3
universale del gusto, possibilmente senza ricorrere all’intervento di facoltà soprasensibili: si
formularono allora delle regole del corretto immaginare fondate sull’invariabilità della natura
umana e del common sense; ma così si rese giustizia piuttosto alla cultura e all’educazione nel
formulare un giudizio corretto. L’unica garanzia di accordo intersoggettivo era la natura,
depurata proprio da quelle sovrapposizioni culturali che allontanavano il giudizio da autentici
valori estetici. Fu proprio Burke che, memore del sensismo francese e in particolar modo
l’abate Dubos, più degli altri puntò l’attenzione sulla natura umana più autentica e ricondusse
il gusto all’originaria vita dei sensi e delle passioni. Così l’Irlandese si collocava in una
posizione intermedia tra associazionismo e intellettualismo, ammendando del primo gli
eccessi soggettivistici, e del secondo il dogmatismo simil-metafisico. Emblematico, in tal
senso, è il modo di trattare la bellezza (secondo paragrafo) e la contestazione dei dogmi
plurisecolari dell’estetica classicistica; vengono discussi e respinti tutti i preconcetti
intellettualistici (proporzione, fitness, perfezione) e ricondotti a quelle motivazioni
extraestetiche, tutte radicate in una prospettiva antropocentrica, che del resto erano state
adottate pure dall’associazionismo. Il fondamento della bellezza non sta nell’intelletto, di per
sé incapace di fornire un piacere estetico, ma nel corpo che, in quanto natura, diviene la
garanzia più probante. Il piacere estetico si configura così come un riflesso di un piacere
autenticamente fisico in cui la tattilità inizia ha giocare un ruolo importante. Il suo carattere
disinteressato si attua attraverso un diaframma associativo che tuttavia, in quanto
naturalmente fondato e strutturale, mantiene il più possibile intatta l’immediatezza della
sensazione. Nel terzo paragrafo analizzeremo i fondamenti biologici di bello e sublime in
un’eziologia dell’esperienza estetica che nell’Enquiry ne trascende l’ambito e sconfina in una
rudimentale antropologia. Il bello sembra radicarsi, con straordinarie anticipazioni freudiane,
nell’ancestrale pulsione libidica, di cui, attraverso la mediazione dell’amore, è una
4
sublimazione (in questo Addison ne era stato un precursore). Ma tutte le caratteristiche della
bellezza (morbidezza, levigatezza, piccolezza), estese anche a qualità formali (gradual
variation), nonché “l’intimo senso d’intenerimento e languore”, rimandano indirettamente al
mondo delle passioni erotiche. Ancora è il corpo il fondamento del sublime, non più pilotato
dagli istinti sociali, ma dal principio di self-preservation. In questo caso i sentimenti relativi
saranno il dolore e la paura inscindibilmente connessi al senso del pericolo; ma da dove viene
il piacere del sublime, o meglio il diletto? Il problema si innesta nel plurisecolare dibattito
della tragedia nel quale si possono rilevare due sostanziali posizioni: una derivata da Hobbes,
che fonda il piacere sulla percezione della propria incolumità, e una da Cartesio che giustifica
il piacere con l’agitazione prodotta dalle disgrazie altrui e con gli effetti benefici prodotti a
livello psicofisico. Burke sembra riassumerle tutte e due facendo della prima una condicio
sine qua non per la seconda. Cioè lo spettatore deve trovarsi a una “certa distanza”, quindi
non essere realmente coinvolto nel pericolo, per poter godere dell’eccitazione prodotta dagli
scenari sublimi. Del resto la paura provoca una salutare tensione psicofisica necessaria per
evadere dallo stato apatico di indifference mediano tra il piacere e il dolore e nocivo per
l’organismo. Nella IV parte dell’Enquiry vengono prese in esame quelle “proprietà naturali”
degli oggetti atte a provocare il piacere estetico che, ben lungi dal richiamarsi a quelle qualità
formali e astratte precedentemente cassate, si fondano sulle fondamentali reazioni muscolari
di distensione e contrazione. Allora, come ho rilevato, vi sono proprietà strutturali negli
oggetti (variazione improvvisa e variazione graduale) a cui corrispondono delle strutture
innate che agiscono a livello intersensoriale. In tal modo veniva ancora messo in discussione,
anche se non in maniera sistematica, l’associazionismo sensoriale: il fatto che vi siano delle
predisposizioni congenite è confermato anche dall’innata reazione di sgomento davanti al
nero del ragazzino neovedente dopo l’operazione di Cheselden. Una volta che l’esperienza
5
estetica era stata ridotta alla dimensione più immediata e primitiva dei sensi e delle passioni,
era stato aperto il campo per l’ingresso del sublime.
Il secondo capitolo è un percorso all’interno del dibattito sul sublime dove l’Enquiry
rappresenta il punto culminante di una parabola evolutiva: la prospettiva che ho scelto, tra i
molteplici itinerari che potevano essere percorsi, è la transizione di un sublime concepito
come stato di esaltazione e di intensificazione vitale, tipico di molti autori della prima metà
del Settecento, ad un sublime inteso come perdita dell’io e, per l’appunto, paura. Di sublime,
nel senso non prettamente stilistico del termine, si inizia a parlare soltanto 1674 con l’ingresso
di Longino-Boileau, ma la sensibilità sublime appartiene già al Seicento. Nel primo paragrafo
ho voluto esaminare il background dell’estetica dell’infinito rimarcando le profonde radici
antropologiche del sublime nella nuova percezione dell’universo operata dalla rivoluzione
copernicano-galileiana e nello sconvolgimento di quei valori di ordine, limite e armonia, in
ambito estetico traducibili nei principi del classicismo, peculiari all’universo tolemaico-
aristotelico. Tuttavia, grazie anche alle scoperte scientifiche e astronomiche, già nella seconda
metà del Seicento l’universo illimitato diviene uno spazio che l’anima, nella sua tensione
conoscitiva, tende a riempire in un’espansione continua. E’ importante rilevare anche come
l’infintudine da attributo metafisico si fosse tradotta nella res extensa favorendo così la
divinizzazione della cosmo negli spazi celesti ma anche terrestri, in particolar modo la
montagna, laddove l’infinitudine del divino appare nel caos delle forme e in una natura
selvasggia. Allora, come ho analizzato nel secondo paragrafo, la grandezza della natura
diviene un mezzo con cui il divino si manifesta e l’uomo si riconosce divino ed avverte quel
“nobile orgoglio” longiniano per la propria natura spirituale. Il sentimento che ne deriva sarà
quel senso di pace e quieta contemplazione presaga della beatitudine celeste che Addison
riferisce agli spettacoli grandiosi. Nel corso della prima metà del secolo verranno impiegati
6
vari termini (stilness, sedateness, repose) che in un modo o nell’altro designano uno stato
d’animo di intensificazione vitale. Tuttavia a partire da Hume inizia a imporsi il soggetto con
le proprie dinamiche associative orientate all’autoesaltazione. Con Baillie tramonta
definitivamente quello statuto provvidenzialistico-oggettivo rimpiazzato da un carattere
fisiologico. In questo senso Gerard non riterrà più necessaria l’equazione sublime-vastità,
segno che, una volta assunta questa come un nobile richiamo dell’uomo alle cose eterne, la
sua forza morale stava perdendo quota e il sublime si stava affermando come qualità
meramente estetica. Il connubio con l’etica si stava sciogliendo e la paura poteva rivendicare i
suoi diritti. Per liberare tutta la carica eversiva del sublime bisognava tuttavia affrancarlo dal
bello. Il terzo paragrafo è per l’appunto dedicato al progressivo affrancamento della nozione
di sublime da quella di bellezza e, per mezzo dell’Enquiry, alla sua definitiva sanzione. Burke
approntò una distinzione tanto rigorosa quanto quella che intercorre tra dolore e piacere, e in
ciò recise definitivamente quei legami che impedivano al sublime di avere un profilo definito.
A dire il vero il sublime non si fonda sul dolore ma sul diletto, vale a dire il senso del cessato
dolore o pericolo. Ma è un sentimento pervaso dal brivido e da quella piacevole tensione
provocata dalla morte sfiorata. Burke nulla fece se non motivare esteticamente quelle
emozioni terribili che i saggisti, i poeti e i filosofi a lui precedenti avevano provato davanti a
scenari selvaggi. Del resto la poesia del primo Settecento (in particolar modo Thomson)
amava descrivere scenari catastrofici: tempeste, maremoti, vulcani, terremoti potevano
rappresentare un’alternativa ai bei paesaggi classicamente intesi e soprattutto segnavano un
cambio sensibilità nella percezione della natura. Al cosmo newtoniano-hutchesoniano pervaso
dall’ordine, dalla misura e dall’armonia, in cui l’uomo poteva rinnovare il proprio dominio
teoretico e pratico, subentrava il disordine selvaggio e l’oscura forza di una natura indomabile
e inconoscibile come il Dio che la governa. L’estetica dell’infinito passa anche per queste vie.
7
Allora l’infinito viene a coincidere con l’indefinito, l’indeterminato, l’informe. Qui giocarono
un ruolo fondamentale gli scenari alpini e il loro “disordine romantico” mirabilmente descritto
da Dennis, Shaftesbury, e successivamente da Gray e Walpole. Parallelamente il giardino
all’inglese si afferma e congeda il giardino francese e il suo artificioso esprit de géométrie.
L’irregolarità diviene anche l’insegna della riscoperta gotica avvenuta, in ambito
architettonico, già nei primi decenni del secolo. Il gotico si carica di valori che esulano
dall’architettura e, riassumendo in sé quanto vi sia di opposto al classicismo, si propone come
la cifra di un’identità nativa al di sotto delle sovrapposizioni culturali, tanto più inautentiche
perché alloctone. Il terzo paragrafo sposta l’attenzione verso il sublime più prettamente
retorico e il dibattito sul patetico; alla natura, ricondotta all’incoltura selvaggia e al disordine
primigenio, fa riscontro specularmente una riscoperta del sostrato umano anteriore alla cultura
e alla ratio illuministica, ovverosia il mondo degli istinti e delle passioni. E allora si rilegge
Longino tenendo conto anche dell’altra faccia, vale a dire il pathos che “travolge come una
folgore ogni cosa”. Le Réflexions sur Longin di Boileau, enfatizzando l’ispirazione poetica e
la preminenza del contenuto sull’eleganza dell’espressione, segnarono il tramonto del sublime
come categoria squisitamente stilistica ed inaugurarono il patetico. La passione viene accolta
da Dennis come “l’anima della poesia”, dove per passione si intende quello stato entusiastico
affine all’ispirazione divina, alienante e incontrollabile. Il problema dell’ispirazione si estende
dal sublime religioso alla critica in generale, quando il Vecchio Testamento, grazie a Lowth e
Blair, inizia a costituire un’autorità poetica. La sua sublimità non è imputabile soltanto alle
folgorazioni divine ma anche alla natura primitiva del popolo ebraico. Così attraverso il
dibattito degli anni 50-60, (Young, Hurd, Blair, Warton) I riflettori si spostano sulla natura
che agisce nella poesia attraverso le sue istanze, ovvero il sentimento, l’originalità e il genio e
si contrappone all’intelletto, all’imitazione e al gusto, vale a dire il mondo della cultura e del
8
classicismo. Una delle caratteristiche più celebrate della poesia primitiva (Ossian) e
appassionata (Milton, Shakespeare) è la confusione delle immagini preferibile all’ordine e la
chiarezza espositiva predicata da Boileau. Alquanto decisa è l’apologia di Burke, in aperta
polemica con Dubos, di un’ispirazione poetica non strettamente imitativa. Sempre con acume
speculativo, il nostro autore risale ai principi primi e sostiene la natura sostanzialmente
emozionale e aniconica del linguaggio. Per ciò, in quanto latrice di immagini indistinte e
confuse, più della pittura, di cui si vorrebbe ancella, la parola lirica pertiene all’oscuro mondo
delle passioni ed è in grado di eccitarle. Il paragrafo finale è dedicato all’estetica del terrore:
Burke, sulla scia di Dennis, ravvisa che l’emozione più travolgente e psichicamente alienante,
è la paura. Nel delinearne i suoi caratteri estetici l’Irlandese non fa altro che rimarcare i
clichés più diffusi della poesia a lui precedente e coeva. Il tutto naturalmente viene esaminato
con acume speculativo e ricondotto ai suoi moventi primari; tre categorie vengono passate in
rassegna: la potenza, la vastità e la privazione. La prima si traduce nella forza selvaggia della
natura dietro alla quale agisce la furia del Dio veterotestamentario celebrato dalla lirica
religiosa. La seconda, dal momento che vengono invertite le cause per gli effetti, ha un
carattere più che altro associativo ed in definitiva è la più fragile; La terza è quella più
interessante e foriera di istanze romantiche; a questa appartengono il silenzio, la desolazione e
l’oscurità che, già impiegate nei toni più o meno elegiaci della lirica sepolcrale, si caricano di
tensione e mistero. L’oggetto più inquietante è lo spettro perché rappresenta al massimo grado
l’inconoscibile, l’irrazionale e l’incontrollabile. Così Burke, attraverso la sanzione estetica del
terrore, poteva fungere da trampolino di lancio per il romanzo gotico che sarebbe nato meno
di dieci anni dopo con The Castle of Otranto di Walpole.
Il capitolo finale è un’esplorazione degli effetti diretti e indiretti che l’Enquiry ebbe in
Inghilterra e all’estero. Nel primo paragrafo prenderò in esame le ripercussioni nel panorama
9
nazionale: osserverò che, nell’ambito meramente teorico-estetico, gli effetti furono parziali e
limitati ai decenni immediatamente successivi. Del resto, il romanticismo non esitò a
condannare i suoi presupposti materialistici. Influenze burkiane si rilevano nelle Lectures di
Blair che tuttavia preferì riferire il sublime, ritenendo la paura un principio troppo riduttivo,
alla potenza (il medesimo principio venne addotto anche da Knight). L’originalità
dell’impostazione e la non appartenenza ad un indirizzo particolare, ne fecero un pensiero
sostanzialmente isolato ed una parentesi nella via maestra dell’associazionismo inglese. La
critica che gli venne rivolta è il non aver tracciato una linea di confine sufficientemente
definita tra le emozioni pratiche ed estetiche; soltanto l’associazione avrebbe potuto
preservare la dimensione puramente immaginaria dell’oggetto estetico e nel contempo
mantenere viva l’emozione. L’apporto di Burke si fece sentire soprattutto nella critica
letteraria, artistica e nella prassi pittorica. In ogni caso la distinzione netta tra il bello e il
sublime (specialmente nella critica pittorica) era un’eredità troppo preziosa per poterla
sprecare e i teorici che lo seguirono ne tennero sempre conto. L’Enquiry fu anche un
passaporto definitivo per gli scenari terrificanti (tempeste, lande desolate, dirupi aspri e
selvaggi) che in maniera sempre più febbrile si affermarono come mete privilegiate del
turismo. Così, l’Enquiry diventava una pietra miliare nella storia del pittoresco a cui è
dedicato il secondo paragrafo; l’apporto che Burke vi diede però non fu soltanto scenografico,
ma anche teorico. Gilpin difatti vi applicò le categorie formali di raggedness e roughness,
che Burke aveva teorizzato per il sublime, nettamente distinte dalla smoothness della bellezza.
Però Gilpin parlava ancora di una picturesque beauty dimostrando di non aver ancora chiare
le idee: posizione superata da U. Price, che ne fece una categoria estetica intermedia tra bello
e sublime. In quanto categoria estetica, non si limitava più soltanto alla visione ma alla
percezione generica e a tutti i sensi. La riduzione fisiologica del pittoresco (concepito come
10
stadio intermedio tra il rilassamento e la tensione muscolare) è chiaramente un debito
burkiano. Il fisiologismo di Price venne superato da P. Knight che, memore di Alison, con un
taglio associazionista, sposta il pittoresco nel piano della psicologia.
Nel terzo paragrafo ho preso brevemente in esame le influenze che Burke esercitò su tre
importanti autori del secondo Settecento: Lessing, Diderot e Kant. Il primo lesse e tradusse
l’Enquiry e trasse importanti spunti per la sua teoria antipittorica ed emozionalistica della
poesia. Nel Laocoonte la poesia tuttavia è arte non imitativa, non per la sua costituzione
aniconica, ma per l’impossibilità della coesistenza: la mimesi, difatti, muovendosi nella
continuità temporale, può attuarsi nella descrizione degli eventi. Diderot trasse notevoli
spunti, testualmente citati, quando commentò nel Salon de 1767, i dipinti del pittore francese
C. Vernet. Il sublime burkiano fu quello che, più di ogni altra trattazione, impressionò Kant e
fornendoli spunti fondamentali: la netta distinzione con il bello (già presente, seppur in
ambito morale, nelle Osservazioni del ’64); la riduzione mentalistica e l’idea di “piacere
negativo”; le qualità di potenza e vastità nel formulare rispettivamente il sublime dinamico e il
sublime matematico. La teoria kantiana tuttavia, alla luce del suo antiedonismo di fondo,
prende dei risvolti, per molti versi, opposti e giunge a delle conclusioni che lo imparentano
maggiormente con gli autori del primo Settecento: seppur per via negativa viene riconfermato
l’uomo coi suoi valori positivi (ragione e moralità). Il percorso del sublime burkiano, come
analizzerò nel quarto paragrafo, doveva defluire viceversa in valori opposti: l’irrazionalismo e
l’immoralità degli antieroi del romanzo gotico. L’Enquiry non soltanto fornisce la cornice
scenografica e “gli effetti speciali” del gothic novel, ma è anche, e soprattutto, una spia, nel
teorizzare l’estetica della paura, delle motivazioni antropologiche di fondo che determinarono
l’esplosione di questa moda ed il suo pluridecennale successo. Una è il diletto, nella
compartecipazione ai rischi dell’eroe / eroina e nella sua salvezza finale. Altra motivazione,
11
indubbiamente la più profonda, è il desiderio, implicito nella natura stessa del sublime, di
alterità e di evasione da una norma sociale, conoscitiva e estetica troppo repressiva. Così
nascono figure tenebrose e demoniache, i villains, che, pur sotto lo stigma della malvagità,
suscitano un fascino perverso. Il sublime allora si realizza nel suo significato più pregnante, e
si configura come eccesso e trasgressione al di là dell’ordine e della ragione, ma soprattutto
intrusione nell’al di sotto, nell’abisso, nel mondo degli istinti più incontrollati. Dall’inconscio
emergono allora i mostri, le paure ancestrali e si proiettano in allucinazioni e distorsioni della
percezione temporale e spaziale. La paura più radicale è quella della morte e si traduce in
visioni spettrali che preludono il mostruoso dell’epoca romantica; ma la morte è anche,
concentrando attorno a sé tutte le opposizioni a quei valori vitali espressi dal classicismo,
l’alterità più profonda. La morte, nella sua sublimità, non è oggetto di attrazione soltanto
estetica, ma anche esistenziale. Dietro la piacevole tensione muscolare e nel brivido del
pericolo si nasconde un inconscio desiderio di morte. Difatti, anche il bello e l’amore,
provocando uno stato d’animo languido e quasi estatico, rappresentano un surrogato del cupio
dissolvi. Si possono ravvisare allora oscure anticipazioni, come ha letto Sertoli, della noluntas
schopenhaueriana, laddove la vita si ritorce su sé stessa e aspira all’autoannichilimento, e di
Freud, che in Al di là del principio di piacere teorizza una morte erotizzata ed un’inscindibile
alleanza tra i principi di eros e thanatos. Il sublime settecentesco in definitiva fu la pars
destruens del classicismo e il piedistallo del romanticismo, e i principi che vi gravitavano
attorno (irregolarità, informità, disordine, infinitudine, indeterminatezza), seppur in una
prospettiva profondamente mutata, ne furono l’ossatura. Burke li aveva enfatizzati in maniera
più iperbolica degli altri autori facendone i capisaldi di un’estetica dell’eccesso
12
CAPITOLO I
FONDAMENTI EMPIRISTICI
DEL
PENSIERO DI BURKE
13
1.1: BURKE E IL GUSTO
L'attitudine al rifiuto di ogni dato metafisico e all'indagine, orientata induttivamente, ristretta
all'ambito dei fatti fenomenici è uno di quei tratti che maggiormente contraddistingue
l'empirismo del '700 inglese. Seguendo l'idea dell'Alfieri
1
, tanto approssimativa quanto
efficace, di un'Europa spartita tra due tendenze opposte, ovverosia il soggettivismo e
l'oggettivismo, considereremo la prima una diretta conseguenza e proiezione nella ricerca
estetica della cultura empiristica. Fin dagli albori dell'estetica, gli Inglesi nutrirono forti
sospetti nei confronti di una definizione intellettualistica del bello (o del sublime): a ciò
contribuì anche il rifiuto del dogmatismo che, una volta assunto, avrebbe comportato uno
sgradito ripiegamento a principi aprioristici. Invece ci troviamo di fronte a trattazioni
asistematiche, frammentarie e, per utilizzare un termine caro agli empiristi, atomistiche; vale
la pena ricordare che buona parte dei trattati, specialmente nella seconda metà del secolo,
furono composti da filosofi d'occasione (come del resto Burke stesso) che, in un'esposizione
rapsodica e di impronta marcatamente saggistica, non si preoccupavano di celare palesi
contraddizioni. Bisogna tener conto anche del fatto che la stessa estetica, fin dalla sua
nascita
2
, dal momento in cui si nega all'esperienza del bello un valore conoscitivo puro e le si
ritaglia uno spazio specifico nel quale l'intelletto gioca un ruolo soltanto parziale, tende
maggiormente ad una valutazione soggettivistica; o, laddove si cercano di salvare le qualità
oggettive, si riconosce la necessità di una mente che percepisca l'oggetto. Il metodo
dell'empirismo, quindi, sostituisce, anteponendo l'indagine del soggetto a quello dell'oggetto,
1
Cfr. V. Alfieri, L’estetica dall’illuminismo al romanticismo fuori dall’Italia in Momenti e problemi di storia
dell’estetica, La nuova Italia, Milano 1959, cap. II.
2
R. Baumgarten nelle Meditationes Philosophicae de Nonnullis ad Poema Pertinentibus (1735) definisce
l’estetica gnoseologia inferior ovvero quella conoscenza inferiore che, arrecando all’anima idee chiare e confuse,
si colloca a metà strada fra le facoltà irrazionali inerenti le passioni e la sensibilità e quelle intellettuali.
14
la psicologia alla metafisica, fatto che, secondo Cassirer
3
, rappresenta la transizione dal
principio metodologico cartesiano della deduzione a quello newtoniano dell'induzione.
Indubbiamente la tradizione empiristica inglese è orientata all'accumulo
(“ammonticchiamento dei fatti” come il Rossi
4
lo definisce) dei dati da cui partire per inferire
leggi generali. E' questo un metodo che non determina, come appare massimamente nello
scetticismo humiano, criteri valutativi assoluti; emerge allora un atteggiamento tipico dei
trattatisti inglesi, sempre cauti nel postulare assiomi estetici: il relativismo. Nessuno può
mettere in dubbio il motto de gustibus disputandum non est. Gli Inglesi, difatti, sono ben
consapevoli della mutevolezza del gusto e della sua variabilità a seconda delle coordinate
spazio-temporali. Hume ce ne dà, in The Standard of Taste (1757), una chiara testimonianza:
“ma nonostante tutti i nostri tentativi di stabilire una regola del gusto e di conciliare le
valutazioni discordi degli uomini, restano pur sempre due fonti di diversità [...] la prima
consiste nei diversi umori, l'altra nei costumi ed opinioni particolari del nostro tempo e del
nostro paese”
5
. Hume polverizza ulteriormente il giudizio di gusto riducendolo
all'idiosincrasia ed al carattere individuale: “scegliamo il nostro autore preferito come
scegliamo un amico per affinità di temperamento e di inclinazione”
6
.
Non mancano d'altro canto autori che, specialmente nella prima metà del secolo, volendo
conservare il retaggio platonico, si votarono ad un cauto oggettivismo. Shaftesbury nelle sue
Characteristiks (1711) sostiene l'identità tra il vero ed il bello ed attribuisce a quest'ultimo
uno statuto ontologico-metafisico; per tanto, l'esperienza estetica si configura come un'attività
contemplativo-intuitiva strettamente imparentata, nella sua assolutezza, all'attività morale. Il
pensiero rapsodico ed asistematico di Shaftesbury subisce un tentativo di sistematizzazione
3
Cfr. E. Cassirer, La filosofia dell’illuminismo, La nuova Italia, Milano 1998.
4
M.M. Rossi, L’estetica dell’empirismo inglese, “Introduzione”, Sansoni, Firenze 1944, par. IV, pagg. 14-17.
5
D. Hume, La regola del gusto in Saggi di estetica, a cura di I. Zaffagnini, Pratiche, Parma 1997, pag. 57.
6
Ibid., pag. 58.
15
nell' Inchiesta sulle nostre idee di bellezza e di virtù (1725) di Hutcheson: l'esperienza estetica
viene delegata ad un internal sense
7
che, trascendendo il piacere sensuale, arriva a cogliere le
qualità immateriali insite nelle cose: “il senso interno è un potere passivo di ricevere idee di
bellezza da tutti gli oggetti in cui vi è uniformità nella varietà”
8
. La regolarità, l'ordine,
l'armonia e l'uniformità nella varietà costituiscono i fondamenti della bellezza assoluta
9
che
possiamo ritrovare nelle figure geometriche, nei teoremi e nelle leggi naturali, ovvero laddove
traspaiono manifestamente qualità oggettuali analoghe alle qualità primarie delle cose.
Tuttavia Hutcheson insiste più volte nel riferire il bello ad una mente senza la quale non
potrebbe sussistere
10
. Così Hutcheson giungeva ad un compromesso, segnando una svolta
empiristica del platonismo tardoseicentesco
11
, tra oggettivismo e soggettivismo e creava un
edonismo di carattere innatistico-provvidenzialistico. Il fatto stesso di deputare l'esperienza
estetica ad una facoltà sensoria immediata, ricettiva e passiva palesa un tentativo di
mediazione fra sensualismo ed intellettualismo.
7
L’idea di una facoltà specifica all’esperienza estetica era già stata elaborata nel Traité du Beau (1715) di J. P.
Crousaz. Il francese aveva postulato l’esistenza di un sesto senso che attraverso un'intuizione emozionale poteva
accogliere la bellezza di quegli oggetti dove figurava l’unità nella varietà. L’internal sense esisteva già nel
platonismo di Herbert che ne aveva fatto una facoltà innata per la percezione del bello. Shaftesbury nell’Inquiry
Concerning Virtue and Merit parla di “un occhio interno, un occhio della mente” a cui compete “il naturale
discernimento” di “ciò che è bello e armonioso, degno di amore e ammirazione, distinguendolo da ciò che è
deforme, turpe, spregevole e odioso” (A. Shaftesbury, Inquiry Concerning Virtue and Merit, in Characteristicks,
ed. J. Robertson, London 1900, pag. 191) (tr. mia). L’internal sense permarrà pure in pieno clima empiristico
(Home, Gerard, Blair) e Gerard lo moltiplicherà in sette categorie (novità, sublime, bellezza, imitazione,
armonia, perfezione, comico). Gerard però sembra operarne una traslazione in un ambito più squisitamente
mentalistico e lo sostituisce con il termine reflex sense, ovvero “la coscienza [che la mente ha] delle proprie
operazioni e disposizioni” (A. Gerard, An Essay on Taste, London 1771, rist. scholars facsimiles & reprints,
Delmar 1978, parte I, sez. I, pag. 3) (tr. mia).
8
F. Hutcheson, op. cit., I trattato, sez. VI, X, in M. M. Rossi, op. cit., pag. 475.
9
Seguendo la definizione di Hutcheson la bellezza assoluta è “quella bellezza che percepiamo negli oggetti
senza confrontarla con quella qualunque cosa esterna di cui l’oggetto si suppone imitazione o immagine” (op.
cit., I trattato, sez. I, XVI, in M. M. Rossi, op. cit., pagg. 453-454).
10
“Ma si deve osservare che per ‘bellezza assoluta originale’ non si intende qualunque qualità nell’oggetto che
sarebbe di per se stesso bello senza una mente che lo percepisca: perché ‘bellezza’ come altri nomi di idee
sensibili, indica propriamente una percezione di qualche mente, come caldo, freddo, dolce, amaro indicano
sensazioni nella nostra mente senza che negli oggetti forse vi sia qualcosa che vi assomiglia” (ibid., pag. 451).
11
Hutcheson, temendo il relativismo estetico che comporterebbe un’impostazione lockiana, “si oppone
ancorando per così dire l’idea di bellezza sia sul fianco del soggetto sia su quello dell’oggetto” (G. Sertoli, “Il
gusto nell’Inghilterra del Settecento”, in L. Russo (a cura di), Il Gusto, storia di un’idea estetica, Aesthetica,
Palermo 2000, pag. 94).
16
L'idea di una bellezza assoluta si protrarrà pure in pieno clima empiristico: Home negli
Elements of Criticism (1762) concepisce come Hutcheson una bellezza intrinseca che “viene
scoperta in un oggetto singolo considerato isolatamente” ed una bellezza relativa che “si
fonda sulla relazione fra oggetti”
12
. Tuttavia, negli autori di metà Settecento la prospettiva
d'indagine dell'esperienza estetica ha subito un ulteriore spostamento verso il soggetto: tali
affermazioni manifestano il desiderio di fondare il gusto su criteri universali e di preservarlo
dall'anarchia del relativismo. In definitiva, Hutcheson, oltre a preludere la transizione
dall'oggetto al soggetto, dedica un nuovo interesse alla natura a cui il nostro autore,
preordinandola finalisticamente, conferisce ampi poteri; l'innatezza dell'internal sense ben si
mimetizza con quella naturalezza del gusto che sarà alla base del saggio introduttivo (Sul
gusto) dell'Enquiry burkiana, alla quale Hutcheson si lega ancora più strettamente per il
distacco dall'associazionismo
13
. L’idea dell’internal sense inizia a perdere quota già a partire
da Addison, che nello Spectator (1712) preferisce parlare di “facoltà della mente” e
concentrarsi, più che sulle qualità indiscusse delle cose, sugli effetti psicologici
14
. Uno degli
autori che maggiormente accentua la tendenza antioggettivistica di metà Settecento è
indubbiamente D. Hume, il quale intraprende la sua ricerca a partire, come abbiamo poc’anzi
osservato, dal relativismo del gusto.
12
H. Home (Lord Kames), Elements of Criticism, Routledge/Thoemmes, London 1993, (rist. dell'ed. 1785),
cap. III, pag. 197 (tr. mia).
13
“Burke – ravvisa Sertoli – non accetta la nozione di senso interno ma molti passi della ‘Introductin on Taste’
ricalcano quasi alla lettera passi dell’Inquiry di Hucheson. E li ricalcano perché Burke attribuisce alla struttura
psicofisica umana la stessa naturalità – e quindi universalità – che Hutcheson aveva attribuito al senso interno”
(G. Sertoli, “Il gusto nell’Inghilterra del Settecento”, in L. Russo (a cura di) Il gusto, storia di un’idea, cit., pag.
109).
14
Con Addison, osserva Sertoli, assistiamo a “una dislocazione dell’analisi dal versante della produzione [...] al
versante della fruizione che è quello che dopo Addison diventerà dominante” (G. Sertoli, “Il gusto
nell’Inghilterra del Settecento”, in L. Russo (a cura di) Il gusto, storia di un’idea, cit., pag. 83).
17
necessariamente il bello e il brutto, ma costituiscono la loro stessa essenza”
15
. Effettivamente
ne La regola del gusto rifiuta di additare qualità aprioristiche come ordine, proporzione,
fitness e riduce tutta l'analisi estetica al soggetto ed al suo sentimento: “la bellezza non è una
qualità delle cose stesse; essa esiste soltanto nella mente di chi la contempla e ogni mente
percepisce una diversa bellezza”
16
. La dissoluzione dell'oggettivismo non significa affatto, pur
ammessa la centralità dell'opinion, anarchia estetica: laddove tramontava l'impianto
razionalistico cartesiano e parallelamente l'apriorismo prescrittivo, si ricercavano nuovi
fondamenti per una validità universale del gusto. “E' naturale che noi - osserva Hume -
ricerchiamo una regola del gusto, una regola mediante la quale possano essere conciliati i vari
sentimenti degli uomini o almeno una decisione che confermi un sentimento e ne condanni un
altro”
15
. Il parametro non sono più valori assoluti, ma l'uomo stesso e le sue inclinazioni
naturali; se le autorità letterarie del classicismo quali Pindaro, Omero e Virgilio oppure
critiche (Aristotele, Orazio e Longino) non vengono sostanzialmente messe in discussione,
vengono tuttavia subordinate ad una prospettiva induttivistica: la tradizione non vale come
prescrizione, ma è un dato di fatto: allora “lo stesso Omero che è piaciuto ad Atene a Roma
duemila anni fa’, è ancora ammirato a Parigi e a Londra. Tutti i cambiamenti di clima di
governo non hanno potuto oscurare la sua gloria [...]. Le bellezze che sono naturalmente atte a
suscitare sentimenti di piacere dispiegano immediatamente la loro azione e, finché dura il
mondo mantengono le loro autorità sulle menti degli uomini”
17
. Quindi il nuovo criterio, alla
luce della comune natura, è l'accordo tra gli uomini al di sopra delle mutazioni spazio-
temporali. La convinzione di un sostrato estetico comune agli uomini, giustificato dalla
comune natura psicofisica e dal comune modo di sentire (il common sense), può essere
15
D. Hume, Trattato sulla natura umana, in Opere, tr. it. A. Carlini, E. Lecaldano e E. Mistretta, Laterza, Bari
1971, libro II, parte I, sez. VIII, pag. 314.
16
D. Hume, La regola del gusto, cit., pag. 42.
17
Ibid., pag. 57.
18
considerata una costante pressoché di tutti gli autori: si doveva rendere conto a posteriori del
consensus gentium e della tradizione. Pure Burke sostiene che vi siano dei principi universali
“in base ai quali l'immaginazione è colpita” e li riduce ad un livello molto epidermico, vale a
dire la comune conformazione sensoria di tutti gli uomini: “i poteri naturali dell'uomo a me
noti, che sono in rapporto con gli oggetti esterni, sono i sensi, l'immaginazione e il giudizio. E
prima di tutto i sensi. Noi crediamo e dobbiamo credere che, come la conformazione dei vari
organi è del tutto, o quasi, medesima in tutti gli uomini, così il modo di percepire gli oggetti
esterni è in tutti gli uomini lo stesso o lievemente diverso. Noi siamo convinti che ciò che
appare luminoso a un occhio appare luminoso all'altro, che ciò che sembra dolce al palato è
dolce per l'altro, che ciò che è oscuro e amaro per quest'uomo è ugualmente amaro e oscuro
per quello; e così per il grande e il piccolo, il duro e il molle, il caldo e il freddo, il ruvido e il
liscio e insomma per tutte le qualità naturali dei corpi”
18
. Qui appaiono abbastanza espliciti i
presupposti materialistici e sensualistici dell'Enquiry: il gusto, liberato dagli empasses
dell’internal sense
19
e di altre presunte facoltà immateriali, risulta del tutto affine ai sensi e al
piacere che producono. Gli autori settecenteschi non mancano di instaurare analogie tra il
gusto estetico e quello del palato; Addison paragona il gusto letterario al gusto per il tè poiché
“si può essere certi che questo termine metaforico non si troverebbe in tutte le lingue se non
vi fosse grandissima analogia fra quel gusto mentale che è argomento di questo foglio e quel
gusto sensoriale che ci fa godere di ogni diverso sapore che tocca il palato”
20
.
18
E. Burke, Inchiesta sul bello e sul sublime, a cura di G. Sertoli, tr. it., G. Miglietta, Aesthetica, Palermo 1995,
“Introduzione” (Sul gusto), pag. 51; questo piccolo saggio venne allegato, nel 1759, soltanto alla seconda
edizione; Burke, visto il crescente numero di dissertazioni in materia, volle dare il proprio contributo ispirandosi
ai motivi di fondo dell’analogo saggio di Hume, edito due mesi prima la prima pubblicazione dell’ Enquiry.
19
E’ chiaro che l’internal sense era stato demistificato pure dalla dottrina associazionistica orientata all’indagine
delle dinamiche mentali. Priestley seguendo l’approccio di Hartley definirà negli anni ’60 i sensi interni “un
congegno ovvero una combinazione di idee e sensazioni che non è possibile distinguere l’una dall’altra ma che
erano precedentemente associate o con l’idea stessa che le ha suscitate o con qualche altra idea ovvero
circostanza che le accompagnava (J. Priestley, A Course of Lectures on Oratory and Criticism, London 1777,
cfr. S. H. Monk, Il Sublime, a cura di G. Sertoli, Marietti, Genova 1991, pag. 145).
20
J. Addison, Lo spettatore, n° 409, in M. M. Rossi, op. cit., pag. 249.