IV
più duro da sormontare per poter trovare la giusta armonia fra la severità del suo dettato nei
principi fondamentali e la Garantenstellung.
A tutt’oggi, infatti, teoria formale e teoria funzionale, nate entrambe sulla scia della
giurisprudenza teutonica, sono ancora in acerrima concorrenza per giungere ad una posizione
di conclamata supremazia dell’una sull’altra; entrambe, infatti, vantano autorevoli
rappresentanti a militare nelle rispettive fila.
L’impossibilità insita nella “quadratura del cerchio” è proverbiale ed ha portato,
pertanto, la giurisprudenza a circoscrivere una “zona franca” in cui formalisti e funzionalisti
potessero approdare senza correre il rischio di continuare a perpetrare la loro dinamica
diatriba: la teoria che ci si propone di eleggere come “accettata”, è quella che, logicamente,
fonde le due posizioni opposte, sviluppando la c.d. teoria “mista”, una teoria che sposa il
criterio formale con quello funzionale.
Il connubio dei due pensieri può, così, gettare altre e ben definite basi da cui far
sgorgare la posizione di garanzia: non più, quindi, il rigido “trifoglio”, stendardo
dell’impronta formale, né, a maggior ragione, un caotico conglomerato di situazioni
obbedienti, esclusivamente, ad un puro sentimento di giustizia. Ora le fonti sono definite in
base ad un criterio se possibile equilibrato, tanto ponderato quando denso di casi dubbi e
sofisticate sfaccettature; in poche parole, la teoria “mista”, forte del nobile intento che
l’alimenta, tenta di non lasciare più zone d’ombra o lacune di tutela anche per quanto attiene
situazioni particolarmente complesse.
La posizione di garanzia tradizionalmente si manifesta in due forme differenti: le
posizioni di protezione e quelle di controllo: le une vedono il garante obbligato ad evitare
pericoli, provenienti da terzi, per il bene giuridico appunto sotto la loro protezione, mentre le
altre pretendono dal soggetto obbligato un costante controllo su di un bene o su una
determinata fonte di pericolo al fine, questa volta, di evitare che proprio terzi vengano messi
V
in pericolo (altra forma di controllo, con alcune differenze rispetto a quella “classica”, è
l’impedimento dei reati).
Il corpus della tesi è composto, dunque, dai primi tre capitoli: ambientazione, genesi e
regolamentazione, nucleo.
A questi si aggiunge un quarto, recante lo scopo di collaudare ciò che si è studiato: si
sono scelti tre casi, critici rispetto alla tematica.
Ma, mentre i primi due casi sono correlati debitamente a due sentenze della Corte di
Cassazione, l’ultimo dei tre di sentenza ne risulta privo. Questo in quanto chi scrive si è, con
la dovuta umiltà, voluto cimentare in un tentativo di analisi “camminando sulle proprie
gambe”, sfidando se stesso sul terreno che si è preparato con l’affrontare questo lavoro.
CAPITOLO PRIMO
L’OMISSIONE
Sommario: 1. PREMESSA. – 2. AZIONE ED OMISSIONE: CENNI STORICI. – 3. L’AZIONE DOVUTA.
NATURA NORMATIVA DELL’OMISSIONE. – 4. LA POSSIBILITÀ DI AGIRE. – 5. I REATI OMISSIVI
PROPRI E I REATI OMISSIVI IMPROPRI. – 5.1. STRUTTURA DEL REATO OMISSIVO IMPROPRIO. –
5.1.1. ART. 40 C.P. – 5.1.1.1. IL NESSO DI CAUSALITÀ. – 5.1.1.2. ART. 40 CPV.: LA CLAUSOLA DI
EQUIVALENZA. – 5.1.1.3. IL PRINCIPIO DI CONVERSIONE. – 5.1.2. L’ELEMENTO SOGGETTIVO. –
5.1.2.1. COSCIENZA E VOLONTÀ DELLA CONDOTTA. – 5.1.2.2. LA “SUITAS”. – 5.1.2.3. IL DOLO.
– 5.1.2.4. LA COLPA. – 5.2. CONCORSO DI PERSONE ED OMISSIONE. – 5.2.1. CONCORSO NEL
REATO OMISSIVO. – 5.2.2. CONCORSO MEDIANTE OMISSIONE IN UN REATO COMMISSIVO. – 5.3.
IL TENTATIVO NEL REATO OMISSIVO IMPROPRIO. – 5.3.1. OPERATIVITÀ DELLA DESISTENZA IN
AMBITO OMISSIVO.
1. Premessa
Prima di analizzare la posizione da garanzia, è necessario definirne il contesto,
perlomeno giuridico.
Si tenterà di dare, pertanto, un approccio descrittivo alla prima parte del lavoro,
partendo, dapprima, dalla fondamentale distinzione tra azione ed omissione; una volta
enucleato il concetto omissivo in senso giuridico, si scenderà più nello specifico, con la
suddivisione tra reati omissivi propri ed impropri, fino ad arrivare al punto cruciale, ovvero
l’art. 40 del Codice Penale, il quale costituisce la norma da cui la posizione di garanzia prende
vita. L’analisi dell’articolo de quo, con riguardo tanto al nesso di causalità, quanto alla c.d.
clausola di equivalenza, fornisce, pertanto, lo spunto necessario per poter entrare nel vivo
della trattazione.
2
2. Azione ed omissione. Cenni storici
Dalla differente descrizione del fatto tipico è possibile individuare diverse tipologie di
reati; in questa sede rileva, in particolare, quella che oppone ai reati di azione (c.d. reati
commissivi), i reati di omissione (o omissivi).
L’azione può definirsi come un comportamento attivo ed operoso che si evidenzia in
un movimento, che può essere limitato ad una mossa, un gesto, una parola. Essendo questo un
termine di significato pressoché onnicomprensivo, i reati di azione hanno avuto
un’elaborazione continua e sono stati oggetto di studio da secoli
1
; infatti, nell’evoluzione
umana e, parallelamente, nella sfera del diritto, c’è sempre stata una tendenza improntata, più
che altro, sul definire cosa “non fare”, quindi basata su norme di divieto. Si è finito, perciò,
con l’apportare una disciplina alle sole azioni, nel senso che si operò in modo tale che i
comportamenti umani attivi non sfociassero in eventi che andassero a ledere la sfera altrui in
alcun modo. Questa situazione ha fatto sì che il modello tipico di illecito penale fosse
individuato, tradizionalmente, nel reato di azione.
In perfetta coerenza con questa tendenza, l’ideologia individualistico-liberale trovò
terreno fertile fino a buona parte dell’ottocento: il solo obbligo che vigeva, stante il principio
della libertà di azione del cittadino, era quello di non aggredire le altrui posizioni di interesse
2
.
I reati di omissione non sono stati oggetto della stessa attenzione. Le prassi punitive
degli Stati da una parte, le codificazioni dall’altra, hanno sempre attribuito a questi un rilievo
minore, forse addirittura marginale. Il motivo è piuttosto chiaro.
1
ROMANO, Commentario sistematico al Codice Penale, Pre - art. 39, Milano, 1990, 296.
2
FIANDACA – MUSCO, Diritto Penale, Parte Generale, Bologna, 1995, 524.
3
Il concetto di omissione non è di facile definizione dal punto di vista giuridico. Essa
richiama, letteralmente, un “nulla”, ossia l’antitesi di un’ attività positiva
3
: l’omissione è
qualche cosa che non c’è, che non si vede e che perciò non è tangibile. In una parola è “non
fare nulla”.
Un’omissione nel senso letterale del termine, dunque, sfocia in reato, nel momento in
cui ci si trovi al cospetto di un comando (facere), mentre nel caso di un reato commissivo, la
corrispondenza è a un divieto (non facere). L’omissione consiste, pertanto, in un
comportamento passivo, negativo ed inattivo, che si evidenzia, in base a quanto poc’anzi
detto, in una mancata azione o reazione, contrariamente a quanto prescritto dalla norma. Ed è
dalla sua stessa definizione che si evince il complesso problema proprio di questa fattispecie
di reato: l’individuazione di un comportamento negativo o passivo come causa di un evento
lesivo.
Il Codice Rocco, come pure il Codice Zanardelli, si basa soprattutto su norme di
divieto, lasciando poco spazio ai reati omissivi; dalla lettura è agevole prendere atto che i reati
omissivi e, dunque, le norme di comando, trovano poco rilievo.
Una notevole inversione di tendenza si è avuta con lo sviluppo economico e sociale e
l’emergere di nuove tendenze solidaristiche, all’incirca a cavallo tra l’ottocento e il
novecento, in concomitanza con la crisi dello Stato liberale. Basti pensare al settore del diritto
bancario, del diritto penale commerciale, come pure alle norme sulla circolazione stradale,
alla sicurezza sul luogo di lavoro o all’ambiente medico: in questi campi si è assistito ad un
progressivo incremento di norme di comando, dovuto all’affermarsi di un principio di
solidarietà
4
che fa obbligo, più che di astenersi dal compiere azioni lesive, piuttosto di
attivarsi, o intervenire, per la salvaguardia di beni altrui.
3
CARACCIOLI, Omissione, in Novissimo Digesto italiano, vol. XI, Torino, 1965.
4
MANTOVANI, Principi di Diritto Penale, Padova, 2002, 56 e FIANDACA – MUSCO, Diritto, op. cit.,
524.
4
Il cambiamento è tale da far cessare quel ruolo di “eccezione” cui la responsabilità
omissiva era stata, in linea coi tempi passati, relegata. Gli illeciti omissivi riescono a godere,
grazie all’affermarsi di tali nuove tendenze sociali, dell’elaborazione di un’autonoma
dogmatica.
In Italia, in particolare, si devono attendere i primi decenni del novecento per assistere
ad un interesse per il tema, grazie alla manifesta influenza dei giuristi tedeschi
5
.
5
Come si vedrà più avanti parlando della posizione di garanzia.
5
3. L’azione dovuta. Natura normativa dell’omissione
Si è stati in grado, dunque, di staccarsi definitivamente dal significato letterale di
omissione, per dare il connotato decisivo al semplice non facere affinché questo rilevi in sede
penale. Tale impronta consiste nell’azione dovuta prescritta dalla norma.
L’azione dovuta conferisce una certa determinatezza alla fattispecie, perché la sua
individuazione fa sì che l’omissione non consista più in un “non fare nulla”, ma in un “non
fare qualcosa di determinato”.
Si può così finalmente dare una lineare definizione di omissione, che si dirà essere il
mancato compimento dell’azione dovuta richiesta dalla norma, il non facere quod debetur .
Il legislatore penale disciplina perciò il comportamento che contrasta con un obbligo
giuridico a contenuto positivo, un “obbligo giuridico di fare”.
Si è appurato che quando si parla di non facere riguardo al reato omissivo, non è da
intendersi alla lettera, poiché si rischierebbe di identificarlo con la mera inerzia, ma neppure
un elemento decisivo dell’omissione va cercata in un comportamento differente dall’azione
dovuta, ovvero un aliud facere, per evidenti ragioni: innanzitutto, perché chi omette di agire
può anche non compiere alcuna altra azione; in secondo luogo, perché l’azione diversa è del
tutto irrilevante per l’esistenza del reato, dovendo il giudice accertare che il soggetto non ha
tenuto, pur potendolo, l’azione doverosa. Tenere una condotta diversa da quella che si sarebbe
dovuta assumere, secondo la legge può essere penalmente rilevante solo se, secondo le regole
dell’esperienza, ci si sarebbe potuto attendere dall’agente una condotta diversa da quella da
lui posta in essere.
È la doverosità dell’agire che converte l’inerzia dell’individuo in omissione; sono
giuridicamente rilevanti le sole omissioni consistenti nell’inosservanza di un obbligo giuridico
di fare, e non quelle consistenti nell’inosservanza di un dovere soltanto morale. È, quindi,
6
necessario porre l’accento sulla giuridicità dell’obbligo, nel pieno rispetto del capoverso
dell’art. 40 c.p. (che parla, per l’appunto, di “obbligo giuridico di impedire”) e, ancor prima,
del principio, di rango costituzionale, di legalità.
6
L’essenza dell’omissione non è pertanto naturalistica, ma normativa, perché solo con
riferimento ad una norma che pone in capo al soggetto un obbligo di agire, è possibile
enucleare una condotta omissiva. L’obbligo che deve essere violato perché sorga la
responsabilità penale può essere di varia natura: generale, cioè valevole per tutti i cittadini;
professionale, valevole cioè per una categoria di persone; o speciale, se vale per un dato
individuo. Ma ciò che rileva soprattutto è che il soggetto sia costituito responsabile
dell’impedimento di quel determinato risultato dannoso. Questa posizione dell’individuo e il
dovere che ne deriva di assicurare la conservazione di un determinato bene giuridico,
giustificano l’attribuibilità delle conseguenze.
6
A proposito dell’art. 40 cpv. c.p., v.. oltre, il par. 5.1.1.; mentre, per quanto attiene il principio di
legalità e le fonti giuridiche dell’obbligo de quo, v., ampiamente, il secondo capitolo.
Un esempio tratto da ANTOLISEI, Manuale di Diritto Penale, Parte Generale, Padova, 2003, 259, può
chiarire al meglio il perché dell’uso del termine “morale” per delineare, alle prime battute, come fosse quasi
un’antitesi della “giuridicità”, l’obbligo ex art. 40 cpv. c.p.: l’esempio è quello di un passante che, nel transitare
per una strada, nota del fumo uscire dalla finestra di un edificio; qualora costui si astenga dal segnalare la
possibilità di un incendio ad un agente di pubblica sicurezza, non incorrerà in una responsabilità penale, in
quanto non ha compiuto alcun atto giuridicamente illecito, tutt’al più si è distinto per scarsa sensibilità sociale.
L’uso del termine, in tal senso, si collega con il soggetto “passante”, simbolo, in questo preciso
contesto, del “chiunque” e non del soggetto specifico in capo al quale sta l’obbligo giuridico. Ben diversa sarà,
rebus sic stantibus, la situazione nel caso in cui da quella strada passasse il proprietario dell’edificio o un vigile
del fuoco (per le categorie di soggetti garanti ex lege e per la particolare posizione della forza pubblica, v.,
rispettivamente, cap. III, par. 3.2 sulla posizione di controllo, e cap. IV, par. 1.2.).
7
4. La possibilità di agire
Altro dato rilevante è che l’omissione presuppone la possibilità concreta di adempiere
il dovere di fare, cessando di sussistere in caso di impossibilità di essere adempiuto, in
ossequio al brocardo ad impossibilia nemo tenetur; la logica cui vuole obbedire l’ordinamento
è quella che impone di non chiedere l’impossibile al soggetto, riferendosi alla possibilità di
agire nel senso “fisico-reale”
7
: ove tale possibilità mancasse, non è logicamente pensabile
un’omissione. Ad esempio, essendo presupposto il relativo potere, il padre, destinatario
dell’obbligo di impedire eventi dannosi o pericolosi per la vita o l’integrità fisica dei figli
minori, se non sa nuotare, non risponderà del mancato impedimento della morte del figlio per
aver assistito impotente al suo annegamento senza buttarsi in acqua per salvarlo
8
.
7
ROMANO, Commentario, op. cit., Pre - art. 39, 296.
8
Esempio tratto da MARINUCCI – DOLCINI, Manuale di Diritto Penale, Parte Generale, Milano, 2004,
133.
8
5. I reati omissivi propri e i reati omissivi impropri
È fondamentale la distinzione, operata dalla dottrina penalistica, tra reati omissivi
propri (o di pura omissione) e reato omissivi impropri (o commissivi mediante omissione). I
primi si esauriscono nel mancato compimento dell’azione dovuta, e per la loro sussistenza
non occorre alcun evento materiale; sono reati di mera condotta e sono reati previsti da norme
di Parte Speciale. I secondi, invece, sono reati di evento: la legge attribuisce rilevanza penale
al non impedimento di tale evento. Questo tipo delittuoso è carente di una previsione
legislativa espressa
9
, pertanto la loro previsione è il risultato del combinarsi di una
disposizione di Parte Generale (art. 40 cpv. c.p.) e di norme incriminatici di Parte Speciale che
vietano la causazione di un evento.
Apparterrà, pertanto, al primo tipo il caso di Tizio che “trovando abbandonato o
smarrito un fanciullo minore di anni dieci…” non ne dà immediato avviso all’Autorità (art.
593 c.p. - Omissione di soccorso), e al secondo tipo il caso di chi “cagioni la morte…” di un
individuo, avendo l’obbligo giuridico di non cagionarla (art. 40 cpv. c.p. combinato all’art.
575 c.p. - Omicidio);
Distinguendo i reati omissivi propri dagli impropri in funzione della diversa tecnica di
tipizzazione
10
adottata del legislatore, impropri risultano così gli illeciti carenti di previsione
legislativa espressa e perciò ricavati dalla conversione di fattispecie create in origine per
incriminare comportamenti positivi (trasformati in fattispecie omissive per via di
interpretazione giurisprudenziale).
9
Alcuni autori sostengono diversamente, pur riconoscendo che si tratti di casi in numero esiguo. Per
esempio MANTOVANI Principi, op. cit., 58, parla di espressa previsione di un reato omissivo improprio a
proposito dell’art. 659 c.p. sul mancato impedimento di strepito di animali.
10
FIANDACA – MUSCO, Diritto, op. cit., 528.
9
5.1. Struttura del reato omissivo improprio
Come detto, sono reati omissivi impropri quelli per cui la legge incrimina il mancato
compimento di un’azione giuridicamente doverosa, imposta per impedire il verificarsi di un
evento: tale evento è elemento costitutivo del fatto. Rispetto ai reati di pura omissione, ci
troviamo di fronte ad un’estensione più ampia del dovere giuridico di agire, essendo incluso
nel suo oggetto anche l’impedimento dell’evento. Emblematico e chiarificatore può essere
l’esempio di un bambino che sta annegando in una piscina sotto gli occhi del bagnino e di un
amico di questi, abile nuotatore. Se entrambi mancano di intervenire, in caso di morte del
bambino, ecco che il bagnino, in capo al quale c’è il dovere giuridico di proteggere la vita dei
bagnanti impedendone la morte, sarà responsabile di omicidio (per la combinazione dell’art.
40 cpv. con l’art. 575, dunque reato omissivo improprio, avendo cagionato la morte del
bambino non intervenendo), mentre l’amico risponderà di omissione di soccorso ex art. 593
(reato omissivo proprio, trattandosi di generico dovere di intervento stante in capo a
“chiunque”)
11
, perché, pur mancando in capo ad esso il dovere giuridico, si trova comunque
nella condizione disciplinata dal 2° comma, ovvero di “chi, trovando…una persona ferita o
altrimenti in pericolo, omette di prestare l’assistenza occorrente o di darne immediato avviso
all’Autorità” (nel caso descritto, derivando dalla condotta del colpevole la morte, l’omissione
di soccorso è aggravata e la pena è addirittura raddoppiata ex 3°comma).
11
Cfr. MARINUCCI – DOLCINI, Manuale, op. cit., 133.
10
5.1.1. L’art. 40 c.p.
L’art. 40 del Codice Penale e, in particolare, il capoverso, costituisce pertanto la
norma chiave del presente lavoro.
5.1.1.1. Il nesso di causalità
L’art. 40 c.p., nel primo comma, dispone che “nessuno può essere punito per un fatto
preveduto dalla legge come reato, se l’evento dannoso o pericoloso, da cui dipende l’esistenza
del reato, non è conseguenza della sua azione od omissione”. È perciò ammessa la causalità
anche tra omissione ed evento
12
.
Ma, mentre per il nesso causale tra azione ed evento i criteri di spiegazione si possono
enunciare ex post in base ad una derivazione “fattuale” o “meccanica” (grazie ad un facere
dell’agente), tale derivazione è assente nella causalità omissiva, di cui pure si occupa il
medesimo primo comma dell’art. 40. Il problema è quello di spiegare un evento non secondo
accadimenti reali, bensì alla stregua di un non fare (qualcosa di determinato) da parte del
soggetto; ecco perché è necessario evidenziare la differenza concettuale tra causalità attiva ed
omissiva, nel senso che in quest’ultima non si ha per nulla impiego di forze materiali, ma solo
una relazione ipotetica da instaurare tra la mancata azione dovuta e l’evento concreto che si è
hic et nunc verificato.
12
In Italia, una corrente che ottenne un rilevante successo, è quella che è pervenuta alla conclusione di
negare all’omissione ogni rilevanza causale (Cfr. nota 34 in ANTOLISEI, Manuale, op. cit., 256). L’omissione, si
rileva, non può considerarsi causa, perché, quando in seguito ad essa si è verificato un evento, sono le forze della
natura, come caso fortuito e forza maggiore, alle quali non reagisce la persona obbligata ad agire, quelle che lo
hanno cagionato; un giudizio ipotetico avviene su un accadimento che non si sarebbe verificato qualora l’azione
impeditiva fosse stata compiuta. La punizione dell’omissione non dipende, dunque, dalla sua causalità, ma è la
legge che in taluni casi considera alla stessa stregua il fatto di determinare l’evento e il fatto di non impedirlo.
Questa teoria, non pare tuttavia esaustiva di informazioni.
11
La struttura del rapporto causale tra l’omissione di un’azione doverosa e un dato
evento penalmente rilevante, si basa su due accertamenti: in primo luogo, si tratta di
verificare, in via preliminare, un effettivo rapporto di causalità tra un dato evento concreto e
un fatto ad esso antecedente, come può essere un’azione umana o un fattore causale naturale.
In secondo luogo, si deve ricostruire la formula della condicio sine qua non
13
, adattandola alla
peculiare struttura del reato omissivo, chiedendosi non già se, eliminata mentalmente una data
azione, l’evento non si sarebbe verificato, bensì se, aggiungendo mentalmente l’azione dovuta
che è stata omessa, ne sarebbe seguita una serie di modificazioni della realtà che avrebbe
impedito il verificarsi dell’evento, ovvero ostacolato il processo causale che, nella realtà, è
sfociato nell’evento.
14
Il “non fare”, dunque, può essere causa di un evento esattamente come il “fare”,
potendo in entrambi i casi contribuire e creare modificazioni del mondo fenomenico.
Le differenze tra causalità attiva e causalità omissiva sono, pertanto, sostanzialmente
due: la prima, come detto, consiste nella diversità dell’essenza, essendo quella omissiva di
natura normativa
15
(ex nihilo nihil fit si dice in latino, ovvero dal nulla non scaturisce nulla),
in quanto è la legge che interviene a equiparare il non impedire al cagionare (come si vedrà a
breve); la seconda, invece, consiste nel fatto che la omissiva è una causalità ipotetica, basata
quindi su un giudizio di tipo ipotetico, rispetto alla causalità attiva. Per la precisione, un
giudizio ipotetico di natura prognostica così articolato: in primis si procede con
l’accertamento (il primo dei due) del nesso omissione-evento.; in secundis, supposta
13
FIANDACA – MUSCO, Diritto, op. cit., 541, MARINUCCI – DOLCINI, Codice Penale Commentato, Parte
Generale, Art. 40, Milano, 1999, 275 e ROMANO, Commentario, op. cit., Art. 40, 327, secondo il quale
“l’omissione è causale quando l’azione dovuta non può essere mentalmente aggiunta senza che venga a mancare
l’evento”).
14
Nella scienza giuridica penalistica, può dirsi dominante l’interpretazione che fa leva sulla “teoria
condizionalistica”. È, dunque, causa penalmente rilevante la condotta umana, attiva o passiva, che si pone come
condizione necessaria, c.s.q.n. appunto, nella catena degli antecedenti che hanno concorso a produrre il risultato,
senza la quale l’evento, da cui dipende l’esistenza del reato, non si sarebbe verificato.
15
Cfr. quanto detto nel paragrafo sull’azione dovuta.
12
mentalmente (c.d. principio di sostituzione mentale) come realizzata l’azione omessa, ci si
chiede se, in presenza di essa, l’evento lesivo si sarebbe verificato ugualmente oppure sarebbe
venuto meno (ed è questo il secondo accertamento). L’imputazione causale dell’evento lesivo
presuppone che il giudice si accerti che il compimento di siffatta azione doverosa avrebbe,
con una probabilità vicina alla certezza
16
, in base al rinvenimento della legge scientifica (c.d.
metodo della sussunzione sotto leggi scientifiche), sia essa universale o statistica, o regola di
esperienza, impedito l’evento; proprio tale accertamento si avvale dell’impiego della formula
ipotetica così impostata: l’omissione è causa dell’evento solo quando non può essere
mentalmente sostituita dall’azione doverosa, senza che il risultato stesso venga meno.
La causalità omissiva, quindi, pur essendo causalità ipotetica e probabilistica, può
essere determinata anch’essa con un grado di attendibilità vicino alla certezza, tanto quanto
quello normalmente raggiungibile nell’ambito della causalità reale propria dei reati
commissivi.
17
16
Dottrina maggioritaria, frequentemente citata, per esempio JESCHECK, Lehrbuch des Strafrechts, si
accontenta di richiedere che l’azione doverosa, supposta come realizzata, sarebbe valsa ad impedire l’evento con
probabilità vicina alla certezza. Mentre orientamenti più rigoristici sono andati emergendo in ambito di
responsabilità medica: la Cassazione, nel sottolineare il carattere “probabilistico” della causalità omissiva, ha
ritenuto di poterla affermare pur in presenza di un livello medio – basso di probabilità che la prestazione
sanitaria omessa avrebbe salvato la vita del paziente (Cfr. GIACONA, Sull’accertamento del nesso di causalità tra
la colposa omissione di terapia da parte del medico e la morte del paziente, Firenze, 1992, II, 363 ed ivi ampi
riferimenti giurisprudenziali).
Inoltre, cfr., Cass. Sez. Un. 10 luglio 2002, 27, in Riv. It. Dir. e Proc. Pen., 2002, 1133 ss., in cui è
riportato: “…probabilità vicino alla certezza, e cioè in una percentuale di casi «quasi prossima a cento…»…”; ed
è questa la fase c.d. “nomologica”, in cui si riscontra la causa fisiologica dell’evento, tramite la sussunzione sotto
leggi scientifiche. Ad essa segue la successiva fase, c.d. “stocastica”, quella, cioè, in cui è possibile attribuire al
verificarsi dell’evento, per i motivi enucleati dalla fase precedente (per esempio, morte per annegamento,
incendio per combustione di materiali), una causa non già fisiologica, ma riconducibile all’azione od omissione
dell’uomo: questo grazie alla sostituzione mentale. La sentenza pone, infatti, in rilievo come siano sufficienti, in
questa seconda fase, soltanto “serie ed apprezzabili probabilità di successo della condotta che avrebbe potuto
impedire l’evento” (1134).
17
In merito, cfr. PALIERO, La causalità dell’omissione: formule concettuali e paradigmi prasseologici,
in Riv. It. Med. Leg. XIV, 1992, 822 ss., il quale si schiera apertamente contro quanti asseriscono che, contro la
certezza pretesa in ambito di causalità attiva, per quella omissiva ci si può accontentare “di qualcosa di meno”
(823), e sostengono che, essendo quella omissiva una causalità ipotetica, “può essere determinata con un grado
di attendibilità minore” (823, in cui cita testualmente FIANDACA, Reati omissivi e responsabilità penale per
omissione, in Arch. Pen.,1983, 44).