: impresa, contratti d’impresa,
titoli di credito, fallimento, Bologna, 2001, p. 312, il quale afferma che “la funzione di direzione del
giudice delegato si esercita con la concessione o il diniego delle autorizzazioni prescritte o con
l’emanazione degli altri provvedimenti rimessi dalla legge alla competenza del giudice delegato, mentre è
escluso in generale il potere di ordinare al curatore il compimento o di prescrivere le modalità di
compimento delle operazioni fallimentari”; V. LO CASCIO, op. cit., p. 117.
10
P. PAJARDI, Il curatore, op. cit., p. 41, invece ritiene che l’atto compiuto in difetto
dell’autorizzazione sia nullo. A proposito, invece, del vizio dell’autorizzazione, G. CASELLI, op. cit.
p.197 e ss., condivide l’orientamento della Cassazione secondo cui “il vizio dell’autorizzazione non
comporta la nullità ma l’annullabilità stessa e di riflesso dell’atto autorizzato” ma a suo avviso “ciò non
significa, come ha sostenuto la Corte, che i creditori non hanno interesse a richiedere l’annullamento
dell’autorizzazione”. Ancora Caselli prosegue osservando che l’autorizzazione data in modo irregolare,
come ha posto in luce la Cassazione, è in grado di arrecare effettivamente pregiudizio alle ragioni dei
creditori ma non lede direttamente i loro diritti nei confronti del fallimento (…), lese sono le norme che
impongono l’obbligo dell’audizione del comitato dei creditori”.
11
G. CASELLI, op. cit., p. 217.
12
G. CASELLI, op. cit., p. 218.
5
Salvo che nelle specifiche ipotesi sopra riportate e nei casi previsti dall’art. 35 l.
fall. che richiedono l’intervento del tribunale, in generale il curatore non ha bisogno di
alcuna autorizzazione: valuta a propria discrezione l’opportunità, nell’interesse del
fallimento, degli atti da compiere e, sebbene essi debbano essere compiuti sotto la
direzione del giudice, posto che le direttive del giudice delegato non sono ordini, non è
da esse vincolato (tanto più che la loro esecuzione non lo esonererebbe dalla
responsabilità dell’atto compiuto, se dannoso per il patrimonio). In altri termini,
l’autonomia volitiva del curatore, anche nell’ambito degli atti di ordinaria
amministrazione, rimane condizionata dalle direttive del giudice delegato ma,
trattandosi di atti che rientrano pienamente nel potere del curatore, l’eventuale
divergenza con le direttive precedentemente impartite non può influire sulla validità od
efficacia di tali atti.
Allo stesso modo, non può influire sulla medesima validità ed efficacia
l’accoglimento da parte del giudice delegato del reclamo proposto dagli interessati
contro gli atti del curatore (art. 36 l. fall). In questa situazione al giudice delegato e al
tribunale per imporre il proprio punto di vista non resta che proporre, e rispettivamente
disporre, la revoca del curatore.
Precedentemente si è accennato al carattere pubblicistico della figura del
curatore: a tale organo concorsuale la legge affida la funzione di tutela e di
perseguimento degli interessi coinvolti elevandolo ad organo pubblico e consentendo il
suo perfetto inserimento nella procedura. Conseguenza logica di tale carattere
pubblicistico, è il riconoscimento al curatore della qualifica di pubblico ufficiale
previsto dall’art. 30 l. fall.
Si tratta di una veste che assume rilevanza sopratutto nella qualificazione dei
fatti penalmente rilevanti da lui commessi nei rapporti con i terzi (reati commessi da
pubblici ufficiali, o a danno di pubblici ufficiali) e nell’attività di attestazione, di
relazione su circostanze, di raccolta di dati e di informazione, e di giudizio che il
curatore svolge in favore del giudice delegato.
In relazione alla qualifica di ufficiale di polizia giudiziaria che rivestirebbe il
curatore vi sono opinioni contrastanti.
La maggior parte della dottrina e della giurisprudenza è concorde nel ritenere
che il curatore non sia agente di polizia giudiziaria. Tuttavia, alcuni autori,
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richiamando l’art. 33 l.fall. (che impone al curatore l’obbligo di presentare al giudice
delegato, entro un mese dalla dichiarazione di fallimento, “una relazione
particolareggiata sulle cause e circostanze del fallimento, sulla diligenza spiegata dal
fallito nell’esercizio dell’impresa, sul tenore della vita privata di lui e della famiglia,
sulla responsabilità del fallito o di altri e su quanto può interessare anche ai fini
dell’istruttoria penale”), ritengono che il curatore non solo abbia l’obbligo, quale
pubblico ufficiale, “di riferire sui reati dei quali venga a conoscenza nell’esercizio o a
causa delle proprie funzioni” ma, al pari degli ufficiali di polizia giudiziaria, debba
anche ricercare gli eventuali elementi di reato.
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R. PROVINCIALI, Istituzioni di diritto fallimentare, Padova, 1977, p. 702; G. DE SEMO,
Diritto fallimentare, Padova, 1968, p. 184. Contra F. SEMIANI BIGNARDI, Il curatore fallimentare, p.
132, secondo la quale “nessun argomento a favore della qualifica di ufficiale di polizia giudiziaria del
curatore, può trarsi dalle norme sulla relazione giacchè questa è ispirata a scopi diversi da quelli della
ricerca ed evidenziazione di reati”; V. BALBI, Il curatore fallimentare pubblico ufficiale: onere
d’informativa al giudice delegato, onere di denuncia al pubblico ministero e rispetto del diritto alla
difesa, in Giur. comm., 1998, I, p. 591.
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Coloro che si muovono in questa direzione rafforzano la propria tesi facendo
espresso riferimento alla relazione prevista dall’art. 33 l. fall. la quale presuppone lo
svolgimento di un’attività di ricerca e di indagine e che, anche per quanto “può
interessare ai fini dell’istruttoria penale”, comporta la necessità di effettuare quelle
ricerche il cui svolgimento conferisce la qualifica di ufficiale di polizia giudiziaria (art.
221 c.p.p.).
L’art. 33 l. fall., oltre alla relazione iniziale (che ha soprattutto lo scopo di
fornire al giudice delegato notizie e valutazioni su fatti e circostanze anteriori al
fallimento), prevede la presentazione, da parte del curatore, di relazioni mensili. Tali
relazioni, definite dalla norma “esposizioni sommarie”, hanno anch’esse scopo
informativo nei confronti del giudice delegato ma soprattutto relativamente a fatti
accaduti dopo la dichiarazione di fallimento e un particolar modo all’amministrazione
del curatore. Si esclude che le relazioni di cui si discute abbiano efficacia probatoria dal
momento che, tra gli atti provenienti dai pubblici ufficiali, fanno prova fino a querela
del falso solo quelli che siano stati redatti al fine specifico di documentazione o
attestazione (art. 476 cod. pen. e 2700 cod. civ.). Le relazioni in questione, invece hanno
lo scopo di fornire elementi di conoscenza e di valutazione al giudice delegato, elementi
che sono strumentali all’esercizio del potere di direzione e di vigilanza che fa capo a
tale organo.
Descritte le funzioni che fanno capo al curatore, l’art. 38 l. fall. stabilisce che
egli “deve adempiere con diligenza
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i doveri del proprio ufficio”, osservando
l’articolata serie di tutele specificate dalla legge fallimentare.
In particolare deve tenere un registro, preventivamente vidimato dal giudice
delegato, in cui devono essere annotate giorno per giorno le operazioni relative alla sua
amministrazione (art. 38, 1° comma); deve depositare entro cinque giorni in un conto
intestato all’ufficio fallimentare, aperto presso l’ufficio postale o presso un istituto di
credito indicato dal giudice delegato, le somme riscosse a qualsiasi titolo, dedotto
quanto lo stesso giudice delegato ritiene necessario per le spese di giustizia e di
amministrazione; nei primi cinque giorni di ogni mese deve presentare al giudice
delegato un’esposizione sommaria della sua amministrazione ed esibire, su richiesta,
documenti giustificativi (art. 33, 4° comma l. fall.); compiuta la liquidazione dell’attivo
e prima del riparto finale deve presentare al giudice delegato il conto della sua gestione
(art. 116 l.fall.).
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Si ritiene che la diligenza richiesta dal curatore per l’adempimento dei doveri del proprio
ufficio sia quella del buon padre di famiglia prevista dal mandatario all’art. 1710 cod. civ.; P. PAJARDI,
Il curatore, op. cit., p. 68 ss, precisa che “con specifico riferimento alla curatela essa si concretizzerà nel
conformarsi alle direttive del giudice delegato, sia a quelle generali, riferite al fallimento nel suo
complesso, sia a quelle particolari riferite ai singoli atti, ma soprattutto nel porre in essere la delicatissima
attività di indagare, di accertamento, valutazione, relazione, controllo, ecc…, i cui risultati, riferiti al
giudice delegato, metteranno detto organo nelle condizioni di dirigere con profitto la procedura”; G.
CASELLI, op. cit., p. 220, quanto al grado di diligenza precisa che si tratta di “diligenza media da
valutarsi in relazione alla natura professionale dell’attività esercitata dal curatore. Di conseguenza, nello
svolgimento della sua attività, egli risponderà per colpa lieve, oltre che naturalmente per dolo e colpa
grave. E secondo questo criterio egli sarà tenuto non soltanto per l’attività propriamente di gestione del
patrimonio fallimentare, ma anche per l’assolvimento degli altri doveri d’ufficio, sempre che,
ovviamente, alla violazione di essi possa essere derivato un danno patrimonialmente risarcibile”; G. F.
CAMPOBASSO, Diritto commerciale 3, Torino, 2001, p. 344, il quale afferma che “il curatore è tenuto
al risarcimento dei danni causati dalla sua gestione, anche se si tratta di atti compiuti previa
autorizzazione del giudice delegato o del tribunale. Egli gode, infatti, di autonomo potere decisionale e
deve astenersi dal compiere atti, pur autorizzati, che lo espongono a responsabilità nei confronti del fallito
e direttamente nei confronti dei singoli creditori”. Sulla natura contrattuale e/o extracontrattuale della
responsabilità del curatore per violazione dei doveri d’ufficio si veda G. CASELLI, op. cit., p. 223 e ss.
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Come si vede, numerosi sono i compiti specifici assegnati al curatore, ma la
funzione centrale rimane comunque quella di conservare, gestire e realizzare il
patrimonio fallimentare secondo le direttive del giudice delegato.
Contro il curatore che sia stato negligente nell’amministrazione del patrimonio
fallimentare e che, a causa di questo suo comportamento negligente abbia recato danno,
l’art. 39 l. fall. prevede la possibilità di esperire un’“azione di responsabilità”.
Legittimato attivo è il nuovo curatore che sia subentrato a quello in carica una volta
cessato dall’esercizio delle sue funzioni. Al termine della procedura, l’azione di
responsabilità può essere esercitata anche dal fallito e dai creditori, in quanto titolari
degli interessi la cui tutela costituisce obiettivo primario della funzione attribuita al
curatore.