3
Confrontando le due definizioni ci si rende conto di come
la nozione di milieu dipenda da una concezione estesa del
territorio, ma come il milieu dipenda da un termine, locale,
che circoscrive ed identifica una particolare area
geografica e l’uso delle risorse in essa contenute da parte
di soggetti posti in relazione fra loro e con le risorse
stesse. Magnaghi definisce patrimonio territoriale come il
prodotto del processo storico di territorializzazione: esso si
configura come un giacimento di lunga durata che precisa
la propria identità e i propri caratteri nel modo in cui si
integrano le sue componenti ambientali (neo ecosistemi
prodotti dalle successive civilizzazioni), con le componenti
edificate (monumenti, […], invarianti strutturali) e con le
componenti antropiche (modelli socioculturali e identitari
[…]. Le modalità di integrazione di queste componenti
esprimono il valore relazionale del patrimonio e il suo
potenziale di produzione di ricchezza durevole.
3
L’accento si sposta sulla complessità e sull’integrazione
delle varie componenti che hanno la possibilità di produrre
ricchezza durevole. Esiste quindi un giacimento di risorse
depositatosi nei luoghi in modi e tempi diversi a seconda
dell’integrazione delle componenti nei vari cicli di
civilizzazione, ma necessita di essere riconosciuto,
necessita di una rete locale capace di valorizzarlo.
Più precisamente, secondo Francesca Governa, utilizzando
il concetto di milieu, rappresentiamo il substrato locale del
processo di sviluppo (in termini di potenzialità) che
necessita per definirsi come tale e per fornire le risorse
necessarie all’evoluzione del sistema nel suo complesso
(per attualizzare le potenzialità offerte), dell’intervento di
intermediazione attiva svolto dall’insieme dei soggetti
interagenti all’interno della rete locale.
4
Si solleva con
questa definizione la problematica della rete locale e più in
generale quella dell’analisi di rete, ci avviciniamo ad una
definizione operativa del concetto di milieu, ma
necessitiamo di capire chi sono gli attori e quali saranno le
regole che governeranno le interazioni fra i vari attori e fra
gli attori e le componenti del milieu. La rete locale può
essere definita come insieme di relazioni tra diversi
soggetti […] autocontenute in un sistema territoriale
locale.
5
La formazione della rete, l’instaurarsi dei contatti,
può essere generata proprio dalle relazioni dei soggetti col
proprio territorio, ma più in generale possiamo far
dipendere il senso di appartenenza alla rete da parte di un
soggetto (singolo o plurimo, privato o statale) sia a
componenti oggettive (convenienza, interesse) sia a
ragioni soggettive (amicizia, parentela). Quelli che
comunque interessano ai fini dell’argomento trattato sono
i rapporti, competitivi o cooperativi tra gli attori per l’uso
delle componenti del milieu. Le relazioni fra la rete ed il
territorio ed i soggetti appartenenti alla rete non devono
essere pensate come definite e immutabili, ma possono
essere soggette a cambiamenti, trasformazioni, ed è
proprio questa flessibilità dei ruoli, comunque radicati ad
una specifica realtà, che genera competitività.
3
A.Magnaghi, Op.cit.,
p.82.
4
F.Governa, Il milieu
urbano Identità
territoriale nei processi
di sviluppo, Franco
Angeli, Milano, 1997,
p.37.
5
G.De Matteis, Sistemi
territoriali locali come
nodi di reti, in
Insegnamento, ricerca e
pratica in urbanistica, a
cura di: A.Peano,
Cortina, Torino, 1993,
p.62.
6
F.Governa, Op.cit.,
p.61.
Andiamo ora a definire il sistema locale territoriale che si
inserisce nella logica dei sistemi ad un livello intermedio
tra il sistema globale ed il singolo soggetto, si tratta di un
aggregato a base territoriale di soggetti sociali, economici,
politici che, in certe occasioni si comporta come un
soggetto collettivo.
6
Si possono pensare come nodi di
sistemi a rete globali, scomponibili a loro volta in reti locali
collegate ad uno specifico milieu; come aggregato di
soggetti più o meno consapevoli della propria identità
territoriale, sistemi autonomi o parzialmente autonomi
capaci di interagire con l’esterno secondo regole proprie
3
4
volte a preservarne l’identità, ma allo stesso tempo a
consentirne la trasformazione.
Un particolare tipo di sistemi risulta di grande interesse
nello studio dei sistemi locali territoriali, almeno dal punto
di vista teorico, si tratta dei sistemi autopoietici che sono
caratterizzati dall’identità tra il sistema e il prodotto del
sistema, tra produttore e prodotto. In questo tipo di
sistemi le influenze esterne sono interpretabili come
perturbazioni in grado di innescare un cambiamento del
sistema, senza tuttavia essere in grado di direzionarlo. Il
sistema non è controllato dall’influenza esterna, ma
conserva una propria autonomia, mantiene, pur
trasformandosi, la sua identità. Questi sistemi sono
identificati da una coppia concettuale: organizzazione e
struttura. Con organizzazione si intendono le relazioni
esistenti fra le componenti di un sistema che non devono
mutare affinché si mantenga l’identità dello stesso; con
struttura quel particolare insieme di componenti e di
relazioni attuali e concrete tramite le quali l’organizzazione
del sistema si manifesta in un ambiente particolare in
quanto particolare entità spazio-temporale
.
.
7
Quello che varia, è quindi l’organizzazione dei sistemi
locali, attraverso dinamiche auto-organizzative volte ad
attribuire nuovi valori e nuovi significati alle componenti
del milieu come risposte a stimoli perturbatori provenienti
dal sistema globale o da altri sistemi locali. Il ruolo del
milieu diviene quindi duplice, da un lato permette il
formarsi dell’identità territoriale, dall’altro rappresenta la
matrice del cambiamento.
Rimane da considerare l’identità degli attori coinvolti in
questo tipo di processi di riconoscimento territoriale e di
milieu prima, e di cambiamento e trasformazione poi. Un
ruolo di primo piano spetta sicuramente ai vari livelli di
governo amministrativo del territorio che devono
dimostrarsi pronti all’apertura e al dialogo con i nuovi
attori privati che potrebbero nascere all’interno della realtà
locale, ma anche pronti a lavorare integrando
verticalmente le varie iniziative volte alla trasformazione di
particolari contesti locali. Sempre sul piano politico enorme
importanza gioca la capacità di autogoverno delle reti
locali, all’interno delle quali è indispensabile la presenza
dei rappresentanti amministrativi, così come è auspicabile
quella delle frange più deboli della società in un’ottica
partecipativa che non corrisponda esclusivamente alla
facciata esterna, ma che entri a far parte integrante del
processo stesso di cambiamento. Altro ruolo quello dei
legislatori che non possono permettersi di bloccare in una
gabbia burocratica le reazioni agli stimoli esterni dei
sistemi locali, ma che devono predisporre procedure
flessibili. Ruolo fondamentale è rappresentato dalle
agenzie predisposte appositamente per la gestione della
trasformazione, a carattere misto pubblico privato, se ben
organizzate rappresentano il motore stesso della sfida
proposta dallo stimolo esterno. Un ruolo non marginale
spetta alle associazioni del terzo settore, che proprio per il
loro fine non lucrativo, allontanano possibili speculazioni
volte a massimizzare il solo lato economico.
La trattazione è stata fin qui svolta su piano puramente
teorico, il fine è quello di formare una base per andare ad
analizzare alcune dinamiche di trasformazione territoriale
che si prestano in modo particolarmente significativo sia
ad una più ampia riflessione sui concetti di sviluppo e
sostenibilità, sia ad approccio analitico alla cui base siano
posti concetti come territorio, sistema, rete locale e milieu.
7
M.Ceruti, Per una storia
naturale della
conoscenza, in: L’albero
della conoscenza, a cura
di: H.Maturana, F.Varela,
Garzanti, Milano, 1987,
p.17
4
5
I concetti di sviluppo e sostenibilità
Il termine sviluppo sostenibile è ormai entrato a far parte
del vocabolario corrente di politici, urbanisti, ecologisti,
economisti, sociologi e di tutti quei professionisti che
hanno a che fare con l’ambiente ed il territorio. Anche
l’immaginario collettivo risulta fortemente colonizzato da
questa terminologia che risuona spesso come un
toccasana per tutti i mali contemporanei, la panacea nella
quale affogare i vari problemi, in primis quello
dell’inquinamento. D’altro canto la problematica sul
significato dei termini sostenibilità e sviluppo, correlati con
il territorio, e sul significato della loro combinazione,
sviluppo sostenibile, è sicuramente lungi dall’essere
esaurita e difficilmente indagabile in termini puramente
teorici. Risultano comunque numerosi i contributi che gli
studiosi di discipline afferenti allo studio del territorio
hanno prodotto in tempi diversi ed in diverse circostanze a
riguardo. Alcuni autori hanno indagato separatamente i
due termini, interrogandosi sulla nascita e sulle
metamorfosi dei concetti che si sono succedute nel
tempo, altri hanno cercato di spiegare i limiti dello
sviluppo sostenibile o di approcci troppo ristretti a tale
problematica. Cercherò in paragrafo di fare una sintesi dei
risultati a cui sono pervenuti.
Sviluppo
Dobbiamo intraprendere un programma nuovo e audace
per rendere disponibili i benefici delle nostre conquiste
scientifiche e del nostro progresso industriale per
l’avanzamento e la crescita delle aree sottosviluppate […]
Il vecchio imperialismo, lo sfruttamento per il profitto
straniero, non trova posto nei nostri piani. Ciò che noi
immaginiamo è un programma di sviluppo basato sui
concetti di un leale rapporto democratico.
1
Probabilmente il concetto di sviluppo, per quanto riguarda
altre discipline, precede questa dichiarazione del
presidente americano Truman del 1949, ma risulta
fondamentale secondo alcuni studiosi di economia e
scienze sociali (Latouche 1998), per individuare un punto
di partenza.
Truman afferma l’esistenza di aree sottosviluppate e si
propone una politica di sviluppo per tali aree basata sul
rendere disponibili conquiste scientifiche e progresso
industriale alle popolazioni di tali paesi, in tal modo si
pensa di migliorare il loro standard di vita.
2
Questa definizione nasce in un periodo di crescita
economica notevole, il secondo dopoguerra, un periodo
nel quale si pensava che la povertà potesse veramente
scomparire insieme con le disparità giudicate non
democratiche. Nasce il mito dello sviluppo, un prodotto
esclusivamente occidentale estendibile a tutto il Pianeta.
Le differenze vengono ad essere considerate come
semplici ritardi, e l’eliminazione di tali ritardi viene
demandata alla pianificazione. Ma su cosa si è basata
questa pianificazione? Qual è stato l’obbiettivo principe da
perseguire? Sicuramente quello del miglioramento dello
standard di vita; ma cosa si è inteso e cosa si intende oggi
con questo indicatore? La necessità primaria è stata la sua
quantificazione, la sua misurabilità ed è stato espresso in
differenti occasioni in base a parametri diversi:
1
H.S.Truman, Inaugural
Address, 20.01.1949, in:
Documents on American
Foreign Relations,
Princeton University Press,
Connetticut 1967.
2
S.Latouche, Standard di
vita, in: Dizionario dello
sviluppo, EGA, Torino
1998, p.307.
è stato inteso come reddito minimo irriducibile, come
plane of living, come normali condizioni di vita, ma si è
ben presto tradotto in PNL pro capite. Si tratta di una
quantità misurabile in termini economici, ma che comporta
sicuramente una lettura parziale della situazione
5
6
economico, sociale, politica di una realtà. Tale parzialità è
ben espressa dal seguente paradosso:
Il lavoratore disoccupato degli slums di Caracas scopre
con piacere di godere di uno standard di vita, definito in
termini di prodotto interni lordo, degno di invidia. Di certo
non meno stupefatto, il pescatore delle Samoa che se la
passa abbastanza bene in una relativa autosufficienza,
apprende che in termini di prodotto nazionale lordo, è uno
degli abitanti più poveri del pianeta.
3
Sono stati fatti numerosi tentativi per inserire altri
parametri nella definizione di standard di vita, uno fra
tutto quello esplicitato in un rapporto del 1954 delle
Nazioni Unite
4
in cui venivano proposte dodici possibili
componenti tra le quali l’educazione, l’alimentazione,
l’alfabetizzazione… Sempre a tale scopo ogni anno, dal
1990, il programma di sviluppo delle Nazioni Unite
pubblica materiali di documentazione statistica relativi alla
ridefinizione del concetto di sviluppo. I paesi vengono
classificati in base ad una graduatoria che prevede il livello
di sviluppo come il risultato della media matematica fra tre
fattori: ricchezza (potere di acquisto pro capite), salute
(speranza di vita alla nascita), istruzione (livelli di
alfabetizzazione). Nonostante una serie di autorevoli
tentativi permane la misurazione dello standard di vita
misurata attraverso il volume di beni e di servizi
consumato dagli abitanti.
3
J.Chesnaux, La Modernité
monde, La decouverte,
Paris 1989, p.64.
4
United Nations, Report on
International Definition and
Measurment of Standards
and Levels of Living, doc.
E.CN 5/299, 1954
5
W.Sachs, Introduzione,
in: Dizionario dello
sviluppo, EGA, Torino
1998, p.5 e seg.
6
W.Sachs, op. cit., p.7.
Attualmente un’ondata di critiche, più o meno radicali, si
è riversata sul concetto di sviluppo basato su indicatori
come quello dello standard di vita, e più in generale il
concetto pervasivo di sviluppo che investe tutti i livelli a
partire dai movimenti di base fino ad arrivare alle più alte
sfere politiche.
Una delle critiche più radicali è espressa da Wolfgang
Sachs nell’introduzione ad una recente opera collettiva da
lui curata
5
. Sachs dichiara il concetto di sviluppo una
struttura mentale della quale si può tratteggiare la nascita,
che coincide col discorso di Truman già citato,
l’evoluzione, a partire da quattro premesse che
attualmente risultano decisamente fuori dalla storia, e la
conseguente morte. La prima di questa premesse riguarda
la crisi ecologica, che toglie ai paesi industrializzati, primo
fra tutti gli Stati Uniti, il ruolo di modello da imitare, consci
che il modello non può in assoluto essere esportato in ogni
parte del mondo pena l’accelerazione della già veloce
corsa verso il baratro a cui il pianeta sembra destinato a
causa dell’esaurimento delle risorse naturali. Citando
Sachs: Se tutti i paesi seguissero “con successo” l’esempio
di quelli industrializzati, occorrerebbero altri cinque o sei
pianeti da usare come miniere o come discariche di rifiuti
6
La seconda premessa venuta meno riguarda il progressivo
mutamento della situazione politica internazionale negli
ultimi venti anni, con la scomparsa della divisione Est-
Ovest che possiamo considerare il propellente politico
della concezione dello sviluppo. La situazione attuale ha
spostato l’accento sulla prevenzione dei rischi,
immigrazione, inquinamento, disastri ambientali, e il
concetto di sviluppo ci appare da questo punto di vista più
una causa scatenante problematiche che un rimedio.
Il terzo punto di critica investe uno degli obbiettivi proposti
in fase iniziale col concetto di sviluppo, quello del
progressivo avvicinamento dei paesi del cosiddetto terzo
mondo alle condizioni dei paesi cosiddetti sviluppati. La
maggior parte dei paesi del Sud ha avviato negli ultimi
sessanta anni processi di sviluppo che hanno sicuramente
ottenuto buoni risultati, ma il Nord ha, per così dire, spinto
6
7
sull’acceleratore, impedendo di fatto ogni progressivo
riavvicinamento e, al contrario, continuando ad allargare la
cosiddetta forbice tra ricchi e poveri.
Quest’ultimi esuli in casa propria, costretti a tirare avanti
nella terra di nessuno tra modernità e tradizione.
7
L’ultima critica riguarda l’appiattimento generale che si
produrrebbe se l’impresa sviluppo avesse successo.
Immaginare tutti i popoli del pianeta in corsa dietro alle
Nazioni sviluppate che corrono avanti comporta una
progressiva perdita delle identità locali, delle alternative,
dei differenti stili di vita che finirebbero per essere messi
in graduatoria con i primi posti detenuti saldamente da
quelle civiltà i cui Prodotti Nazionali superano gli altri.
Il risultato? Una spaventosa perdita di diversità. Balza
subito agli occhi la semplificazione dell’architettura,
dell’abbigliamento, e degli oggetti quotidiani avvenuta a
livello planetario; l’eclissi delle diverse lingue, delle diverse
usanze e gesti è già visibile, mentre la standardizzazione
dei desideri avviene nel profondo del subconscio delle
società.
8
7
W.Sachs, op. cit., p.9.
8
W.Sachs, op. cit., p.10.
9
A.Tarozzi,
Autosostenibilità: una
parola chiave e i suoi
antefatti, in: Il territorio
degli Abitanti, a cura di:
A.Magnaghi, Dunod, Milano
1998, p.21-39.
10
V.Shiva, Risorse, in:
Dizionario dello sviluppo,
EGA, Torino 1998.
11
Dag Hammarskjoeld
Foundation, What now?
AnotherDevelopment, in:
Verso uno sviluppo diverso,
a cura di: A.Tarozzi, EGA,
Torino 1990, p.43-60.
Sostenibilità
Per il significato del termine sostenibilità è possibile
tracciare, così com’è stato fatto per il termine sviluppo,
una cronistoria per la quale risulta di particolare
importanza il contributo di A. Tarozzi del 1998
9
. La data
d’inizio del dibattito pubblico sul tema della sostenibilità va
fatta risalire secondo Tarozzi al 1972, anno in cui si svolge
la Conferenza di Stoccolma e viene pubblicato il Rapporto
del club di Roma. I temi della confernza organizzata dalle
Nazioni Unite e del Rapporto, contenuto nel volume Limits
to Growth curato da D.H. Meadows, sono correlati; nella
prima veniva valutata la compatibilità tra la sopravvivenza
del pianeta e lo sviluppo di un ambiente per la famiglia, il
secondo denunciava il prossimo esaurimento delle risorse
e materie prime non rinnovabili indispensabili al
perpetuarsi del modello di sviluppo dei Paesi
industrializzati occidentali. Le risorse sono anche il punto
di partenza per un saggio della scienziata indiana
Vandaana Shiva del 1998
10
, nel quale l’autrice si interroga
sul mutamento di significato che le stesse hanno avuto a
seguito dell’avvento della società industriale e delle
politiche coloniali. Viene messo in luce il cambiamento
profondo del rapporto uomo-natura nel passaggio tra
società preindustriale e industriale; nel primo natura e
società si trovano in un rapporto co evolutivo, la natura
distribuisce le risorse come doni ed è compito degli esseri
umani mostrarsi attenti e diligenti per non soffocare la sua
generosità; nel secondo caso le risorse naturali diventano
materiali esistenti in natura che possono essere soggetto
di sfruttamento economico.
Il rapporto del club di Roma individua i dei limiti per lo
sviluppo, pone all’attenzione dell’opinione pubblica il
problema, si denuncia l’insostenibilità dello sviluppo, ma
non vengono proposte soluzioni. E’ comunque il 1975 che
può essere considerato l’anno zero per quanto riguarda le
problematiche relative ad uno sviluppo alternativo, definito
all’epoca Ecosviluppo, ed è ancora una volta un rapporto
11
a sollevare la discussione. Vengono individuati tre ordini di
requisiti per uno sviluppo diverso:
Basic Needs. Soddisfacimento dei bisogni fondamentali.
Self-Reliance. Sviluppo Endogeno, fare affidamento sulle
risorse appartenenti al sistema per le prospettive di
sviluppo del sistema stesso.
Ecodevelopment. Crescita in armonia con l’ambiente e
solidarietà diacronica con le future generazioni.
7
8
La contemporanea presenza di questi tre requisiti
garantiscono, secondo gli autori del rapporto, azioni volte
ad uno sviluppo diverso, sostenibile, si avverte quindi una
prima spinta propositivamente molto ampia e di notevole
pervasività. Nella realtà questa spinta trova, negli anni a
seguire fino ad oggi, un bisogno di concretezza , la
necessità di misurare gli esiti dei processi di sviluppo, la
necessità di semplificare la realtà al fine di poter
controllare i processi di trasformazione. Se da una lato
risulta crescente l’attenzione verso la dimensione
antropologica di tali processi dall’altro si assiste ad un
progressivo spostarsi dell’attenzione dalle scienze sociali a
quelle fisiche che garantiscono una più immediata lettura
dei risultati.
Riprendendo l’analisi delle voci che nel tempo hanno
contribuito al modificarsi del concetto di sostenibilità , vale
la pena di citare il Rapporto Bruntland del 1987 della
World Commission on Environnment and Development, nel
quale la sostenibilità viene assimilata alla capacità di
soddisfare i bisogni e le aspirazioni del presente, senza
compromettere la capacità di soddisfare quelli del futuro.
I progetti di sviluppo, più o meno sostenibili, sempre più
spesso si presentano come azioni Top-Down (elaborazioni
di esperti non appartenenti al sistema in trasformazione),
per i quali è necessaria l’approvazione da parte della
popolazione ottenibile attraverso la partecipazione al
progetto di esperti di comunicazione, e che devono essere
valutati ex ante e post in base a parametri sempre più
spesso standardizzati. Questo tipo di approccio che fa
della Valutazione lo strumento principe, affidandosi ad
esperti più o meno coinvolti nel processo di
trasformazione, ha senza dubbio il limite di dimenticare
uno dei tre requisiti introdotti dal rapporto del 1975,
ovvero quello della self-reliance. Come già affermato
senza uno dei tre requisiti non ci può essere un processo
di sviluppo veramente sostenibile; l’assunzione della self-
reliance, dell’endogenità dello sviluppo, della
autosostenibilità, della conoscenza e del corretto uso del
milieu, sono la base teorica di alcune ricerche condotte nel
campo della pianificazione territoriale in particolar modo
nelle Università di Firenze e di Torino, che rivestono in
questo contesto un’importanza rilevante.
Significativa, nello studio dell’evoluzione del significato di
sostenibilità, risulta la divisione che Magnaghi propone per
meglio spiegare i differenti approcci contemporanei al
termine sostenibilità (A.Magnaghi 2000).
Il primo approccio, definito funzionalista o
dell’ecocompatibilità, assume il territorio come un
supporto tecnico-funzionale della produzione, del quale
occorre considerare i limiti di sopportazione nel suo uso
12
.
Il concetto di sostenibilità diventa quindi strettamente
relazionato con la capacità di carico del sistema
ambientale, con i limiti misurabili del territorio, e l’azione
contenitiva spetta alle amministrazioni nella logica “chi
inquina paga”; in questa logica i valori ambientali sono
considerati esclusivamente delle esternalità rispetti ai
processi produttivi.
Il secondo approccio, definito ambientalista o biocentrico,
è ben definito da questa affermazione: “Se non salviamo
l’ambiente non ci può essere sviluppo”; la sostenibilità
diventa la condizione strutturale dello sviluppo economico.
L’ambiente da vincolo diventa opportunità, risorsa.
13
Questo tipo di approccio porta sicuramente a politiche più
rigide e radicali rispetto a quelle derivanti dall’approccio
funzionalista, politiche che rischiano però di non produrre
una critica radicale alle cause del degrado ambientale, e di
12
A.Magnaghi, Il
progetto locale, Bollati
Borlinghieri, Milano
2000, p.51.
13
°.Magnaghi, Op.cit.
p.56.
8
9
ricadere in azioni collaterali e correttive rispetto alle leggi
di sviluppo date.
14
Il terzo approccio costituisce la teoria che Magnaghi
formula a partire da una concezione territoriale che cerca
di comprendere anche le relazioni esistenti fra uomo e
territorio, un approccio che lo stesso autore definisce
territorialista o antropobiocentrico, che può essere in parte
definito dalle parole di Magnaghi:
Il concetto di sostenibilità non si risolve nella
ottimizzazione della qualità ambientale a qualunque
condizione, ma nella ricerca di relazioni virtuose fra
sostenibilità ambientale, sociale, territoriale, economica,
politica che renda coerenti basic needs, self-reliance,
ecosviluppo.
15
14
A.Magnaghi, Il
progetto locale, Bollati
Borlinghieri, Milano 2000
p.57.
15
A.Magnaghi, op.cit.
p.61.
9
Capitolo 1
L’esperienza del workshop internazionale
10
Il lavoro presentato in questo volume rappresenta la
conclusione di un’esperienza di studio cominciata
all’interno del laboratorio di sintesi finale dell’anno
accademico 2002/2003 che ha previsto la partecipazione
ad un workshop internazionale di studi, tenutosi a
Budapest tra Settembre 2002 e Marzo 2003.
Al workshop hanno partecipato docenti e studenti
provenienti da tre Università europee in rappresentanza di
altrettanti Stati:
• Ungheria Università di Scienze Tecnologiche ed
Economiche di Budapest, Facoltà di of Architettura
• Finlandia Università di Oulu, Dipartimento di
ArchitetturaItalia Università di Firenze, Facoltà di
Architettura, Dipartimento di tecnologia
dell’Architettura e Design “Pierluigi Spadolini”
Il workshop ha dato la possibilità a docenti e studenti di
confrontare le proprie idee e le rispettive esperienze
formative in un contesto progettuale reale e di notevole
complessità affrontando principalmente la problematica
della riqualificazione delle aree urbane centrali.
L’area scelta per il workshop, coincidente con quella
oggetto del presente lavoro, verrà presentata
dettagliatamente nei seguenti capitoli, per adesso basti
sapere che si tratta di un’area situata nelle immediate
vicinanze del centro storico della città, caratterizzata da
evidenti problematiche di tipo sociale, economico e di
deterioramento del patrimonio abitativo per la quale è
attualmente previsto un intervento di riqualificazione di
vaste proporzioni Scopo del workshop è stato quello di
sollecitare la collaborazione degli studenti nella ricerca di
possibili alternative progettuali, analizzando le varie
tematiche connesse con la riabilitazione delle aree urbane
centrali. Il campo di indagine di grande raggio e la
possibilità di formare gruppi di lavoro composti da studenti
delle tre nazionalità, hanno facilitato il confronto diretto
tra gli studenti, è stato possibile comparare e fare
emergere i differenti approcci al problema evidenziando i
differenti background culturali di ognuno.
Le fasi del lavoro
Il lavoro svolto durante il workshop può essere suddiviso
in cinque fasi principali, delle quali la redazione finale di
questo elaborato rappresenta la conclusione, la sintesi,
delle precedenti:
Fase 1. Settembre 2002. Budapest.
Si è trattato della prima fase conoscitiva ed analitica nella
quale l’area di intervento, le problematiche e alcuni esempi
di progetti attuati in contesti simili sono stati presentati da
addetti ai lavori e dai docenti delle facoltà coinvolte nel
workshop. Gli studenti hanno avuto la possibilità di entrare
in contatto diretto con la realtà locale attraverso
sopralluoghi e colloqui con cittadini e responsabili del
processo di riqualificazione attualmente in atto. Questa
fase ha previsto inoltre un’operazione di rilievo fotografico
e geometrico delle facciate degli edifici, nonché un’analisi
dei principali elementi urbanistici del quartiere. (proprietà,
funzioni, stato di conservazione degli edifici…). La
collaborazione tra gli studenti ha portato ad una prima
presentazione delle proposte progettuali di gruppo.
Fig.1 Un gruppo di lavoro internazionale
2
11
Fase 2. Settembre 2002 – Febbraio 2003.
Rispettive sedi.
Durante questo periodo gli studenti hanno completato il
quadro delle analisi svolte a Budapest attraverso la
redazione di mappe e la realizzazione di un modello
tridimensionale del quartiere mappato attraverso il
raddrizzamento delle immagini scattate a Budapest. Le
prime ipotesi progettuali presentate a Budapest sono state
ridiscusse per via telematica tra gli studenti dei rispettivi
gruppi.
Fig.2 Immagine del modello tridimensionale
Fase 3. Febbraio 2003. Budapest.
Si è trattato della fase conclusiva del lavoro collettivo che
ha previsto la redazione di un progetto durante il periodo
di permanenza nella città di Budapest. In questa fase gli
studenti hanno inoltre cominciato a raccogliere il materiale
analitico necessario alla redazione del proprio progetto
personale finale (tesi di laurea o lavori di fine corso). La
fase si è conclusa con la presentazione dei lavori da parte
dei gruppi di studenti.
Fig.3 Interviste realizzate per la redazione dei lavori personali
Fase 4. Febbraio - Agosto 2003.
Rispettive sedi e Oulu Finlandia.
In questa fase sono stati completati i lavori di gruppo e
redatte le tavole definitive per la pubblicazione¹ e la
mostra finali. La mostra degli elaborati si è tenuta ad Oulu,
Finlandia, sede del workshop internazionale di studi per
l’anno 2003-2004. Oltre ai lavori di gruppo in questa sede
sono stati presentati i lavori dei singoli studenti sviluppati
nelle rispettive sedi nell’ambito dei laboratori finali, per gli
studenti italiani si è trattato di un’anticipazione dei lavori di
tesi da sviluppare(vedi tavole 1-2-3-4)
¹ Brand Shira, Mäntysalo
Raine, Halmos Bálazs
Rehabilitation of
Central Urban Areas: The
Corvin-Szigony Project
Diploma Workshop in
Budapest - 2002/03
Ed. Aida, Firenze 2003
Fase 5. Agosto 2003 Luglio 2004.
Si tratta della fase finale del lavoro che nel mio caso ha
previsto: l’ampliamento delle analisi conoscitive relative
all’area di studio, la ricerca sulle tematiche relative ai
progetti pilota urbani ed alle altre iniziative di riabilitazione
urbana finanziate dalla Comunità Europea, la
progettazione di un possibile piano d’azione per l’area
Corvin Szigony e la successiva elaborazione del presente
testo.
11
12
Sintesi del lavoro svolto
L’impostazione didattica del workshop ha consentito ad
ogni studente di affrontare la problematica della
riabilitazione delle aree urbane centrali sotto vari punti di
vista; ognuno ha avuto la possibilità di approfondire
l’argomento o gli argomenti ritenuti di maggior interesse.
Questo è stato possibile grazie appunto all’impostazione
didattica che, ad una prima fase di lavoro di gruppo su
temi generali ed urbanistici, ha fatto seguire una fase
personale di approfondimento su temi comunque legati
all’area di studio, ma di differente natura e scala di
intervento; dall’arredo urbano al restauro , dalla
progettazione architettonica a quella urbana. (vedere a
proposito la tavola 4 del presente capitolo).
Per quanto mi riguarda il mio lavoro personale è stato da
subito indirizzato verso un approccio alla problematica di
tipo generale, preferendo continuare quanto iniziato a
Budapest con il lavoro di gruppo. In realtà le tematiche
generali relative alla riqualificazione urbana, ma
soprattutto allo sviluppo locale, al territorio, all’approccio
partecipativo nella gestione del cambiamento urbano
erano già argomenti affrontati durante fasi precedenti di
studio che avevano suscitato il mio interesse. Grazie ai
docenti dei corsi di sociologia urbana, geografia e analisi
dei sistemi urbani e territoriali è stato possibile ampliare la
conoscenza di questi argomenti aggiungendo ad essi lo
studio delle iniziative comunitarie finanziate attraverso il
fondo europeo di sviluppo regionale e relative alla città,
ovvero l’iniziativa comunitaria Urban ed i progetti pilota
urbani. Proprio di questi ultimi è stato possibile
approfondire la conoscenza diretta grazie
all’organizzazione di un incontro di studio all’interno del
laboratorio di sintesi finale, preventivamente alla partenza
per la prima fase del workshop, a Torino. Durante la visita
è stato possibile entrare in contatto con la realtà
progettuale sviluppata nell’ambito del Progetto The Gate,
un progetto pilota urbano per l’area di Porta Palazzo a
Torino, una realtà che presenta tuttora alcune
caratteristiche simili all’area Corvin Szigony.
Il progetto The Gate ha rappresentato la traduzione in
azioni reali dei concetti esposti in precedenza, soprattutto
per quanto riguarda la partecipazione attiva dei cittadini ai
processi decisionali in ambito urbano, ma anche sotto il
profilo della sostenibilità, soprattutto ambientale.
Dopo la prima fase di analisi a Budapest mi è subito
risultata evidente la possibilità di intervenire nell’area
utilizzando una metodologia simile a quella utilizzata a
Torino; l’approfondimento della conoscenza di questo tipo
di processi è stata possibile grazie alla partecipazione al
workshop, in qualità di docente, di uno dei responsabili del
progetto, il Prof Roberto Pagani, diventato il punto di
riferimento per il mio lavoro e successivamente correlatore
di questa tesi di laurea.
L’analisi del progetto di Torino e il successivo
approfondimento di altri progetti pilota urbani sviluppati in
tutta la Comunità Europea, mi ha consentito di apprendere
i particolari delle strategie messe in atto in questo tipo di
progetti di riqualificazione urbana e le tipologie di analisi
ed i procedimenti necessari per lo start up.
Alla luce di quanto appreso ho continuato il processo di
indagine dell’area Corvin Szigony, finalizzando poi il mio
lavoro alla preparazione di un piano di azione che possa
divenire la base per un eventuale richiesta di
finanziamento alla Comunità Europea.
Il workshop si conclude per me con la stesura di questa
relazione, anche se verosimilmente con essa non si
conclude il processo di ricerca avviato nel Settembre 2002
che necessita di ulteriori approfondimenti soprattutto per
quanto riguarda la gestione economico finanziaria delle
iniziative, sia di quelle finanziate dall’Unione Europea sia di
quelle relative ai finanziamenti messi a disposizione dalle
autorità nazionali come ad esempio i Contratti di quartiere.
Approfondire le dinamiche di partecipazione attiva dei
cittadini ai processi decisionali, insieme col coinvolgimento
dei privati in iniziative supportate da amministrazioni
pubbliche, rappresentano ulteriori obbiettivi che non è
stato possibile raggiungere con questo lavoro, soprattutto
per la natura stessa di esso, non essendo possibile
stabilire contatti e relazioni basati su possibili dinamiche di
cambiamento reali né con i cittadini coinvolti né tanto
meno con i responsabili dei processi di riqualificazione e le
amministrazioni pubbliche, anche se è stato comunque
possibile simulare il cambiamento.
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