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rimanere al passo coi tempi, con una cultura frenetica e competitiva che non
favorisce la riflessione e la decisione ponderata, abilità fondamentali per
l’apprendimento, almeno per come viene inteso dalla maggior parte degli
insegnanti. Il risultato di questo stato di cose spesso è un rapporto tra genitori-
mondo del lavoro-società da una parte e insegnanti-istituzioni educative
dall’altra più o meno conflittuale e contraddittorio.
Qualora il problema più urgente nel bambino sia proprio lo scarso
autocontrollo, le ragioni di tale carenza sono le più diverse. Può accadere che la
responsabilità del comportamento inadeguato del bambino sia uno stile
educativo genitoriale troppo permissivo e trascurante o autoritario, mentre in
altri casi la vivacità temperamentale di alcuni ragazzi può risultare mal
contenuta dalle insufficienti abilità di gestione della classe di taluni insegnanti.
A volte invece, specie quando il bambino appare emotivamente immaturo
rispetto ai coetanei ed estremamente impulsivo e movimentato, non è più
possibile rintracciarne le cause nella scarsa disciplina impartita a casa e/o a
scuola. La seguente lettera è stata inviata al sito internet AIDAI (Associazione
Italiana Disturbi da Deficit d’Attenzione/Iperattività) dalla mamma di un
bambino presumibilmente “diverso”.
“Fin dai primi giorni di vita R. (…) era un bambino che dormiva pochissimo e
piangeva e si agitava molto (…). A tre anni lo iscriviamo alla scuola materna,
vivacissimo, esuberante, non accettava le regole ma bene o male riusciva ad avere un
comportamento accettabile. A casa per insegnargli le regole fondamentali del buon
vivere bisognava stargli dietro come un carabiniere. (…) I problemi sono sorti a
settembre con l’inizio dell’anno scolastico. Le maestre nei primi 15 giorni ci chiamavano
tutti i giorni. Definivano (…) nostro figlio inadeguato, intollerabile, “non normale”.
Mio figlio non è mai stato aggressivo, piuttosto giocherellone e
il suo comportamento
per me non è nella norma, ma lui è normale. Quando arrivavamo a scuola trovavamo
nostro figlio trattenuto dai polsi da un bidello a braccia incrociate (…) che urlava,
scalciava e sputava (…). Quando a R. scattava qualcosa, reagiva malissimo, tentando di
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scappare dalle porte d’emergenza non lasciando forse scelta alle insegnanti che,
preoccupatissime, lo dovevano trattenere fisicamente. Siamo arrivati a novembre e le
insegnanti sono rimaste “incapaci” di gestirlo (…). I genitori degli altri bambini non
capiscono cosa succede in classe chiedono una riunione. (…) Nel frattempo ha
cominciato una terapia psicologica, la neuropsichiatra gli ha diagnosticato: sospetta
fobia scolare (mah!!). Nessuno si sofferma a osservare il suo comportamento, vedono
solo le reazioni negative. Il suo problema è l’irrequietezza, si sforza così tanto di stare
attento che perde la concentrazione, fa cadere le penne, sembra che si trattenga.. si
trattiene e poi esplode, lancia le cose, non sente i richiami delle insegnanti. R. fuori dalla
scuola è un bambino estroverso, parla fin troppo e facilmente con tutti, non è per niente
timido, anzi osa fin troppo, ama gli amici, è generoso e coccolone. Mia suocera dice
sempre che mio marito era tale e quale a lui (
forse è nei geni). (…) Ecco secondo me con
l’aiuto dei genitori, della famiglia (…) il bambino iperattivo può diventare una grande e
bella persona, col tempo riuscirà a conciliare la sua esuberanza con gli schemi della vita
sociale, se non lo si mortifica, se la si smette di considerarlo “cattivo”, “pestifero”, allora
riuscirà ad uscire dal suo ruolo e a crearsene”.
Come si può evincere da questa testimonianza, quando l’irrequietezza, la
distraibilità e l’incapacità di seguire le regole sono caratteristiche rilevanti e
radicate della personalità del bambino, non è più possibile rintracciarne le cause
in una presunta inadeguatezza genitoriale o in generale educativa. Il dolore e la
disillusione che traspaiono da lettere come quella esaminata sono la prova che
lo smarrimento di genitori, insegnanti e dei bambini stessi è reale –anche se poi
ciascuno vi reagisce in modo diverso.
Se le ricadute dell’atteggiamento del bambino sono così pesanti sull’ambiente
sociale da compromettere gravemente le relazioni con i genitori, gli insegnanti e
i pari, e da oscurare le potenzialità che il bambino potrebbe altrimenti
esprimere, la causa del problema potrebbe risiedere nell’interazione dinamica
tra le caratteristiche dell’ambiente socio-educativo specifico e le peculiarità
psicologiche e costituzionali del soggetto. È dunque necessario tentare di
comprendere il problema più in profondità, e ipotizzare la presenza di un
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disturbo del comportamento, cioè di un’anomalia, in eccesso o in difetto, che
può riguardare la frequenza, l’intensità e/o la durata di un’azione o di una serie
di azioni. Il disturbo del comportamento in questione è il Disturbo da Deficit
d’Attenzione /Iperattività, una sindrome neuropsichiatrica che, secondo il
DSM-4 (APA, 1994), è caratterizzata da due aspetti -o dimensioni- cardine che
corrispondono ad anomalie rispetto al funzionamento dei bambini non affetti
dal disturbo: la disattenzione e l’iperattività-impulsività.
In generale le caratteristiche discriminanti del Disturbo da Deficit
d’Attenzione/Iperattività (in inglese ADHD, Attention Deficit/Hyperactivity
Disorder) possono essere delineate nel modo seguente: a scuola il bambino con
SDA (Sindrome da Deficit Attentivo) spesso non riesce a prestare la dovuta
attenzione, lavora in modo disorganizzato e ha molte difficoltà in compiti che
richiedono un elevato livello di concentrazione; a casa le difficoltà a
concentrarsi e l’impulsività si traducono nell’incapacità di seguire le istruzioni,
nella disorganizzazione delle attività ludiche o lavorative e nella difficoltà a
svolgere compiti impegnativi secondo una sequenza fissa di azioni. Un’altra
caratteristica dell’ADHD è l’iperattività che, pur non presente in tutti i casi,
viene descritta come l’eccessivo correre, il saltare, l’arrampicarsi, il non riuscire
a stare seduti, ecc (Kirby e Grimley, 1989).
Descritti come sopra, i sintomi dell’ADHD sembrano ricalcare le difficoltà che
molti bambini in età prescolare incontrano quando devono affrontare attività
prolungate e ripetitive, stare fermi nella stessa posizione per molto tempo,
aspettare il proprio turno per parlare o giocare. La differenza sostanziale tra i
bambini piccoli e i bambini con ADHD risiede nel fatto che questi ultimi, oltre a
essere più grandi, mantengono un comportamento immaturo anche quando
cominciano la scuola, e perciò vengono precocemente segnalati dalle insegnanti
(APA, 1994).
Una riflessione che sorge spontanea è il fatto che è naturale osservare nei
bambini un’ampia variabilità comportamentale, e quindi incontrare bambini
più o meno vivaci ed estroversi, così come bambini diversamente timidi,
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educati, riservati e così via. Per descrivere i bambini (ma anche gli adulti) si
potrebbe dunque tracciare un continuum tra il polo calmo-ben organizzato e il
polo irrequieto-inattento (Sandberg, 1996; Epstein, et al., 1991): i bambini con
ADHD si troverebbero all’estremità della dimensione irrequietezza-
inattenzione. Tale distinzione ha una conseguenza sul modo di considerare i
bambini iperattivi, in quanto inaugura un nuovo punto di vista: il bambino con
ADHD, seppure affetto da una grave patologia del comportamento, non è altro
che la manifestazione umana di una variabilità caratteriale potenzialmente
infinita. Il problema in sostanza risiede in parte nelle capacità dell’ambiente di
contenere i problemi estrinsecati dal bambino iperattivo: si può perciò parlare
di un problema di soglia di tolleranza e quindi, per dirla con le parole di
Hanker e Whalen (1989), l’ADHD potrebbe essere interpretato come un
disturbo transazionale frutto dell’interazione geni/ambiente (Prior, 1991).
In realtà, finché non si hanno contatti con bambini diagnosticati come affetti
dal disturbo, è difficile comprendere la complessità di questa pervasiva
sindrome del comportamento. Il contatto con le persone che soffrono di disturbi
psichici, pur con tutte le cautele, è fondamentale per un futuro psicologo
nonché formativo per la propria crescita spirituale e morale.
Al di là degli interventi che si possono progettare per un bambino con
ADHD, l’imperativo è soprattutto quello, durante le fasi di conoscenza,
valutazione e trattamento, di non dimenticare che si sta parlando di un
bambino, per cui è necessario considerarlo in tutta la sua complessità e dignità
di essere umano in via di sviluppo, e non solo in relazione ai suoi sintomi e
problemi. Pertanto, i pregi e le potenzialità di un bambino devono essere messi
sulla bilancia per ottenere una conoscenza realistica e globale del caso, e per
sviluppare un intervento che prenda il via da quegli ambiti in cui egli ottiene
dei successi. Questa attenzione è importante non solo per rinforzare fin da
subito il bambino per quello che sa fare, ma anche per stimolare la motivazione
al trattamento.
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PARTE PRIMA
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Capitolo 1
Acquisizioni di ricerca
1. DESCRIZIONE GENERALE DELLA SINDROME
L’ADHD è un disturbo del comportamento a carattere pervasivo, che influisce
sulla personalità intera del bambino che ne soffre e sul contesto in cui questi
vive; può produrre un grave disadattamento sociale e scolastico; un disturbo
duraturo o meglio un disturbo dello sviluppo (Prior, 1991), il cui impatto sul
bambino e sull’ambiente insorge precocemente e può incontrare mutamenti con
la crescita, sia in positivo che in negativo. Ancora, la sindrome iperattiva è
meglio specificata dalla presenza di tre aspetti caratteristici: disattenzione,
impulsività e iperattività. Infine, sembra che l’ADHD abbia una componente
genetica, non ancora ben chiarita, che è probabilmente causa di un’anomalia
funzionale del cervello.
La storia dell’ADHD è piuttosto lunga tanto che alcuni pensano che questo
disturbo sia il prodotto dell’evoluzione del comportamento adattivo umano.
L’ipotesi avanzata da Thom Hartmann è impostata proprio in questo senso: in
base ad essa, quelli che attualmente vengono definiti come i sintomi dell’ADHD
dovevano essere proprietà vantaggiose in una società preagricola. Si immagini
un mondo pieno di insidie, dove è vitale sondare continuamente l’ambiente in
cerca di prede e ancor di più essere pronti a scattare non appena la selvaggina
o, peggio, un predatore, sbuchi da un cespuglio: in una società siffatta, la
mancata considerazione dei pericoli cui il cacciatore si esponeva era il prezzo da
pagare per procurasi il cibo: impulsività e aggressività erano dunque proprietà
favorevoli. Tali caratteristiche sono diventate svantaggiose all’avvento della
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rivoluzione agricola, e ancor di più lo sono oggi, in una società stratificata e
tecnologica, dove la pianificazione e le capacità di problem-solving sono abilità
necessarie per conseguire il successo nella vita (Alison e Munden, 2001).
Le prime testimonianze dell’esistenza di bambini e adulti con Disturbo
dell’Attenzione risalgono al 1902 quando un medico inglese, Frederic Still,
descrisse un bambino dalle “condizioni fisiche abnormi” e con un “deficit nel
controllo morale”. La sindrome che Still delineò più approfonditamente sul
<<Lancet>>, si distingueva per la presenza di un deficit nell’attenzione
prolungata, anomalie neurologiche, movimenti coreiformi, anomalie congenite
minori, irrequietezza, aggressività, difficoltà nel rispetto delle regole e
distruttività (Arcelus e Munden, 2001).
Nel 1937 Bradley, uno studioso americano, descrisse come l’anfetamina -e i
farmaci stimolanti in genere - potesse essere efficace nei bambini iperattivi e/o
con disturbi del comportamento: questa scoperta diede impulso alle ricerche su
tali disturbi, tra cui l’ADHD, i disturbi della condotta e l’opposività, e contribuì
allo sviluppo di scale di valutazione e questionari atti a predire o stimare gli
effetti dei farmaci (Rapaport e Ismond, 2000). Negli anni ’60 e ’70 la diagnosi di
ADHD e la prescrizioni di farmaci stimolanti divennero pratiche comuni tra i
pediatri negli USA, mentre rimasero eventi rari in Europa, dove l’uso dei
farmaci era considerato con sospetto dagli operatori della salute mentale
(Arcelus, Munden, 2001).
Nella lettera riportata in introduzione la madre avanza l’ipotesi che l’ADHD
abbia un’origine genetica, e pare proprio che sia vero: una parte delle
problematiche attentive e cognitive dei bambini iperattivi è probabilmente
frutto di una predisposizione genetica, che può dar luogo ad alterazioni
neurochimiche, neurofisiologiche, metaboliche, funzionali e forse strutturali del
cervello. D’altra parte già agli inizi del ‘900 molti ricercatori avevano avanzato
l’ipotesi che l’iperattività fosse l’esito di un danno cerebrale acquisito, forti delle
scoperte fatte sui primati con lesioni sperimentali. Credendo che tutti i casi di
iperattività fossero frutto di lesioni o alterazioni funzionali del cervello molti
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studiosi iniziarono a indicare i bambini con tali problemi come affetti da
“Disfunzione Cerebrale Minima”, incappando però in un fondamentale errore
logico (Di Pietro, Bassi e Filoramo, 2001). Infatti, tale espressione non tiene
conto delle distinzioni che esistono tra fenomeni biologici e psicologici, per cui
“non ci sono dati che indichino che cervello e sistema nervoso siano i loci del
funzionamento mentale” (Perini e Bijou, 1993). Negli ultimi anni tale termine è
caduto in disuso come entità clinica e neuropsicologica, e si preferisce usare
categorie nosografiche che trascurano i criteri patogenetici concentrandosi sulle
descrizioni fenomenologiche (Sechi, 1995).
La prima etichetta diagnostica del disturbo apparve sul DSM-2, il Manuale
Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (APA, 1968) sviluppato e usato dagli
psichiatri e psicologi americani, e suonava come “Reazione ipercinetica” a
testimonianza del modo in cui era concepito il problema: il sintomo
fondamentale della sindrome si pensava fosse l’iperattività, cioè l’eccesso di
movimento (Cornoldi et al., 2001).
Nella successiva edizione del DSM, il DSM-3, venne inserita una sezione
specificamente dedicata ai disturbi infantili, “Disturbi Solitamente Diagnosticati
per la Prima Volta Durante l’Infanzia e l’Adolescenza”, e l’ADHD assunse la
nomenclatura attuale “Disturbo da Deficit dell’Attenzione (ADD) ”, in quanto
le acquisizioni della ricerca avevano portato evidenze a favore di uno
spostamento dell’interesse dai sintomi comportamentali a quelli cognitivi
(Fedeli, 2003).
Con la pubblicazione del DSM-3-R non si riscontrarono mutamenti sostanziali
nella definizione diagnostica, e l’ADHD divenne il disturbo infantile più
studiato al mondo, con oltre 6000 interventi compresi articoli scientifici, saggi e
manuali (Cornoldi et al., 2001).
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Nel 1994, con l’uscita dell’ultima edizione del DSM, la quarta, il Disturbo da
Deficit d’Attenzione/Iperattività è stato ridefinito in base alla suddivisione
attuale in due costellazioni di sintomi: disattenzione e iperattività/impulsività.
Nella decima edizione della Classificazione Internazionale delle Malattie (ICD),
pubblicata nel 1992 dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’ADHD viene
etichettato con il termine “Sindrome Ipercinetica”. Il motivo per cui l’etichetta
diagnostica è diversa rispetto a quella usata dal DSM-4 è frutto della maggior
rilevanza attribuita al sintomo iperattività, dovuta alla scarsa intelligibilibità dei
dati provenienti dalle ricerche sui processi mentali che determinerebbero la
sindrome, e che testimoniamo per un ruolo sempre più centrale del disturbo
dell’attenzione nella genesi della stessa (OMS, 1992).
Sindrome Ipercinetica, Minimal Brain Disfunction, Minimal Brain Damage,
Reazione Ipercinetica del bambino, Disturbo da Deficit d’Attenzione e infine
Disturbo da Deficit d’Attenzione/Iperattività (Torrioli, 2001): queste sono, per
concludere, le denominazioni che in successione storica sono state usate per
indicare questa sindrome complessa.
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1. 1. Questioni diagnostiche
In cosa consiste la procedura diagnostica e quali ne sono le funzioni? Che
ruolo hanno i manuali diagnostici nella redigere una diagnosi? Per rispondere a
queste e ad altre domande, è necessario inanzi tutto dare una definizione dei
concetti di diagnosi e categoria diagnostica.
Le categorie diagnostiche riconosciute dalle comunità scientifiche
internazionali sono descrizioni cliniche che riassumono ciò che psichiatri e
psicoterapeuti incontrano nella pratica quotidiana con i pazienti, compresa la
storia naturale del disturbo in questione, le manifestazioni oggettive, gli aspetti
inerenti la familiarità nonché le informazioni sullo sviluppo della malattia.
Inoltre, grazie alle categorie contenute nei sistemi diagnostici “il caso individuale
viene collegato ad altri casi simili, riunendo l’insieme dei fattori biologici, psicologici e
sociali e dando loro un significato nella peculiarità della relazione clinica” (Rapaport e
Ismond, 2000). Infatti, secondo Munden e Arcelus (2001), isolando un gruppo di
pazienti che mostra i medesimi sintomi è possibile:
1. individuare la probabile causa dei sintomi;
2. prevedere il probabile decorso della malattia;
3. decidere quale trattamento è verosimilmente il più efficace.
Le diagnosi sono dunque strumenti che garantiscono una relativa uniformità
di trattamento per i pazienti, e inoltre sono essenziali per favorire la
comunicazione tra i centri di ricerca, i clinici della salute mentale, gli altri
professionisti che a vario titolo si occupano delle utenze e i loro parenti più
prossimi.
Le informazioni che costituiscono le varie diagnosi sono raccolte nei manuali
diagnostici: questi sono guide dall’intento esclusivamente classificatorio, come i
manuali di tassonomia, e pertanto non consentono spiegazioni causali dei
disturbi elencati, proprio perché hanno “lo scopo di fornire una struttura
organizzativa per classificare le informazioni cliniche descrittive sia introspettive, sia
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biologiche e sociali” (Rapaport e Ismond, 2000). Ne consegue che il DSM-4 e l’ICD
10 consentono di accostare le osservazioni condotte sul caso singolo alle
descrizioni fornite dai manuali e convalidate da studi con pazienti di tutti -o
quasi- i paesi del mondo.
I sistemi classificatori si possono concepire come istantanee dello stato di
conoscenza riguardante un determinato disturbo, e oltre alle informazioni circa
le sue manifestazioni e caratteristiche (criteri diagnostici specifici), forniscono
dati che gettano luce su eventuali associazioni con altre condizioni mediche,
psicopatologiche e sociali, sulla prevalenza nella popolazione, sul decorso e
sulla prognosi, nonché sul grado di menomazione causato dal disturbo. Ancora,
vengono forniti dati circa possibili reperti medici che possono dare maggiori
garanzie di una diagnosi accurata e completa, né sono trascurate quelle
caratteristiche di età (età media di esordio), cultura e genere tipicamente
collegate al disturbo, come pure le possibilità di diagnosi differenziale. Inoltre
sono riportate le fonti e gli strumenti con cui è più agevole raccogliere tutte le
informazioni utili a delineare la diagnosi. Infine, viene tracciato un confronto
tra i dati forniti dal DSM-4 e quelli previsti dall’ICD-10 per la stessa sindrome
(APA, 1994).
Comorbidità e diagnosi differenziale sono due concetti fondamentali per la
procedura diagnostica. Con il primo termine si intende la possibilità che ad un
determinato disturbo si associno manifestazioni tipiche di uno o più disturbi,
diversi da quello primario, e di entità tale da giustificarne una segnalazione
completa o parziale accanto alla diagnosi principale; con il secondo ci si riferisce
invece alla possibilità che le caratteristiche associate ad una certa diagnosi siano
in realtà manifestazioni di una condizione patologica diversa.
Senza alcuna pretesa di fornire spiegazioni causali certe (Rapaport e Ismond,
2000), i manuali diagnostici talvolta indicano alcuni fattori o variabili, sia
ambientali che genetici, che possono favorire l’emergere di un particolare
disturbo. Tali fattori possono accelerare l’esordio di una sindrome clinica
(fattori di rischio) e non di rado sono complicati da condizioni ulteriori che
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aggravano la prognosi, a breve e/o a lungo termine. Esistono tuttavia anche
condizioni o tratti di personalità che proteggono l’individuo dall’insorgere della
malattia (fattori protettivi) e risorse personali o sociali/relazionali, che
favoriscono un più rapido e duraturo recupero (resilience) (Palmonari, 1993).
Tutte queste informazioni (insieme ad altre specifiche per il caso singolo) sono
indispensabili per progettare il trattamento, che deve essere predisposto in
modo da favorire un significativo miglioramento della qualità della vita del
paziente.
Una volta che il clinico ha raccolto dati a sufficienza tali da fornire un quadro
completo delle condizioni del paziente, occorre che egli registri le sue
osservazioni in una modalità condivisibile, un codice utile a informare i suoi
colleghi circa il problema primario del caso in questione. Questo problema è
stato risolto in maniera parzialmente analoga dai manuali diagnostici più
diffusi, il DSM-4 e l’ICD-10, tanto che entrambi classificano i disturbi
specificandone i diversi aspetti su più assi o dimensioni, sebbene l’ICD-10 si
distingua dal manuale americano per l’uso di alcune categorie multiple (OMS,
1992). Gli Assi del DSM-4 sono cinque, di modo da rendere conto del fatto che è
l’interazione tra fattori di rischio biologici, psicologici e ambientali a facilitare
l’esordio di un disturbo psichico. Ciascun Asse consente di segnalare una
condizione specifica e cioè:
Asse I: inquadramento delle sindromi cliniche e delle altre condizioni che
possono essere oggetto di attenzione clinica;
Asse II: per l’inquadramento dei Disturbi di Personalità e del Ritardo Mentale;
Asse III: inquadramento delle condizioni mediche generali;
Asse IV: registrazione dei problemi psicosociali e ambientali;
Asse V: valutazione globale del funzionamento (Rapaport e Ismond, 2000).
Anche l’ICD-10 ha una struttura multiassiale, e le funzioni dei singoli assi
sono simili a quelle esaminate per il DSM-4, se non che i Disturbi di Personalità
sono inclusi tra le “Sindromi cliniche psichiatriche” (asse I), mentre il Ritardo
Mentale è codificato su una dimensione separata. Ancora, le difficoltà di
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apprendimento, i disturbi dell’eloquio, del linguaggio e delle capacità motorie
sono riportati su di un singolo asse che include appunto le “Sindromi e Disturbi
da alterazione specifica dello sviluppo psicologico” (OMS, 1992).
I sistemi diagnostici sono dunque un prerequisito irrinunciabile per il
progresso scientifico della psichiatria infantile, poiché sono frutto di ricerche
che continuamente vengono condotte su un disturbo o un gruppo di disturbi, e
inoltre costituiscono lo stimolo grazie al quale molti ricercatori continuano a
indagare sulle malattie mentali per trovare risposte alle questioni irrisolte.
Ancora, i sistemi di diagnosi sono il prodotto delle discussioni circa la
separatezza (Rapaport, Ismond, 2000) o la continuità tra diverse etichette
diagnostiche, che possono dunque essere considerate o meno entità discrete,
cioè concrete e reali. Ne deriva che alcuni disturbi, considerati attualmente
entro il medesimo gruppo di diagnosi (ad esempio l’ADHD rientra nella
categoria sovraordinata dei “Disturbi da Deficit d’Attenzione e da Comportamento
Dirompente”) potrebbero in futuro rientrare in categorie in tutto o in parte
diverse, con importanti ricadute sul trattamento consigliato.