8
pertanto di un elemento meritevole di una attenta considerazione, poiché
la questione della esistenza degli obblighi in precedenza menzionati
costituisce uno degli aspetti della questione del troppo precipitoso ricorso
a contromisure unilaterali.
Approfondire questi aspetti, poi, conduce contemporaneamente a valutare
alcuni dei caratteri fondamentali appartenenti alle contromisure che
risultano essere rivelatori della loro natura, come, a titolo esemplificativo,
la loro temporaneità o definitività.
Agli obblighi differenti dall’esperimento di mezzi di regolamento
amichevole delle controversie eventualmente sorte fra Stati sono state per
molto tempo riservate dalla dottrina solamente alcune brevi osservazioni,
anche se , ad onor del vero, questo non è più vero per quel che riguarda
la dottrina contemporanea1. Ci si è limitati nella generalità dei casi
solamente a richiamare l’esigenza di una preventiva intimazione a riparare
rivolta allo Stato presunto autore dell’atto illecito commesso. Si è ripetuto
che se lo Stato leso voleva adottare delle contromisure doveva procedere
preliminarmente ad una sommation, come stabilito nella sentenza arbitrale
Naulilaa2. La rapidità della osservazione poteva indurre a pensare che non
vi fosse altro da aggiungere.
1
Zoller: Peacetime unilateral remedies: an analysis of countermesures, New York, 1984; De
Guttry: Le rappresaglie non comportanti la coercizione militare nel diritto internazionale,
Milano, 1985; Sicilianos: Les réactions décentralisées à l’illicite, Parigi, 1990; Alland: Justice
privée et ordre juridique international, Parigi, 1994; Focarelli: Le contromisure nel diritto
internazionale generale, Milano, 1994; Gianelli : Adempimenti preventivi all’adozione di
contromisure internazionali, Milano, 1997.
2
Sentence arbitrale du 31 juillet 1928 concernant la responsabilité de l’ Allemagne à raison des
dommages causés dans les colonies portugaises du Sud de l’ Afrique, RIAA, V.II, pp. 1013 -
1033.
9
Tuttavia riguardo alla specifica e concreta determinazione dell’obbligo di
intimazione, il semplice richiamo alla sommation appare insoddisfacente.
Molto frequentemente il contenuto dell’obbligo non era oggetto di indagine
e la sua esistenza veniva affermata in termini assai generici.
Alla regola, infatti, si ponevano a volte diverse limitazioni senza alcuna
altra apparente motivazione che non fosse l’applicazione di un criterio di
ragionevolezza, cosa che faceva arrivare alle più disparate soluzioni.
La varietà delle eccezioni poste alla regola fa sorgere il dubbio che si
siano volute ricondurre sotto un’unica fattispecie ipotesi di atti illeciti e di
contromisure aventi caratteri ben differenti le une dalle altre, ipotesi
rispetto alle quali l’obbligo di intimazione, assolvendo finalità differenti,
potrebbe assumere contenuti distinti.
L’affermazione nell’affare Naulilaa dell’obbligo di intimazione induce poi
ulteriormente a domandarsi in primo luogo se qualche forma di obbligo
non fosse già precedentemente venuta in essere nel diritto internazionale
generale e, in secondo luogo, se la regola formulata in quella decisione
non abbia subito successive evoluzioni. Effettivamente l’epoca
contemporanea continua a registrare importanti sviluppi a cui potrebbe
ricollegarsi il modificarsi delle norme consuetudinarie.
L’importanza di un’indagine di questo tipo è evidenziata inoltre dal dibattito
concernente la liceità dell’esperimento di contromisure in presenza di
obblighi di regolamento amichevole delle controversie sorte fra Stati,
cosa che porta a valutare ulteriormente l’esistenza di limiti alla facoltà del
soggetto internazionale di procedere all’autotutela. Questa materia appare
10
di conseguenza meritevole di approfondimenti nella prospettiva della
costruzione di un quadro generale delle condizioni che lo Stato leso deve
adempiere prima di poter fare ricorso all’adozione di contromisure.
Nel presente lavoro, quindi, verranno analizzate innanzitutto le
contromisure come reazioni alla commissione di atti illeciti internazionali
da parte di uno Stato nei confronti di un altro Stato, specificandone in
primo luogo il significato, il loro possibile contenuto, le modalità di
esercizio ed i loro limiti di applicazione, esaminando costantemente in due
piani paralleli le teorie formulate dalla dottrina e la loro evoluzione nel
tempo e l’abbondante prassi sviluppatasi in materia.
Tenendo sempre presente, poi, che oggetto principale di questa analisi
sono gli adempimenti a cui lo Stato che si pretende leso dalla
commissione dell’illecito è tenuto nel caso in cui abbia intenzione di fare
ricorso alle contromisure, si esaminerà per prima cosa il tradizionale
obbligo di sommation, al fine di identificare il suo contenuto specifico, i
suoi possibili significati in rapporto alle differenti specie di illeciti e di
contromisure, e il suo possibile ambito di attuazione. Si prenderanno
quindi in esame le norme relative ai procedimenti di regolamento
amichevole delle controversie, per analizzare la loro influenza sulla facoltà
di esperire contromisure, e, più specificatamente, se queste creino degli
obblighi o altre situazioni giuridiche soggettive in capo allo Stato leso.
Nella seconda parte del presente lavoro, poi, il fine essenziale sarà quello
di organizzare ed esaminare i dati raccolti per cercare di delineare un
possibile quadro generale degli adempimenti necessari per la lecita
11
adozione di contromisure. Gli esiti di questo tipo di lavoro tenderanno a far
emergere alcune considerazioni riguardanti la natura e la funzione proprie
delle contromisure in generale e di alcuni tipi in particolare.
L’analisi sarà quindi portata a compimento attraverso l’esame degli
adempimenti preliminari a contromisure conseguenti alla violazione delle
norme che pongono obblighi erga omnes ed inoltre ai c.d. crimini
internazionali commessi dagli Stati. Si cercherà in questo caso di
considerare se la natura e la struttura delle norme primarie possa causare,
e di fatto causi, una modifica degli adempimenti preventivi messi in
evidenza riguardo alle contromisure conseguenti alla commissione di
illeciti considerati ordinari.
12
CAPITOLO PRIMO
“IL CONCETTO DI CONTROMISURA COME REAZIONE AGLI ILLECITI
INTERNAZIONALI”
13
PRIMO PARAGRAFO
LE CONTROMISURE COME ESERCIZIO DI AUTOTUTELA
NEL DIRITTO INTERNAZIONALE
L’ordinamento internazionale è, per sua natura, poco evoluto, in
particolar modo se viene messo a confronto con i sistemi giuridici
nazionali. Tra i diversi fattori che concorrono a creare una simile
situazione, uno assume un’importanza non indifferente ed è il fatto che
non esistono, a tutt’oggi, nel diritto consuetudinario meccanismi
istituzionali sovranazionali in grado di assicurare efficacemente
l’adempimento degli obblighi internazionali da parte degli Stati, siano
questi obblighi di natura consuetudinaria o, al contrario, convenzionale. La
conseguenza immediata è che il rispetto delle norme internazionali è
essenzialmente affidato alla volontaria osservanza da parte degli Stati
stessi. Nel corso degli ultimi decenni, sono stati operati, in particolar modo
a partire dall’entrata in vigore della Carta delle Nazioni Unite, numerosi
tentativi di conferire ad organismi internazionali, sia a carattere regionale
che universale, il compito tanto delicato quanto arduo di garantire che
l’attività’ statuale si conformasse a determinati principi e norme di diritto
internazionale3. Ne è pertanto conseguita l’istituzione di organizzazioni
internazionali le quali, peraltro, non sempre hanno soddisfatto le
aspettative suscitate. Ne sono un esempio significativo le Nazioni Unite,
14
alle quali era stata conferita la responsabilità’ principale del mantenimento
della pace e della sicurezza internazionale, la cui istituzione aveva
sollevato in tutta la comunità’ internazionale aspettative ben presto andate
deluse. La possibilità’ di ricorso al diritto di veto all’interno del Consiglio di
Sicurezza, infatti, unitamente alla mancata attuazione del meccanismo più’
strettamente militare previsto dalla Carta a completamento del sistema di
sicurezza collettiva, hanno reso di fatto impossibile lo svolgimento da
parte delle Nazioni Unite di quel delicato compito che le era stato affidato
dagli Stati convenuti a San Francisco nel 1945.
Ancora ai nostri giorni, di conseguenza, quanto avviene a questo
proposito nella società’ internazionale si distingue nettamente da quanto
accade, invece, all’interno dei singoli Stati. Mentre infatti in questi ultimi il
potere è solitamente concentrato alla sommità’ di una piramide,
consistente, di regola, nel governo, nella comunità’ internazionale, al
contrario, questo è suddiviso orizzontalmente tra tutti i membri che
compongono la comunità stessa.
La conseguenza più’immediata che se ne può’ trarre è che ogni singolo
Stato nelle proprie relazioni internazionali dispone di un potere
discrezionale che, nella generalità dei casi, non è sottoposto al controllo di
alcuna autorità’ superiore. Questa è una caratteristica che si manifesta in
tutta la sua evidenza nel momento in cui si verifica una violazione da parte
di uno Stato delle norme internazionali. In tale caso, infatti, come negli
ordinamenti più’semplici all’interno dei quali la reazione all’illecito della
controparte è essenzialmente affidata all’iniziativa della parte offesa, allo
3
Forlati Picchio: La sanzione nel diritto internazionale, Padova, 1974, p.137 ss.
15
stesso modo nell’ordinamento internazionale sarà’ principalmente lo Stato
leso da un comportamento illecito a doversi attivare al fine di rimuovere gli
atti contra jus e le conseguenze che questi hanno prodotto. Pertanto nelle
relazioni fra Stati in un ordinamento come quello internazionale privo di un
sistema accentrato di garanzia dell’attuazione delle norme, la normale
reazione alla commissione di un atto illecito altrui è l’autotutela, o, per
usare una terminologia ancora più’ semplice e diretta, il “farsi giustizia da
sé”. E’ questa, a tutt’oggi, la regola principale nel diritto internazionale,
data la scarsa efficienza e credibilità’ dei mezzi di attuazione coattiva del
diritto4.
4
Conforti: Diritto internazionale, Napoli, 1995, p.355.
16
PARAGRAFO SECONDO
IL DIVIETO DI USO DELLA FORZA
Un principio fondamentale del diritto che regola i rapporti fra gli Stati
è che l’autotutela non può’consistere nella minaccia o nell’uso della forza,
vietati sia dall’art.2, par.4, della Carta delle Nazioni Unite, che ora anche
dallo stesso diritto internazionale consuetudinario. Per quel che concerne
in particolare l’art.2, par.4, della Carta delle N.U., senza dubbio i termini in
cui è posto il divieto sono decisamente più’ ampi delle disposizioni
analoghe ad esso precedenti. Il divieto, infatti, non concerne
esclusivamente la guerra, peraltro neppure in esso menzionata, ma l’uso
della forza in generale, ed anche la sola minaccia di essa; riguarda un uso
della forza che pregiudichi “l’integrità’ territoriale o l’indipendenza politica
di ogni Stato” o che, comunque, si prospetti “non aderente ai propositi
delle Nazioni Unite”. La Carta, infatti, tra i fini enunciati nel suo art.1,
include, oltre al mantenimento della pace e della sicurezza internazionale
ed allo sviluppo delle relazioni amichevoli, anche la cooperazione per la
soluzione dei problemi internazionali di natura economica, sociale,
culturale, umanitaria, oltreché’ la promozione ed il rispetto dei diritti
dell’uomo e delle libertà’ fondamentali. Appare chiaro quanto il
collegamento fra le due norme della Carta allarghi i confini dell’ambito di
efficacia del divieto.
17
Nonostante vari tentativi di sostenere tesi più’ riduttive, il divieto assoluto
di rappresaglia armata deve intendersi tuttora vigente. Nelle ipotesi, infatti,
in cui gli Stati o gli organi delle Nazioni Unite hanno preso posizione
riguardo ad un caso di uso o di minaccia di forza, questi hanno sempre
giustificato, o perlomeno tentato di giustificare, il ricorso a tale forza
ricorrendo alle nozioni di attacco armato e di legittima difesa o di stato di
necessita’, ma mai a quello di rappresaglia.
Tuttavia, nonostante le varie e numerose interpretazioni, l’unica espressa
eccezione all’art 2.4 della Carta delle Nazioni Unite è costituita da quello
che l’art. 51 della stessa definisce come “the inherent right of individual or
collective self-defence if an armed attack occours”.
Sono numerosi pero’ i dubbi che rimangono in dottrina sulla definizione
delle ipotesi di aggressione diverse dall’attacco armato, e delle azioni
lecite a titolo di legittima difesa. In effetti i confini fra l’ipotesi di
rappresaglia armata e quelle di legittima difesa sono lontani dall’essere
ben precisati. Entrambe le figure, infatti, vengono considerate come due
specie del genere autotutela; entrambe consistono in azioni il ricorso alle
quali diviene lecito in seguito alla commissione di un illecito, che nella
legittima difesa è costituito, appunto, dall’aggressione armata.
Gli aspetti che differenziano invece le due fattispecie sarebbero
rappresentati dal fatto che la legittima difesa, oltre ad avere un particolare
tipo di illecito che ne costituisce il presupposto, appunto l’attacco armato,
è caratterizzata da uno scopo essenzialmente difensivo e un’azione che
18
necessita di immediatezza5.Tuttavia vi è chi, già’ sul piano teorico,
sostanzialmente nega l’esistenza di qualsiasi differenza tra le due
fattispecie, affermando che la legittima difesa, individuale o collettiva che
sia, a cui si riferisce l’art.51 della Carta, costituisca “una sanzione
permessa dal diritto generale a difesa di un proprio diritto a che gli altri
Membri si astengano dalla minaccia o dall’uso della forza contro qualsiasi
Stato”6.
Ma è soprattutto la prassi che ha messo in evidenza quanto sia spesso
poco facile giudicare se un certo comportamento rientri nella definizione di
rappresaglia armata o in quella di legittima difesa ed in particolar modo
quando l’azione sia stata adottata in conseguenza di una violazione di
sovranità’ territoriale. Questa difficoltà’ è stata fortemente causata sia dalla
passata prassi del Consiglio di Sicurezza, sia dal comportamento degli
Stati stessi che, evidentemente, hanno trovato nell’invocazione della
legittima difesa una spesso comoda giustificazione al loro operato. Questo
ha portato una parte della dottrina ad affermare la liceità’ di azioni armate
se rispondenti ad alcuni requisiti, senza chiarire, pero’, se si trattava di
forme di legittima difesa o, invece, di vera e propria rappresaglia armata.
Questa dottrina ha poi individuato tali requisiti nella proporzionalità’ e nella
ragionevolezza risultante da numerose circostanze come, a titolo
esemplificativo, il previo e prolungato tentativo di regolamento amichevole
5
Bowett: Self defence in international law, University Press, Manchester, 1964, p.13. Lamberti
Zanardi: La legittima difesa nel diritto internazionale, Milano, 1972, p.131-135. De Guttry: Le
rappresaglie non comportanti la coercizione militare nel diritto internazionale, Milano, 1985,
pp.27-33.
6
Conforti: Diritto internazionale, Napoli, 1995. p.361.
19
delle controversie, nonché la continua offerta di una composizione che
sembri essere giusta ed attenta agli interessi della Nazione avversaria7.
Da tutte queste considerazioni, viene posto in evidenza come le reazioni
armate vengano spesso ancora qualificate come rappresaglie pacifiche,
nel senso, chiaramente limitativo, di misure non costituenti atti di guerra.
Viene addirittura affermato che le rappresaglie sarebbero sempre una
misura pacifica di regolamento delle controversie in quanto non
potrebbero mai comportare l’uso della forza, giustificabile solo in base ad
altre ben precise esimenti.
Tuttavia, nonostante le impostazioni brevemente accennate rivolte ad
affermare la liceità’ di qualche misura di rappresaglia armata, nella prassi
contemporanea resta decisa, in primo luogo da parte degli Stati stessi, la
riaffermazione dell’illiceità’ di qualsiasi tipo di rappresaglia armata. Gli
Stati, infatti, per giustificare la propria condotta, significativamente non
hanno mai invocato la facoltà’ di esercizio di rappresaglie armate, ma
hanno evocato, in modo quasi costante, altre esimenti. Lo stesso
Consiglio di Sicurezza, ha poi in alcuni casi ribadito in maniera esplicita il
divieto di rappresaglia armata.
Questa precisa volontà’ di mantenere fermo il divieto risulta poi, in
maniera inequivocabile, in particolare in diversi atti di natura non
vincolante, importanti proprio perché da essi emerge chiaramente la
posizione degli Stati. Essi infatti impediscono di ritenere caduto, anche
tramite norme consuetudinarie di contenuto contrario, il divieto di
rappresaglia armata. A titolo di esempio si può’ ricordare l’esplicito “dovere
7
Bowett: Reprisals involving recourse to armed force, in AJIL, 1972, p.1 ss.
20
di astenersi da atti di rappresaglia consistenti nell’uso della forza” incluso
nella “Dichiarazione sulle relazioni amichevoli” dell’Assemblea Generale
del 1970 senza obiezioni e, anzi, con l’esplicita approvazione di più’Stati8,
e la “Dichiarazione sul non-intervento”9, sempre dell’Assemblea Generale,
del 1980 in cui è inserito lo stesso dovere.
A livello regionale, il divieto di rappresaglia armata ha trovato conferma
anzitutto nei vari trattati conclusi fra gli Stati americani, fra i quali il più’
esplicito può’ senz’altro essere considerato il “Patto di Bogotà’” concluso
nel 1948 nel cui art.1° le parti contraenti “agree to refrain from the threat or
the use of force, or from any other means of coercion for the settlement of
their controversies, and to have recourse at all times to pacific
procedures”10.
Particolarmente significative appaiono poi le opinioni espresse dagli Stati
nella sesta Commissione dell’Assemblea Generale, a commento dei lavori
della Commissione di Diritto Internazionale in tema di responsabilità’ degli
Stati. Si erano avute dichiarazioni esplicite di condanna delle rappresaglie
armate già’ in occasione della discussione dell’art.30 prima parte del
Progetto, e dell’art.12 seconda parte proposto dal Riphagen. Durante il
dibattito tenutosi nel 1992, il divieto di rappresaglia armata proposto da
Arangio - Ruiz ha ricevuto un’attenzione minoritaria, segno che tale divieto
è considerato ormai unanimemente come norma consolidata, su cui si
8
De Guttry: Le rappresaglie, cit., pp. 202 - 206.
9
Risoluzione 36/103 del 9 dic. 1981, in RDI, 1982, pp. 445 ss., 448.
10American treaty on pacific settlement, firmato a Bogotà il 30 aprile del 1948 ed entrato in
vigore nel 1949. Testo in UNTS, p. 84 ss.
21
rileva l’opinione concorde di tutte le componenti della società’
internazionale11.
E’ intervenuta poi anche la Corte Internazionale di Giustizia a ribadire
esplicitamente il divieto in questione nella sentenza “Military and
paramilitary activities in and against Nicaragua (Merits)”. Essa ha ritenuto
particolarmente significativa la già’ menzionata “Dichiarazione sulle
relazioni amichevoli”, non solamente ai fini della reiterazione dell’art. 2.4
della Carta delle N.U., ma anche della emergenza di una autonoma norma
consuetudinaria in materia, facendo cosi’ propria la tesi secondo cui il
divieto di uso della forza risulterebbe anche da una norma di diritto
internazionale generale. Anzi, secondo una parte considerevole della
dottrina e la stessa C.D.I., tale divieto dovrebbe essere oggi considerato
oggetto di una norma cogente12.
In conclusione si può’ affermare che oggi vi è una estesa accettazione del
divieto di uso della forza in generale e del divieto di rappresaglia armata in
particolare nei rapporti internazionali. E’ pero’ altrettanto evidente che gli
Stati e la dottrina cercano attraverso altre vie, come l’ampliamento della
nozione di legittima difesa, il ricorso allo stato di necessita’ o l’invocazione
di norme successive alla Carta o a questa sopravvissute, di giustificare usi
della forza che molto probabilmente dovrebbero essere qualificati come
rappresaglie. E il tipo di reazione del corpo sociale sembra dipendere
sempre più’ spesso non tanto da valutazioni giuridiche, quanto dai rapporti
di forza o di equilibrio tra le principali aree geopolitiche. In queste
11
Gianelli: Adempimenti preventivi all’adozione di contromisure internazionali, Milano,1997,
p.342.