2
Nei lunghi anni in cui il Giappone aveva goduto di pace e di
prosperità si erano create le premesse indispensabili per lo sviluppo di
una struttura sociale in cui la classe mercantile potesse sostituirsi alla
classe militare nell’assumere un ruolo sociale di primo piano. La città
di Edo si era notevolmente ingrandita e aveva conquistato il primato
di fulcro economico del paese grazie all’opera dell’attiva classe
borghese. La presa di coscienza da parte di artigiani e mercanti,
tradizionalmente disprezzati perché appartenenti alla classe dei
chōnin
4
(町人) ma notoriamente ricchi e scaltri, diede luogo
all’affermazione della loro indipendenza sociale e culturale. Essi
presero il sopravvento determinando l’affermazione di uno stile di vita
popolare e naturalmente anche di un’arte popolare, vera interprete dei
gusti di un’epoca.
Il Giappone non avvertiva la necessità di stringere rapporti d’amicizia
e di scambio commerciale con gli altri paesi, ma a causa delle
pressioni esercitate in questo senso da parte del governo americano si
vide costretto ad aprire i propri porti e a dare l’avvio ad una
importante serie di riforme. Al primo trattato commerciale, che fu
stipulato nel 1858, ne seguirono altri che decretarono la fine del suo
isolamento e l’inizio del suo progressivo adattamento ai modelli dei
4
Gli abitanti di conglomerati urbani che non fanno parte dell’aristocrazia. Il termine veniva usato
soprattutto per indicare gli artigiani e, in special modo, i mercanti, che appartenevano al più basso
livello della scala sociale.
3
paesi occidentali, della cui cultura esso divenne importatore e anche, a
discapito di innate tendenze xenofobe, rapido assimilatore.
Fino ad allora il mondo occidentale non aveva avuto modo di operare
una netta distinzione tra le diverse culture dell’Estremo Oriente,
limitandosi a percepirle come un insieme di luoghi esotici e misteriosi
il cui fascino derivava principalmente dalla loro lontananza e, quindi,
dalla scarsità di informazioni dettagliate a riguardo.
La scoperta della realtà giapponese da parte degli occidentali avvenne
grazie al tramite dell’arte. Fu in seguito all’importazione di mobili,
lacche, stampe e tessuti provenienti dal Giappone che ebbe inizio la
moda per le cose giapponesi. Chi poteva permettersi gli acquisti più
costosi e stravaganti sceglieva di arredare la propria abitazione con
oggetti e con criteri derivati dal Sol Levante. Diversamente da quelle
che la precedettero, questa nuova moda non fu altrettanto breve, né
superficiale. L’arte e lo spirito del Giappone trovarono ampia
diffusione e apprezzamento soprattutto presso paesi come la Francia e
la Gran Bretagna. In questi paesi molti artisti avevano intrapreso un
cammino di ricerca che consentisse loro di svincolarsi dai limiti posti
dai canoni estetici convenzionali. Il comune obiettivo era quello di
conquistare il diritto alla piena autonomia artistica, affermando la
soggettività dell’arte e, così facendo, ponendosi in forte contrasto col
sistema vigente. Negando le regole accademiche e ricercando altrove,
4
presso epoche e culture lontane, l’ispirazione che permettesse loro di
accelerare i già avviati processi rinnovatori dell’arte essi operarono un
progressivo distacco dalla società la quale, del resto, incoraggiò fin da
subito la loro emarginazione.
La consapevolezza della necessità di separare l’opera d’arte dalla
tradizionale funzione di rappresentazione della realtà oggettiva segnò
il superamento del naturalismo e l’inizio di un nuovo modo di fare
arte. L’apertura del Giappone avvenne in concomitanza con la nascita
di questa tendenza al rinnovamento, che per il suo pieno sviluppo
necessitava di nuove suggestioni. Nulla affascinava più dell’arte e
dell’artigianato di un Paese che era rimasto nascosto agli occhi del
mondo per così tanto tempo e che ora, provvidenzialmente, poneva
fine al suo isolamento e rivelava un prezioso messaggio che parlava di
semplicità e di spontaneità. Quando negli artisti occidentali maturò la
capacità di acquisire, interiorizzare e rielaborare le caratteristiche dello
stile nipponico, appropriandosi dei suoi mezzi espressivi e imparando
a farne uso in modo personale, ebbe origine il fenomeno del
Giapponismo, che fu ben più complesso e profondo rispetto
all’esotismo sviluppato dagli artisti dell’accademia, per i quali
attingere da nuovi modelli significava essenzialmente imitarli in modo
superficiale.
5
1.2 La nascita del Giapponismo
Il japonisme, termine coniato dal critico francese Philippe Burty, che
ne fece riferimento per la prima volta in una serie di articoli pubblicati
nel 1872 e nel 1873 nella rivista La Renaissance littéraire et
artistique, si affermò inizialmente in Francia. Fu questo il paese che
ebbe il primato del maggior numero di divulgatori del Giapponismo in
Europa. Dalla Francia, il culto del Giappone si diffuse poi in
Inghilterra e, col passare degli anni, anche negli altri paesi europei.
Un grande promotore dell’arte giapponese fu, prima ancora di Burty,
il grafico e disegnatore su ceramica Félix Bracquemond. Alla sua
leggendaria scoperta, avvenuta nel 1856, di un volume dei manga
(漫画), vale a dire album di schizzi, di Katsushika Hokusai è da
attribuirsi il particolare sviluppo del suo stile, che nel 1867 culminò
nella realizzazione di un servizio di porcellana dipinto secondo i
modelli dei manga.
Bracquemond e Burty condividevano con altri artisti dell’epoca la
consuetudine di radunarsi per parlare dell’arte orientale, di come essa
veniva recepita in Occidente e dei vantaggi che potevano derivare
dall’utilizzo dei suoi modelli. I fratelli Goncourt, considerati i
maggiori critici del loro tempo, furono al centro dei gruppi promotori
del Giapponismo per oltre trent’anni a partire dalla metà
6
dell’Ottocento, contribuendo a far conoscere ed apprezzare le
xilografie giapponesi. Edmond de Goncourt è particolarmente
ricordato per i suoi scritti su Utamaro
5
ed Hokusai.
Il contributo del mercante d’arte Siegfried Bing, infine, fu decisivo.
Bing, che era figlio di un ceramista tedesco, aprì la sua prima bottega
d’arte orientale a Parigi nel 1871. Il suo scopo era quello di
promuovere l’arte giapponese. Il successo ottenuto dalla sua attività
commerciale gli consentì di aprire un secondo negozio nel 1875.
La clientela di Bing, di cui facevano parte anche personaggi come
Edmond de Goncourt e Vincent Van Gogh, era attratta in special
modo dal gran numero di stampe e di libri illustrati di cui egli
disponeva costantemente. Riconoscendo che Parigi era diventata il
centro europeo in fatto di stampe ukiyoe (浮世絵), il governo
giapponese decise di mandare qualcuno a sovrintenderne le vendite.
Nel 1878 arrivò dal Giappone l’interprete Hayashi Tadamasa,
6
che era
un conoscitore e un collezionista di stampe come lo stesso Bing. Nel
1884 Hayashi aprì un suo negozio che fu frequentato anche da Monet,
da Van Gogh e da Lautrec, quindi collaborò con Edmond de Goncourt
alla stesura del suo volume su Utamaro, che fu pubblicato nel 1891.
7
5
Kitagawa Utamaro (1753-1806). Incisore giapponese, specializzato nella rappresentazione di
bijinga (美人画 ), belle donne ritratte in modo sensuale e idealizzato.
6
Impiegato presso la più famosa compagnia d’esportazioni giapponese.
7
Cfr. ZATLIN GERTNER, Linda, Beardsley, Japonisme and the perversion of the Victorian
ideal, Cambridge, Cambridge University Press, 1997, p. 34.
7
Nel frattempo, Bing aveva iniziato la pubblicazione della rivista
illustrata Le Japon artistique, pubblicata contemporaneamente in
francese, inglese e tedesco a partire dal 1888, il cui intento consisteva
nell’insegnare a guardare l’arte giapponese con la giusta prospettiva,
cioè quella giapponese. L’opera di maestri come Hokusai veniva
analizzata e descritta nei saggi dei maggiori collezionisti di stampe
che, in virtù delle proprie conoscenze, erano in grado di insegnare al
pubblico ad apprezzare le caratteristiche di un’arte tanto diversa da
quella occidentale ma non per questo inferiore.
La passione per le giapponeserie, vale a dire per gli oggetti e i motivi
giapponesi, fu alimentata soprattutto dalle ripetute Esposizioni
Universali che ebbero il merito di educare, non senza commettere
imprecisioni, all’arte e alla cultura di paesi lontani e in parte ancora
sconosciuti come la Cina e il Giappone.
L’Esposizione Universale tenutasi a Londra nel 1862 fu un evento
determinante ai fini della diffusione dell’arte giapponese in Occidente.
Sebbene la partecipazione del Giappone non fosse ufficiale, una
sezione a parte dell’Esposizione era dedicata ai manufatti giapponesi.
Questi provenivano in gran parte dalla collezione privata di Sir
Rutherford Alcock, il primo console generale in Giappone, che era un
grande estimatore delle arti decorative nipponiche ed ebbe il merito di
scrivere il primo volume dedicato al design giapponese: Art and Art
8
Industries in Japan, del 1878, decisivo per la diffusione dell’interesse
per l’arte giapponese. Per la mostra del 1862 egli raccolse
sistematicamente pezzi da esporre, così come aveva già fatto quando,
in qualità di console a Shanghai, aveva procurato oggetti cinesi per la
Fiera di Londra del 1851.
8
Tra i pezzi che egli mandò dal Giappone
ne figurarono molti d’uso comune quali ombrelli, lanterne di carta,
zoccoli di legno. Ad ogni modo, a prodotti artistici come tessuti,
lacche, bronzi, armature, stampe e libri illustrati fu dato maggior
rilievo.
La Fiera del 1862 fu visitata da membri dell’ambasciata giapponese in
Europa, che nel loro rapporto al governo giapponese sottolinearono i
vantaggi economici derivanti dall’esibire i manufatti autoctoni alle
Esposizioni Internazionali. Questo portò al coinvolgimento del
Giappone nelle successive Esposizioni, a cominciare dall’Exposition
Universelle di Parigi del 1867. Il contributo giapponese alla mostra
ottenne un grande successo. L’inusuale e quanto mai raffinata bellezza
degli oggetti d’arte provenienti dal Giappone rese il pubblico
entusiasta. Al termine della mostra molti oggetti giapponesi restarono
a Londra, dove furono venduti da una ditta. La vendita fu affidata ad
Arthur Lasenby Liberty, che alcuni anni dopo avrebbe aperto
l’omonimo negozio specializzato in articoli orientali.
8
Cfr. WATANABE, Toshio, High Victorian Japonisme, New York, Peter Lang, 1991, p.89.
9
L’Esposizione di Parigi del 1878 vide la partecipazione di duecento
sessantadue espositori del Giappone raccolti in un padiglione
appositamente costruito dal governo giapponese, che in questo modo
intendeva assecondare il crescente interesse dimostrato dal mondo
Occidentale.
Tra i maggiori sostenitori del Giapponismo in Gran Bretagna figurava
il designer industriale Christopher Dresser, nato a Glasgow nel 1834,
convinto assertore del fatto che bellezza e utilità devono essere
inscindibili. Il suo impiego presso il museo londinese di South
Kensington (ora Victoria & Albert Museum), che nel 1872 accolse un
gruppo di giapponesi mandati in Europa ad imparare come allestire
musei ed esposizioni di tipo moderno in Giappone, gli fornì
l’opportunità di osservare da vicino un gran numero di oggetti d’arte
nipponici e di incontrare persone inviate dal governo Giapponese.
Dalla sua lunga permanenza in Giappone del 1876, che gli consentì di
visitare un gran numero di fabbriche dove si producevano ceramiche,
tessuti, mobili e oggetti di metallo, Dresser apprese i valori
fondamentali dell’arte orientale. La purezza delle linee e la semplicità
delle forme dell’arte giapponese ispirarono in modo evidente lo stile
delle sue creazioni successive, guadagnandogli la reputazione di
promotore dell’arte giapponese in Europa. Il volume intitolato Japan.
Its Architecture, Art and Art Manufactures, datato 1882, dà una
10
misura della grande ammirazione di Dresser nei confronti dell’arte e,
soprattutto, dell’architettura del Giappone. Quest’ultima non
riscuoteva molto favore presso gli Occidentali che, ritenendo le case
tradizionali giapponesi troppo fragili e infiammabili e disapprovando i
templi perché dedicati a divinità estranee alla religione cristiana, si
precludevano la possibilità di cogliere il loro fascino e la loro
particolare bellezza. Il grande influsso esercitato dal Giappone sulla
Gran Bretagna nella seconda metà dell’Ottocento conobbe diverse
fasi, la prima delle quali avvenne negli anni Sessanta. In questo
periodo gli artisti iniziarono a ricercare e a collezionare gli oggetti e le
opere d’arte giapponesi. Questa prima fase fu caratterizzata da un
vivace interesse dei britannici nei confronti del Giappone, che
vedevano in esso un’immagine speculare della Gran Bretagna. I due
paesi, infatti, pur essendo geograficamente e culturalmente agli
antipodi erano accomunati da caratteristiche peculiari. La più evidente
tra queste era rappresentata dal fatto che entrambe le nazioni erano
isole, ed essendo tali erano riuscite a difendersi dagli attacchi esterni
preservando la propria identità. Inoltre, sia il Giappone che la Gran
Bretagna si basavano su un sistema classista all’interno del quale
l’aristocrazia rivestiva un ruolo privilegiato. Il fatto che alcuni aspetti
del Giappone moderno presentassero similitudini con la Gran
Bretagna medioevale attirava le simpatie degli artisti inglesi, che
11
erano ostili all’industrializzazione perché imputavano ad essa, ma più
specificatamente allo sterile meccanismo della produzione in serie, lo
scadimento qualitativo delle arti applicate. Le idee di designer e di
critici influenti come John Ruskin
9
e William Morris,
10
che vedevano
nel Medioevo un periodo storico ideale in cui gli artigiani potevano
creare pezzi unici di incomparabile valore estetico seguendo il proprio
gusto piuttosto che i dettami della moda o le esigenze del mercato,
ebbero un forte impatto su artisti e architetti dell’epoca che andarono
formando gruppi come la Confraternita dei preraffaeliti
11
e la Arts &
Crafts Society, il cui comune intento consisteva nel recuperare i valori
artistici medioevali al fine di dare un nuovo impulso alle stagnanti arti
contemporanee. L’immagine del Giappone moderno che si era andata
formando negli ambienti artistici britannici era alquanto idealizzata e
presentava delle affinità con l’altrettanto idealizzata visione che si
aveva dell’Europa del periodo medioevale. Il processo di tipo
industriale che, solo pochi decenni prima, aveva permesso
all’occidente di velocizzare le sue attività produttive, destinando però
9
John Ruskin (1819-1900), scrittore e critico d’arte inglese. Rivalutò i pittori primitivi italiani,
basandosi sul concetto del valore religioso e morale dell’arte.
10
William Morris (1834-1896). Scrittore e designer inglese, assertore di teorie architettoniche e
decorative innovative, era convinto che l’attività dell’artista potesse trovare una giusta
collocazione nelle arti applicate.
11
Movimento artistico fondato dai pittori Hunt e Millais e da altri artisti minori nel 1848. I
preraffaeliti si opponevano alla società industriale e alle convenzioni vittoriane, mirando al
recupero di un’arte spontanea, ispirata alla natura, in tutto simile a quella dei pittori che
precedettero Raffaello (di qui il nome del movimento).
12
il lavoro artigiano a un ruolo sempre più marginale e dando
contemporaneamente l’avvio al degrado dell’ambiente non aveva
ancora coinvolto il lontano Giappone il cui isolamento, se da una parte
aveva contribuito a farne un paese vulnerabile perché
tecnologicamente poco sviluppato rispetto ai paesi europei, dall’altra
ne aveva preservato le tradizioni e la spontaneità.
Le similitudini tra Giappone ed Europa medioevale interessavano
quanto mai la sfera dell’arte. Le analogie stilistiche tra l’arte
giapponese e quella gotica, entrambe dedite alla rappresentazione del
mondo delle piante, dei fiori e degli uccelli, erano evidenti agli occhi
dei primi estimatori dell’arte nipponica.
12
Il perdurare di uno stato “medioevale” aveva permesso al Giappone di
preservare le proprie arti, soprattutto quelle decorative, dal declino a
cui non avevano potuto sottrarsi quelle occidentali.
Per l’arte europea, che intendeva riappropriarsi dei valori del
Medioevo in risposta ai profondi cambiamenti portati
dall’industrializzazione, l’arte giapponese rappresentò il modello più
consono da cui trarre ispirazione e insegnamento.
La seconda fase del Giapponismo in Gran Bretagna avvenne negli
anni Settanta. L’opera di artisti e designers iniziò a manifestare i segni
12
Cfr. Max Put, Plunder and pleasure. Japanese art in the West 1860-1930, Hotei publishing,
2000, p. 13.
13
dell’influsso dell’estetica giapponese, un’estetica dominata
dall’asimmetria, dalla piattezza dei colori e dalla semplicità delle
forme. Nel frattempo, il modo di percepire il Giappone in Gran
Bretagna stava subendo rapidi mutamenti che mettevano in risalto
l’atteggiamento ambivalente dei britannici nei confronti del popolo
giapponese. Ai primi entusiasmi suscitati dalla singolarità dell’arte e
dall’artigianato del Giappone si affiancarono ben presto la diffidenza e
il disprezzo, sentimenti che le barriere rappresentate dalle differenze
linguistiche contribuirono non poco ad alimentare. Poiché i canoni
occidentali erano i soli criteri di giudizio ritenuti validi, la teoria
dell’inferiorità razziale dei giapponesi, formulata sulla base di
constatazioni superficiali e razziste che riguardavano la condizione
preindustriale del Giappone e l’aspetto fisico del popolo giapponese fu
comunemente accettata. La Gran Bretagna, forte della propria
superiorità economica e tecnologica, non metteva in dubbio che il
proprio stile di vita e le proprie convenzioni sociali fossero migliori
rispetto a quelle delle lontane, incomprensibili culture asiatiche.
Col passare del tempo la rapida industrializzazione del Giappone, che
stava trasformando radicalmente il paese e di cui i britannici si erano
resi in parte responsabili, iniziava a rappresentare una seria minaccia
per questi ultimi che assistevano alla nascita di un concorrente
disposto a sacrificare le proprie tradizioni pur di competere con le altre
14
potenze. Nel giro di venti anni il Giappone era riuscito a modificare il
suo aspetto esteriore, e la sua nuova immagine non era rassicurante
per molti occidentali che preferivano coltivarne una idealizzata,
lontana dalla realtà. La realtà era che in Giappone il modello
britannico stava gradualmente soppiantando quello autoctono: vestiti
in luogo dei kimono, istituzioni rese simili a quelle europee, realismo
in arte e persino svaghi che ricalcavano palesemente i corrispettivi
britannici.
I britannici non tardarono a manifestare una certa intolleranza anche
nei riguardi dell’arte visiva giapponese, troppo diversa da quella
occidentale nel suo approccio al mondo fisico e soprattutto nel suo
modo di trattare la figura umana, che mancava delle proporzioni
armoniose proprie dell’arte classica. Inoltre, molte stampe giapponesi
rappresentavano scene erotiche o prostitute colte in un momento di
vita quotidiana nel bordello: soggetti che in epoca vittoriana venivano
considerati inaccettabili a causa del loro contenuto scabroso e della
loro assoluta mancanza di valori morali.
Per quanto riguarda le arti applicate giapponesi, esse conobbero una
sorte ben diversa. Oggetti dal design austero e quasi astratto quali
spade, lacche o netsuke,
13
(根付け) che non potevano certo
13
Grande bottone che trattiene all’obi (帯) oggetti quali la tabacchiera, la scatola per il sigillo, il pennello
portatile. E’ intagliato in materiali pregiati quali avorio, corallo, ambra.
15
rappresentare una minaccia al puritanesimo e che, diversamente dalle
stampe ukiyoe, per essere apprezzati non richiedevano profonde
conoscenze storiche e culturali del Giappone, divennero il fulcro del
collezionismo specializzato e contribuirono alla riformulazione dei
principi del design in Europa.