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del tempo tra passato, presente e futuro, e dello spazio in un qui ed un altrove, in
un “qui” ed un “ora” continui, che definiremo “di flusso”; b) l’individualizzazione
dei ritmi della vita, ovvero una riconfigurazione fluida dell’organizzazione sociale
tale da spezzare i vincoli di coincidenza tra i gruppi, le relative attività, e gli spazi
ed i tempi ad esse preposte, sfociante in un individualismo ambivalente che
comporta da un lato solitudine ed insicurezza, dall’altro libertà da conformismo e
vincoli sociali. Una conseguenza importante di questo crescente individualismo è
la riconfigurazione della produzione di senso: il secondo capitolo parte
dall’assunto che, essendo la costruzione del senso un’operazione sociale, un
indebolimento delle identità di gruppo e la parallela espansione dei media non
possono che avere effetti importanti su questa pratica: l’individuo orfano delle
solide identità collettive precedenti deve elaborare nuove strategie di produzione
del senso. Dopo una presentazione della terminologia adatta a trattare
l’argomento, cercheremo di capire da dove provengono i materiali simbolici che
l’individuo ed i gruppi utilizzano come mattoni degli edifici del senso, ed in che
modo il flusso interferisce nella loro normale circolazione ed interpretazione,
interferenza che vedremo sfociare in un consolidamento della tendenza
all’individualismo, ed in una riconfigurazione delle situazioni, dei ruoli e delle
gerarchie in esse presenti, avvalendoci del contributo teorico di Goffman e
Meyrowitz; vedremo inoltre che il flusso si presenta come il cavallo di troia
dell’ideologia consumistica, la quale colonizza gli spazi mediatici introducendo
un ulteriore nuovo elemento nel quadro delle situazioni, che vogliamo considerare
il contesto nel quale quotidianamente gli attori negoziano tra loro la produzione
del senso. A questo proposito, esamineremo alcune teorie cercando di
comprendere la reale portata del potere persuasivo dei media. Il terzo capitolo
introduce il concetto di consumo esteso, inteso come il gesto che traduce il senso
astratto in azione concreta, atto sociale e comunicativo, in accordo con
M.Douglas, e operazione di bricolage, come suggerito da DeCerteau; si tratta di
concepire il comportamento degli individui come una produzione di
comportamento, che utilizza, cioè consuma, dei materiali simbolici e fisici.
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A questo punto vedremo come il brand, grazie ad una grande disponibilità di
esposizione mediatica, cerca di cavalcare in modo vantaggioso il mutamento,
producendo una vera e propria invasione pubblicitaria, colonizzando i nuovi spazi
postmoderni con gli apparati preposti al consumo, promuovendo la già
consolidata deriva individualistica ed una serie di valori legati all’edonismo ed al
consumismo, cercando, in definitiva, di ridurre il consumo a consumismo; è in
atto un tentativo di incanalare le pratiche comunicative ed identitarie implicite nel
consumo esteso in un corridoio, il transito attraverso il quale presuppone
l’acquisto. Nel quarto capitolo indagheremo gli effetti di questa politica del brand
sui consumatori; uno degli effetti possibili è quello dell’incentivazione, nei
consumatori, di comportamenti, sentimenti ed ideologie funzionali al sistema
consumistico, specialmente col ricorso a tecniche di marketing indirizzate a
giovani e giovanissimi, i consumatori di domani (e sempre più, già di oggi). Il
quinto capitolo, infine, vuole integrare l’esposizione con un allargamento della
visuale che illustri sinteticamente gli effetti macroscopici della transizione
postmoderna, sull’assetto politico ed economico internazionale, mettere in risalto
una postmodernità che non si realizza solo nel mondo occidentale, ma,
recuperando la tesi dei rapporti centro-periferia, coinvolge tutto il sistema mondo,
con conseguenze assai differenti. Il sesto e settimo capitolo ospitano
un’esemplificazione di alcune delle tematiche dello scritto attraverso l’analisi del
caso della moda e di Benetton, e le conclusioni.
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II) Il cambiamento
Dire che il mondo sta cambiando è certamente banale, individuare nel
cambiamento la caratteristica peculiare della modernità sarebbe errato. Fin dalla
sua nascita, indifferente alle nostre speculazioni, l’universo non fa che cambiare:
in effetti l’umanità non è l’agente del cambiamento quanto un suo prodotto
marginale, prodotto di movimenti preistorici; cosi la storia dell’uomo, compresa
nel movimento universale, non può che essere movimento a sua volta. Il concetto
stesso di storia (fondamento primo della nostra identità collettiva) si oppone
all’idea della staticità, richiede il cambiamento per essere vivo e pensabile; la
storia è il ricordo del nostro cambiamento, come tutti i ricordi selettivo,
incompleto, distorto e negoziato, cangiante come il suo oggetto. Del resto
potrebbe la storia, discorso sul cambiamento prodotto dal cambiamento,
cristallizzarsi in forme definitive? Sconfesserebbe sé stessa, morendone; si tratta
invero d’una materia viva che gli storici indagano, aggiustano e revisionano con
costanza e solerzia. Assodato che la società (qualunque società) nasce dal
cambiamento e ne è, da sempre, necessariamente immersa, salta agli occhi che il
movimento sembra accelerare costantemente; le tecnologie di trasporto e
comunicazione coordinate da quelle elettroniche creano un proliferare di
connessioni in cui gli stimoli s’incrociano, rifrangono ed amplificano, rivelandosi
propellente d’inusitata potenza del cambiamento. La sua crescente velocità ha
indotto negli storici l’immagine del decollo (take-off) per indicare una fase del
processo d’industrializzazione, ma la metafora del distacco dal suolo può
ribaltarsi in quella d’un avvicinarsi inquietante di questo, schiavo
dell’accelerazione gravitazionale, verso l’impatto implosivo nel buco nero.
Proseguendo nella metafora, la situazione del decollo e del buco nero presentano
un significativo punto in comune: per volare evitando il disastro aereo, cosi come
per sfuggire all’attrazione del buco nero (sperando di non aver superato il punto di
non ritorno…), occorre uno slancio potente, raggiungere la velocità di fuga, la
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velocità di decollo; chi si ferma è perduto… La sociologia, fin dai suoi albori,
cerca di comprendere il movimento ed i fattori che lo strutturano. Un vasto
dibattito sul cambiamento attuale riguarda il passaggio dalla modernità a quella
che è stata chiamata postmodernità. Non tutti gli autori sono convinti della
necessità di questo termine: quelli che possiamo definire continuisti, i quali
ritengono che il periodo attuale sia un proseguimento della modernità, in cui
prevalgono gli elementi di continuità su quelli di frattura; e per ragioni opposte
autori come A.Semprini (2003) o M.Castells (2002), che preferiscono sostituire
l’espressione “postmodernità” con termini quali “società di flusso” il primo, o
“società informazionale” il secondo, con l’intento di eliminare la continuità che le
definizioni di modernità e postmodernità suggeriscono in virtù della loro
assonanza. Numerosi sono gli autori che insistono sulla preponderanza delle
fratture (Culler, 1988; Harvey 1993; Jameson, 1991; Lash, 1999), per i continuisti
possiamo citare Clifford (1993) e Giddens (1994). Gli autori che sposano la tesi
della frattura devono determinare le specificità della nuova configurazione di cui
parlano, ed indagare sui fattori del cambiamento in corso; quest’operazione porta,
in molti casi, a creare una struttura gerarchica tra gli elementi del cambiamento
che sfocia in diverse variazioni di determinismo. Fredric Jameson, per esempio,
d’orientamento marxista ortodosso, individua nella trasformazione della natura
del capitale e nelle mutate condizioni dell’accumulo dello stesso le cause ultime
dell’evoluzione sociale (F.Jameson 1991). La transizione postmoderna è a suo
avviso determinata dall’ingresso nel terzo stadio del capitalismo, quello
multinazionale e delocalizzato, seguito allo stadio commerciale ed alla fase
industriale; in questa congiuntura la cultura (nella sua concezione di produzione
artistica o concettualmente elevata) perde la relativa autonomia che la nozione di
estetica, nonché la circoscrizione del suo campo d’applicazione, le garantivano,
scalzata dalla sua sottomissione alla logica del mercato. La mercificazione della
cultura (commodification) la rende definitivamente sovrastruttura, in un’ottica di
determinismo dialettico piuttosto rigida. Se Jameson pone all’origine del
cambiamento sociale i mutamenti in ambito economico e produttivo, Castells
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attribuisce questo ruolo chiave all’innovazione tecnologica; l’evoluzione delle
tecnologie elettroniche di massa, e non solo, introduce nuovi comportamenti,
nuovi modi di pensare, agire e lavorare, nuovi modi di combinare lavoro e tempo
libero, conduce ad una logica produttiva postindustriale che richiede nuove
professionalità flessibili ad alta competenza da impiegare nello sviluppo di servizi
e beni immateriali ad elevato contenuto simbolico. Riguardo la questione degli
elementi trainanti del cambiamento, questo scritto cercherà di rifarsi al pensiero di
Edgar Morin, secondo il quale diversi fattori profondi possono essere menzionati
senza vedersi attribuiti rapporti di causalità monodirezionali, diretti ed esclusivi
(Morin 1993); per quanto la chiarezza espositiva imponga di scomporli
analiticamente, sembra preferibile considerarli immersi in una dialettica
complessa di interazioni e retroazione permanenti, evitando di inserirli in strutture
di causa effetto eccessivamente meccaniche e gerarchizzate. Essendo intenzionati
a discutere sulla postmodernità ed alcune delle sue sfaccettature, occorre
delimitare il referente di quest’indagine; le società contemporanee non presentano
tutte, e quelle che lo fanno non lo fanno con eguale intensità, i caratteri della
postmodernità. Parlando di postmodernità, per adesso, si vuole indicare una
configurazione idealtipica di stili di vita, modi produttivi, d’assetti culturali e
valoriali e di tecniche di comunicazione che, abbinati a standard infrastrutturali
d’alto livello e tecnologie sofisticate, redditi relativamente elevati e sistemi
politici democratici, tendono a presentarsi assieme in determinati luoghi;
chiameremo questa coincidenza di tratti: “configurazione postmoderna”. La
configurazione postmoderna non si realizza mai pienamente ed è da considerarsi,
in quest’ottica, uno strumento analitico utile a far chiarezza nella tematica del
cambiamento, che risulterebbe però fuorviante se indebitamente reificato.
Tenendo presente la cautela con cui è giusto usufruire di questa nozione, per
semplicità chiamerò “società postmoderna” l’insieme delle società che
manifestano maggior similitudine col modello ideale, per lo più coincidente con
quello che comunemente s’identifica come mondo occidentale, ovvero il Nord
America, l’Europa occidentale e l’Oceania anglofona, con l’aggiunta del
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Giappone. La corrispondenza tra stati e società postmoderna però, non è perfetta;
la Cina, ad esempio, nazione afflitta da un’estesa povertà, i cui cittadini sono
prevalentemente agricoltori, vede convivere spalla a spalla questa realtà rurale con
città quali Shangai ed Hong-Kong, in cui l’impatto della postmodernità è stato
forte e pervasivo. Nello stesso modo altri paesi asiatici e sudamericani, post-
sovietici ed in maniera minore africani, possiedono città o quartieri postmoderni
inseriti in contesti agricoli o industriali che sembrano appartenere a tempi diversi.
Anche nel mondo occidentale la situazione non è omogenea: è ancora possibile
visitare villaggi alpini dove la configurazione postmoderna non sembra ancora
essersi inerpicata, esistono fasce di cittadini disagiati per i quali la questa appare
inaccessibile, e nomadi rom che non rinunciano a tradizioni che di postmoderno
hanno ben poco. La geografia della postmodernità è, in effetti, una geografia
urbana che interseca quella politica senza combaciare con essa. Va precisato
infine che persino nella stessa città, sia questa una città che presenta i tratti della
postmodernità, i suoi abitanti non saranno egualmente coinvolti dagli elementi
della configurazione postmoderna, e lo saranno in modo diverso nel corso delle
loro diverse attività, più o meno affini con questa configurazione. Gli ambiti della
vita delle persone sono esposti al vento della postmodernità in modo differenziato.
Una volta costruito lo strumento analitico della configurazione postmoderna, si
possono introdurre in modo analogo le configurazioni della modernità e della
premodernità. Queste due ulteriori categorie serviranno ad illustrare per contrasto
le specificità della prima, facendo attenzione a non oggettivare la sequenza
premodernità-modernità-postmodernità alla stregua d’uno sviluppo lineare nel
tempo, desiderabile e necessario in tutte le società; è altresì d’uopo specificare che
le società non sono isolate tra loro, anzi lo sono sempre meno, ragion per cui la
permanenza di società dai tratti agricoli e premoderni non deve suggerire l’idea di
luoghi dove il tempo si è fermato: le condizioni di un mondo agricolo d’altri
periodi storici sono irriproducibili nella contemporaneità, poiché questi non si
trovano più ad interagire con mondi altrettanto agricoli ma bensì con società
tecnologiche, e per lo più da posizioni a queste subalterne.
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Come avremo modo di vedere più avanti, la postmodernità non riguarda solo le
persone e le società che la vivono, ma tutto il sistema mondo, recuperando la
calzante espressione di Wallerstein (1992), creando imponenti difficoltà alle
società ed agli individui che ne sono esclusi; con il termine postmodernità cioè,
intendiamo un fenomeno che si estende in tutto il mondo, producendo una rosa di
conseguenze assai variegata, all’interno della quale la “configurazione
postmoderna” rappresenta solo la parte più visibile, tecnologica e spettacolare.
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III) Le configurazioni
Adoperiamoci adesso per inquadrare le già menzionate configurazioni della
modernità e delle sue sorelle, la premodernità e la postmodernità. L’idea della
premodernità rimanda a quel che era il mondo occidentale prima degli
sconvolgimenti provocati e sfociati nella rivoluzione industriale, in quella
francese, nell’indipendenza statunitense e nel progetto illuministico. Il mondo che
i primi antropologi europei cercavano nelle colonie, immobilizzato nel presente
etnografico e reso simulacro del passato perduto dal vecchio continente. La
moltitudine d’assetti sociali appartenente ad un così vasto insieme richiede,
perché la categoria di premodernità, così come la vogliamo intendere in queste
pagine, possa contribuire utilmente all’analisi, di banalizzarne le enormi
differenze interne ed estrarne le dimensioni in cui sembrano operare le fratture più
profonde col mondo moderno e postmoderno. Il primo elemento ad entrare nella
configurazione premoderna è la netta predominanza, al suo interno, dell’economia
agricola; il basso livello tecnologico non permette la coltivazione di tipo
industriale meccanizzata. A questo tipo d’economia corrisponde una percezione
del tempo, per così dire, “naturale”, guidata dai ritmi dei campi, del sole e delle
stagioni; una demografia ad alta natalità ed alta mortalità. Esistono scambi
commerciali, ma sono limitati, e l’attività produttiva si volge in gran parte
all’autoconsumo di sussistenza; la mobilità è scarsa: sia nello spazio geografico,
complice l’atrofia della rete stradale e delle infrastrutture, sia nello spazio sociale;
la prospettiva più comune per l’attore è quella di vivere per sempre nel luogo che
l’ha visto nascere, incastrato nella posizione sociale ereditata dalla famiglia.
Esiste, si, un movimento migratorio, ma si tratta, come illustra S.Sassen riguardo
all’Europa antecedente il ventesimo secolo (Sassen 1999), di migrazione
stagionale su distanze relativamente brevi. Il quadro è completato dalla presenza
di sistemi politici non democratici e sistemi culturali fortemente impregnati di
religiosità e superstizione; si tratta di società in cui non sono protette le libertà
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civili e non vi è ombra di un universalismo dei diritti, civili, politici e sociali; la
società è rigida, i ruoli sociali sono ascritti e fissi. Passiamo ora ad un’altrettanto
breve esposizione della modernità. L’economia della modernità è industriale, il
secondo settore occupa la maggior parte della forza lavoro e genera il grosso del
reddito nazionale; i beni prodotti sono di massa, il commercio in grande
espansione e tendente al libero scambio, all’abbattimento delle barriere
protezionistiche. La massificazione non si manifesta solo nel consumo: il lavoro,
organizzato secondo le logiche del taylorismo e del fordismo, implica la
coordinazione dei ritmi di vita degli occupati; si tratta della tipica settimana
lavorativa di 40 ore, dal lunedì al venerdì, con le ferie (nel caso italiano) ad
agosto. Non ultimi, vengono massificati i diritti politici e sociali; la democrazia
tutela le libertà fondamentali dei cittadini, garantisce l’universalità della
partecipazione politica, disconosce ogni tipo di discriminazione (almeno in linea
di principio) basata su sesso, razza e religione, ed instaura un imponente sistema
di garanzie sociali denominato welfare state. La massificazione riceve un
considerevole stimolo dalla demografia, che vede una netta diminuzione della
mortalità, cui il tasso di natalità s’adegua con un ritardo che determina un periodo
di forte incremento della popolazione. La democrazia si organizza in stati nazione
sovrani, l’enorme incremento degli investimenti si concretizza nell’aumento del
livello infrastrutturale e tecnologico; in questa situazione di fermento si assiste
inoltre all’incremento della mobilità, sia nello spazio fisico che in quello sociale.
L’obiettivo principale di queste società è la crescita della produzione e degli altri
indicatori economici. Per quanto concerne, invece, la percezione del tempo,
questo muta profondamente essendo quantificato e sottomesso alla logica
produttiva industriale ed a quella amministrativa burocratica; il tempo moderno è
precisamente quantificato e scandito dal ritmo delle macchine. L’amministrazione
della modernità, più complessa della premodernità, avviene tramite una crescita
degli apparati burocratici tale da indurre M.Weber a preconizzare l’avvento d’una
inquietante gabbia d’acciaio (Weber 1961), metafora con cui voleva intendere la
rigida regolamentazione burocratica di ogni singolo aspetto della vita, anche i più
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marginali, un’ipertrofia dell’organizzazione totalizzante dalla quale, come da una
gabbia, non esiste via d’uscita. Un ultimo elemento della modernità al quale è
opportuno prestare attenzione, è il vigore delle grandi meta-narrazioni, delle
grandi interpretazioni della storia e della società atte a fornire valori e schemi di
comportamento; la lotta tra due di queste, il marxismo ed il capitalismo, ha
segnato la modernità con un marchio indelebile. Gli autori sulla postmodernità,
confrontando quest’ultima con la modernità, spesso pongono l’accento sulla
sicurezza, sociale ed ideologica, che la modernità forniva e fornisce ai suoi
abitanti, in virtù del welfare state e delle metanarrazioni provenienti da prestigiosi
attori istituzionali e collettivi; l’istruzione gratuita ed obbligatoria, il posto di
lavoro fisso e non di rado vitalizio, la certezza della pensione nonché la comodità
di avere un’interpretazione sensata ed accettabile del mondo elaborata nelle
metanarrazioni, accompagnavano l’individuo dalla culla alla senilità, mettendolo
al riparo da insicurezze e dubbi esistenziali. Si è molto dibattuto sul destino che la
postmodernità ha in serbo per questa struttura di senso e sicurezza sociale: ci si
chiede se sopravviverà o sarà demolita dal mutamento, ed eventualmente da cosa
potrà essere soppiantata, se si spalancheranno d’improvviso baratri di solitudine
ed incertezza o nuovi panorami di libertà ed autorealizzazione. Molti ricercatori
concordano sulla tendenza della postmodernità di incrinare questa struttura, ma
divergono sulla valutazione di questo fenomeno; i critici mettono in risalto la
condizione di solitudine, incertezza ed ansia di senso in cui la postmodernità
getterebbe gli individui, i sostenitori della postmodernità, al contrario,
preferiscono soffermarsi sui panorami di libertà ed autorealizzazione. A questo
proposito è illuminante il pensiero di C.Taylor (1994): secondo l’autore
l’individualismo è una conquista, con esso gli uomini hanno ottenuto il diritto di
decidere da sè il proprio modo di vita, le proprie convinzioni, non sono più
sacrificati a presunti ordini sacri e tascendenti. Ma questi non erano solo dei
limiti, erano pure ordinamenti in grado di dare un senso al mondo ed alle attività
della vita sociale. Il loro discredito è il disincanto del mondo, la perdita della
magia e del mistero.
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Il tramonto della superstizione s’accompagna all’avvento della ragione
strumentale, efficientistica: si sgretola la catena dell’essere e le cose che in essa
trovavano una collocazione rischiano di divenire merci, strumenti, oggetti. Il
quadro che abbiamo qui brevemente delineato non pretende in alcun modo di
essere un’analisi della modernità, è piuttosto un elenco minimale dei tratti salienti
della modernità, necessaria premessa ad un discorso articolato sulla post-
modernità. Puntualizziamo una volta di più che, essendo la premodernità e la
modernità che ho abbozzato, come la postmodernità che ancora devo descrivere,
delle categorie analitiche prive d’un referente esattamente coincidente, sono
incompatibili ed autoescludenti solo in quanto categorie assolute: all’atto pratico è
possibile scorgere, in ogni società, elementi d’ognuna delle tre configurazioni;
esse traggono ispirazione dalla storia europea ed occidentale, ed è quindi lecito
aspettarsi che le variazioni più marcate da questi standard siano riscontrabili in
Asia, Africa e SudAmerica.
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IV) Modernizzazione e postmodernizzazione secondo R.Inglehart
R.Inglehart (1998) sta conducendo una grande survey, raccogliendo dati, da
parecchi anni, in 43 paesi; lo scopo di siffatta indagine è monitorare l’andamento,
la diffusione o l’eventuale regresso, d’una costellazione di valori che definisce
postmoderni. Egli parla, in effetti, di processo di postmodernizzazione, più che di
postmodernità, e punta ad illustrare le corrispondenze tra evoluzione economica,
politica e culturale. La sua ricerca parte negli anni ‘70, inizialmente limitata a soli
6 stati dell’Europa occidentale, divenuti 22 nella decade successiva, per approdare
agli oltre 40 attuali. La teoria ricavata dallo studioso sulla base dei dati empirici
raccolti in questa lunga ricerca si focalizza su due processi: la modernizzazione,
vista come sforzo teso al conseguimento del benessere economico e imperniata su
valori materialistici, e la postmodernizzazione, cioè lo spostamento dei valori su
basi postmaterialiste, il perseguimento del benessere non più concepito come
corollario della performance economica. La discriminante in grado di orientare le
società sull’una o sull’altra di queste vie consiste, secondo l’autore, nel livello di
sicurezza sociale in cui sono cresciuti gli attori; individui sottoposti fin dalla
giovinezza a carenze e privazioni sono mediamente più sensibili ai valori materiali
della ricchezza e della sicurezza fisica, mentre giovani cresciuti nella sicurezza e
nel relativo agio economico, essendo abituati a questi e dandolo dunque per
scontato, volgono piuttosto la loro attenzione a valori postmaterialisti, quali, ad
esempio, l’ecologia opposta all’industrializzazione selvaggia, la libertà sessuale
opposta alla stabilità della famiglia nucleare fondata sul matrimonio; la
costellazione dei valori postmaterialisti, così come è intesa da Inglehart,
concepisce il benessere in modo più vasto, slegandolo dai vincoli col reddito, con
la solidità materiale che sono il principale obiettivo degli sforzi di
modernizzazione. Seguendo una traiettoria temporale ideale, le società, con
l’industrializzazione, attraversano un periodo di forte crescita che richiede
un’organizzazione efficiente, segnando il passaggio dai valori tradizionali
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(potremmo dire premoderni), abitualmente religiosi, ai valori legal-razionali
dell’ordine e del progresso quantificati in produzione, nella vita economica,
politica e sociale. La crescita industriale che si è innescata (a meno di crisi in
grado di bloccare il processo) arriva al punto da incontrare una diminuzione
proporzionale del valore d’ogni ulteriore crescita, per la legge dell’utilità
marginale decrescente. Questo momento corrisponde al raggiungimento della
sicurezza sociale, ed allo spostamento sui valori di stampo postmoderno. Con
questo non si vuole suggerire che il mutamento sociale sia prevedibile con
precisione; più realisticamente, certe sindromi del mutamento economico, politico
e culturale, vanno di pari passo lungo traiettorie che sono coerenti ad altre che
sono più probabili. Nel lungo periodo, considerando numerosi paesi ed una volta
che certi processi si sono avviati, è prevedibile che avvengano alcuni importanti
mutamenti. L’industrializzazione, per esempio, tende ad incrementare
l’urbanizzazione, ad aumentare la specializzazione occupazionale e stimolare il
raggiungimento di più alti livelli d’educazione (Lerner 1958, Deutsch 1964).
Industrializzazione, urbanizzazione, scolarizzazione e specializzazione sono
alcuni degli elementi che Inglehart considera basilari del processo chiamato
modernizzazione; vi si aggiungano la burocratizzazione, lo sviluppo delle
infrastrutture dei trasporti e delle comunicazioni, una certa democratizzazione ed
un periodo di boom demografico. Se la prospettiva di Inglehart appare fin troppo
meccanica nel momento in cui connette con vincoli di necessità
industrializzazione e democratizzazione, in quanto sintomi di una stessa sindrome
da modernità, la sua analisi possiede il pregio di non considerare il passaggio dalla
modernità alla postmodernità come un mutamento monodirezionale o necessario.
Nel suo modello, la postmodernità si presenta come un ricettario di caratteristiche
cui le società possono tendere, ma anche dal quale si possono allontanare, qualora
si presentassero elementi di crisi sociale od economica; in questo senso egli cita il
caso della Russia, nella quale, i dati della survey, hanno indicato un regresso
considerevole dei valori legati alla postmodernità in seguito al crollo del regime
sovietico (che, trascinando con sé nel suo tracollo il tenore di vita degli abitanti,
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ha provocato un considerevole aumento del valore marginale dei beni materiali, e
dei valori materialisti ad essi legati). Ispirandosi, sulla scia di Axelrod (1985), alle
teorie evoluzioniste, Inglehart risponde a chi lo accusa di etnocentrismo o
teleologia: certamente, sostiene, numerose traiettorie e configurazioni devianti dal
modello modernizzazione-postmodernizzazione sono state e saranno seguite, ma
quello che le rende meno probabili ed ha fino ad ora provocato il loro abbandono
è la minore competitività sullo scenario globale di questi assetti, senza attribuire
alcun valore morale a ciò che per competitività si intende. In questo senso, non era
necessario che tutta la varietà antica di società di raccoglitori si convertisse
all’agricoltura sedentaria, ma sarebbe risultato inevitabile la loro conversione
forzata da parte delle società avviate su questa strada.
Coltivare e pascolare produce molte più calorie per acro che cacciare animali
selvaggi o raccogliere frutti selvatici. Come risultato, la densità demografica
delle società agricole e di pastorizia è in genere almeno dieci volte superiore
che in quelle basate sulla caccia e la raccolta. Questo non significa che i
contadini sono più felici, più sani, o in qualche modo superiori ai cacciatori-
raccoglitori, ma sono tuttavia molto numerosi. E questo è sufficiente a
portarli ad uccidere o a sostituire i cacciatori-raccoglitori. Infine, solo in una
società contadina – che immagazzina il cibo e vive concentrata in villaggi –
la gente ha la possibilità di specializzarsi (…) producendo spade e pistole..
(Diamond 1993).