II
stradali e ferroviarie e mezzi di trasporto in genere che
nella società contemporanea rappresentano un’idea di
impersonalità e di passaggio, la possibilità che tali luoghi
siano ovunque senza una identità precisa e radicata nel
territorio; luoghi in cui ambiguità e spaesamento regnano
sovrani.
Con tale locuzione è inoltre possibile identificare i
rapporti che si instaurano fra i soggetti che percorrono
tali spazi e gli spazi stessi, creando una particolare
condizione negli individui interessati.
La difficoltà di interazione in simili spazi (come
ovunque) dei soggetti latori di uno sguardo diverso con
gli altri individui e con gli stessi spazi (fatti anche di
individui) diventa l’elemento guida, in attesa di verifica,
dell’intera analisi.
Una difficoltà spesso ascrivibile alle condizioni
fisiche e geografiche dell’ambiente. L’eventuale smentita
di una tale ipotesi di lavoro costituirebbe un dato
interessante, forse ancor più dell’eventuale conferma.
Si capisce così l’elevata attenzione riservata
all’ambiente, ma anche alle caratteristiche del soggetto
portatore di uno sguardo altro.
La corporeità di questo diverso, la fisicità dei
personaggi che vivono l’ambiente circostante subendolo
in maniera spesso carnale, diviene prioritaria: qui è il
corpo che detiene una posizione privilegiata, sempre
comunque in relazione ad un ambiente che non scompare
ma che si fa solo più discreto.
Ambiente la cui dimensione regionale,
caratteristica di questo cinema degli anni novanta di cui
Napoli e il Sud, Milano, Torino e il Nord-est (tutti punti
III
di vista lontani da Roma) sono le manifestazioni più
evidenti, non è assolutamente secondaria.
Proprio la lontananza ideale da una certa
concezione di cinema legata all’area della capitale,
costituisce la caratteristica principale di queste opere,
particolarità tale da diventare quasi cifra stilistica.
In tale situazione di preminenza dell’ambiente, il
paesaggio diviene parte integrante o, meglio ancora,
soggetto agente della narrazione, influenzando spesso
pesantemente l’operato dei personaggi o semplicemente
contribuendo a sviluppare alcune dinamiche.
Giocando con elementi quali il folklore regionale
(e a volte cittadino) o con semplici luoghi comuni e
nozioni d’ampia conoscenza, alcuni autori riescono a
suggerire l’esistenza di differenti modalità del vivere
legate sovente al territorio, inteso sia come sostrato
culturale sia come condizione ambientale.
Tenuto conto di simili osservazioni, le opere
esaminate forniranno presumibilmente interessanti spunti
di riflessione.
Ad una tale condizione si giungerà dopo un’analisi
particolareggiata di un numero ristretto di opere e autori
capaci ognuno, secondo un proprio percorso e un proprio
stile, d’individuare o portare all’attenzione i temi di
nostro interesse, contribuendo in maniera decisa a
supportare una ricerca troppe volte in pericolo di perdersi
nella generalità e nella confusione delle osservazioni
raccolte, capaci di sviare il percorso di indagine.
1
Capitolo Primo. Il paesaggio
1.1 Paesaggio come forma simbolica
Paesaggio come forma simbolica: questa sembra
essere l’idea di più ampia diffusione riguardo la nozione
di paesaggio.
Un’idea che presuppone che lo stesso si configuri
come un’emanazione della cultura di appartenenza che,
suo tramite, esprime la propria essenza, la propria
peculiarità.
Ma attraverso quale percorso si è arrivati ad una
simile concezione?
In realtà l’attenzione a tale argomento è piuttosto
recente, come la sua stessa definizione. Infatti sembra
risalire alla metà del secolo XIX e precisamente a
Humboldt
1
.
La riflessione sul concetto di paesaggio come
indicato appunto da Humboldt, che con questo termine si
riferiva essenzialmente a “vedute della natura”, era già
apparsa negli scritti dei poeti romantici, tra cui anche
Schiller e Goethe (che aveva un’opinione piuttosto
articolata della natura e degli aspetti correlati), ma
verteva in sostanza sulla natura e sulla concezione dalle
non poche ambiguità che se ne aveva.
Si parlava infatti di “natura abbellita”, di natura da
“addomesticare”, evidenziando con questo una volontà di
manipolazione della materia fisica solo lievemente
velata.
1
A. von Humboldt, Il cosmo. Saggio di una descrizione fisica del mondo (1845), trad. it. A
cura di V. Lazari, Venezia, 1860, vol. I, p.19 (citato da S. Bernardi, Il paesaggio nel cinema
italiano, Venezia, Marsilio, 2002,pag. 21).
2
La natura è un qualcosa che si rispetta, si apprezza,
ma abbisogna di un intervento umano che la possa
modificare e rendere più godibile.
E’ evidente come una tale concezione intrisa di
pregiudizio sia il risultato di una visione antropocentrica.
La natura è infatti sentita come fondamentalmente
estranea dato che necessita dell’azione dell’uomo per
essere compresa.
Una necessità assolta grazie appunto al paesaggio
che diventa un mezzo per annientare il “kaos”
primigenio della natura rendendola un “kosmos” fruibile.
Il paesaggio è quindi, ancora nella riflessione di
Humboldt, un’esperienza (sensibile).
Un’esperienza non scindibile dalla presenza di un
soggetto agente, in questo caso un osservatore, come
ricorda un altro autore che prende spunto dalle idee di
Humboldt, e precisamente Simmel
2
.
Questi afferma che “la natura nella sua totalità
viene trasformata nell’individualità di un paesaggio”, a
significare che è proprio un’operazione di riduzione a
limiti umani delle dimensioni e delle caratteristiche della
natura a caratterizzare ciò che va sotto il nome di
paesaggio. Sorta di strumento grazie al quale diventa
possibile apprezzare la natura, il paesaggio rimane
comunque un “procedimento” impossibile da realizzare
senza la presenza di un soggetto osservatore, elemento
indispensabile.
Come è ugualmente indispensabile evidenziare la
contraddittorietà del concetto di paesaggio che da un lato
consente di scorgere con chiarezza la natura, dall’altro ne
2
Cfr. G. Simmel, Il volto e il ritratto. Saggi sull’arte, Bologna, Il Mulino, 1985, pp. 71ss.
(citato da Sandro Bernardi, Il Paesaggio nel cinema italiano, Venezia, Marsilio, 2002,
p.22)
3
occulta il lato più veritiero, più “spontaneo”, scevro da
interpretazioni.
Se questi sono gli elementi che caratterizzano in
maniera sommaria la concezione romantica di paesaggio,
non mancano certo voci discordi (o comunque dotate di
una maggior profondità d’analisi) anche autorevoli. Una
fra tutte quella di Goethe, che mette in luce l'aspetto
“oscuro” della natura, il più orrorifico e inquietante -
potremmo definirlo sulla scorta di Freud e precorrendo i
tempi, “perturbante”-.
La condizione umana è quindi di appartenenza alla
natura (“viviamo nel suo seno e le siamo estranei”)
3
, ma
percepiamo un velo di mistero ogni qual volta tentiamo
di comprenderla (“Parla incessantemente con noi e non
ci rivela il suo segreto. Costantemente operiamo su di
essa e tuttavia non abbiamo alcun potere sulla natura”)
4
.
Mentre Goethe porta avanti queste tesi, altri autori
a lui contemporanei sviluppano concezioni non così
dissimili. E’ il caso di Foscolo o di Leopardi stesso che,
parlando di “sguardo escluso” nella poesia “L’infinito”,
sottolinea la necessità di una costrizione (la siepe, in tal
caso) perché fantasia e immaginazione possano liberarsi,
riallacciandosi in qualche modo al paradosso romantico
del paesaggio che nasconde ma rivela anche il mondo.
Da ricordare che la natura nell’idea leopardiana è
spesso connotata da una sorta di lucida “cattiveria”. In
Rilke questa si muterà in indifferenza o addirittura nella
consapevolezza della totale estraneità del mondo naturale
3
Cfr. J. W. Goethe, La natura, in Teoria della natura, trad. it. di M. Montinari, Torino,
Einaudi, 1958, p.138 (citato da Sandro Bernardi, Il Paesaggio nel cinema italiano, Venezia,
Marsilio, 2002, p.26)
4
Cfr. ibid. p.138 (citato da Sandro Bernardi, Il paesaggio nel cinema italiano, Venezia,
Marsilio, 2002, p.26)
4
nei confronti dell’essere umano che, immerso nella
natura e non trovandosene fuori come in precedenza si
pensava, non riesce a comprenderla se non quando se ne
discosta e ne è ormai cacciato.
Anche un autore come Bataille
5
, da sempre
impegnato in una ricerca sulla nozione di “perdita del
sacro”, non tralascia occasione per commentare questa
scissione dell’uomo moderno dalla natura, della quale
ricerca incessantemente -attraverso creazioni alternative
come potere, religione, festività, ecc.- la forza e il
coinvolgimento primigenio, la sensazione di essere
partecipe di essa. Infatti il percorso di accrescimento
culturale ha irreparabilmente disgiunto l’uomo dalla
natura a differenza degli animali.
Eppure il rapporto uomo-mondo, così precario
negli scritti fin qui esaminati, non è foriero solamente di
disillusione e incertezza.
Ritter
6
in un’opera del 1963, affermando che
“paesaggio è natura che si rivela esteticamente a chi la
osserva e la contempla con sentimento”
7
, introduce un
notevole elemento di novità: il concetto di “uscire dentro
il paesaggio”.
Questa uscita consente di evadere dallo stato
quotidiano, dal nostro essere e di ammirare in maniera
distaccata tutto ciò che ci circonda.
Partendo da un componimento di Schiller datato
1795, “La passeggiata” (in cui l’uscita nel paesaggio,
5
G. Bataille, Le Sacre, in Id., Oeuvres completes, Paris, Gallimard 1971, vol.1, pp.559-563,
trad. it., Teoria della religione, Milano ,SE, 1973, pp29-39. (citato da Sandro Bernardi, Il
paesaggio nel cinema italiano, Venezia , Marsilio, 2002 , p.29)
6
Cfr. J. Ritter, Paesaggio. Uomo e natura nell’età moderna, Milano, Guerini e associati,
1994, p. 47.(citato da Sandro Bernardi, Il Paesaggio nel cinema italiano, Venezia, Marsilio,
2002, p.24)
7
Cfr. ibid. p. 47
5
evasione dalla città, era seguita dalla disillusione per il
fatto che la città rappresenta sì angustia ma anche
ragione e scienza, necessarie e al contempo “scippatrici”
della genuinità e completezza della natura), lo studioso
indica nel paesaggio il mezzo attraverso cui preservare
sia il mondo del progresso scientifico sia l’ambiente del
creato. E’ dunque una posizione erronea quella assunta
dai romantici che negano il processo di sviluppo e
acculturazione per rifugiarsi in una sorta di rimpianto e
nostalgia dello stato di natura.
Questa opposizione va decisamente superata dato
che il paesaggio si configura come risorsa primaria per
risolvere il contenzioso. La conferma si trova ancora una
volta nelle parole di Ritter: “Libertà è essere al di sopra
della natura domata. Perciò la natura in quanto paesaggio
può esistere, nella società moderna, solo nella condizione
di libertà”
8
.
Se il rapporto uomo-mondo possiede quindi tali
caratteristiche, oltre alla nutrita disparità di vedute in
merito alla nozione di paesaggio, se ne deduce che il
quadro complessivo sia più articolato del previsto.
In realtà è al concetto di paesaggio che si deve
necessariamente ritornare.
Distante sia dalla concezione romantica (connotata
nel complesso da una visione scura, problematica), sia da
quella più fiduciosa di Ritter, il paesaggio si rivela, se
attentamente esaminato, come quello che fu in origine e
che è sempre rimasto tra le righe: una costruzione
artificiale, un “artificio” appunto, e per dirla con le
parole di Bernardi “una scenografia stesa sopra la parte
8
Cfr. J. Ritter, Paesaggio. Uomo e natura nell’età moderna, Milano, Guerini e associati,
1994, p.61 (citato da Sandro Bernardi, Il paesaggio nel cinema italiano, Venezia, Marsilio,
2002, p.25)
6
misteriosa della natura, una proiezione dell’animo umano
sopra un oggetto che era e rimane sconosciuto e strano”
9
.
Occultare la vera identità della natura: questo pare
il risultato quasi ovvio di un costrutto mentale che, dal
momento stesso della sua creazione, non svolge altra
funzione se non questa, magari in maniera implicita e
non sempre consapevole, ma il dato rimane.
D’altra parte il paesaggio anche in alcune pagine di
Humboldt
10
risente di una concezione di struttura che
deve moltissimo all’idea di “quadro” o, meglio, di
composizione pittorica.
Lo stesso sguardo chiamato in causa per l’analisi e
la decodifica agisce sulla base delle regole di visione
utilizzate per la pittura occidentale; viene da pensare in
maniera subitanea alla codificazione della visione
prospettica di Leon Battista Alberti e a tutta la tradizione
pittorica sviluppatasi sulla sua scorta.
Il paesaggio si può quindi classificare come un
meccanismo di visione falsata, un apparato di “finzione”,
una “simulazione”.
Nuovamente le parole di Bernardi
11
ci vengono
incontro: “E’ vero che possiamo vedere la natura solo
con l’ausilio delle forme, ma le forme sono culturali e di
fatto ci impediscono di vedere al di là di esse
(paradosso)”.
Il paradosso in questione apre allora un fronte di
crisi che cercheremo di arginare rivolgendoci ai più
recenti sviluppi in materia sociale, antropologica e
filosofica.
9
Cfr. Sandro Bernardi, Il paesaggio nel cinema italiano, Venezia , Marsilio, 2002, p.30.
10
Cfr. A. von Humboldt, Quadri della natura, Firenze, La Nuova Italia, 1998, passim
(citato da Sandro Bernardi, Il paesaggio nel cinema italiano, Venezia, Marsilio, 2002, p.21)
11
Cfr. Sandro Bernardi, Il paesaggio nel cinema italiano, Venezia, Marsilio, 2002, p.30)
7
1.2 Significazione del paesaggio
Evidenziato il fatto che il paesaggio si rivela come
costruzione mentale e come “simulazione”, non si può
non chiedersi se non vi sia qualche altro elemento
importante o un’ulteriore chiave di lettura di tale oggetto
d’analisi.
Come non domandarsi infatti se il paesaggio non
costituisca un insieme eterogeneo di simboli e segni
disseminati al suo interno e in attesa di decodifica?
Viene da pensare che il nodo centrale della
questione sia proprio questo e riguardi in particolar modo
l’ambito dei segni e della “significazione” del paesaggio.
E’ la semiologia stessa a confermare queste
supposizioni, quando in una delle formule più note
ribadisce l’assunto che un oggetto creato come oggetto
d’uso, quando è riconoscibile come tale, assume
immediatamente la valenza di segno. Ecco ad esempio il
pensiero di Roland Barthes in merito che afferma “ La
funzione si compenetra di senso; questa semantizzazione
è fatale: per il solo fatto che vi è società ogni uso è
convertito nel segno di questo uso”
12
.
Vi sarebbero quindi miriadi di segni inseriti nel
paesaggio, rendendolo simile ad un testo da decifrare o,
meglio ancora, da leggere.
Segni definibili come elementi antropici, dovuti
cioè all’azione dell’uomo sull’ambiente e in particolar
modo sul paesaggio.
Questo volendo far proprie le tesi di Assunto
13
, il
quale sostiene che il paesaggio sia un elemento
12
Cfr. Roland Barthes, Elementi di semiologia, Torino, Einaudi, 1966
13
Cfr. Rosario Assunto, Il Paesaggio e l’estetica, Napoli , Giannini, 1973
8
mediatore all’interno del sistema natura-cultura e non un
contenitore di ecologia e storia.
La questione verterebbe quindi sulla condizione
di paesaggio come interfaccia tra uomo e ambiente,
elemento mediatore fra due sistemi, quello culturale e
quello naturale.
In un testo di Turri
14
viene proposta
un’interessante tesi riguardo il paesaggio e la sua valenza
nel mondo attuale, tesi che si basa sulla similitudine del
paesaggio inteso come teatro, come scenario in cui si
svolge l’agire umano.
Scenario che non è un semplice spazio fisico ma
è un luogo che dà la possibilità all’individuo di esplicare
sé stesso, le sue prerogative e potenzialità: il suo farsi
soggetto agente ma anche il suo essere spettatore del
proprio operato e di quello altrui.
Proprio tale condizione, la compresenza non
necessariamente disgiunta di un’istanza attiva, agente e
di una in qualche modo passiva, contemplativa,
utilissima perché in grado di ripensare al momento
dell’agire, risulta il tratto caratteristico della situazione
descritta.
La presenza dell’attitudine all’osservare,
condizione sine qua non per accedere all’analisi, si rivela
qui essenziale alla pari della condizione di distacco
dall’oggetto d’analisi: condizione che presuppone come
modalità di approccio l’estraniamento e tutto ciò che ne
consegue.
Risulta evidente l’impossibilità di operare ad una
distanza eccessivamente ravvicinata, dato il rilevante
14
Cfr. Eugenio Turri, Il Paesaggio come teatro, Venezia, Marsilio, 1998
9
coinvolgimento emotivo ipotizzabile in una situazione di
prossimità.
Partendo da simili considerazioni l’inevitabilità
del distacco, nelle sue molteplici sfaccettature, manifesta
tutta la sua necessità. Appare difatti arduo analizzare una
situazione in cui ci si trova coinvolti senza adeguati
strumenti di filtraggio.
L’estraniamento diviene quindi la cifra stilistica
dell’essere spettatore o una componente non trascurabile
di detta condizione; di durata provvisoria o permanente,
consiste in un allontanamento dall’agire o in un
differente posizionamento in merito ad esso.
E’ comunque opportuno insistere sulla differenza
fondamentale tra la funzione di attore, soggetto “dentro”
il paesaggio e quella di spettatore, soggetto “fuori”,
totalmente slegato dal contesto che gli si propone.
Come sostiene Turri
15
“ Farsi spettatori comporta
quindi un estraneamento, per quanto provvisorio, rispetto
all’agire, necessario e vitale non meno dell’agire, perché
solo in tal modo si fanno emergere i nodi del vivere”.
L’estraneamento rappresenta dunque la modalità
d’approccio all’ambiente privilegiata (o forse unica) e
consente di “vedere” il paesaggio circostante che sempre
più si configura come scenario.
Ed è una visione quasi primigenia, maggiormente
prossima all’oggettività (nonostante la soggettività del
vedere rimanga incancellabile), come se il velo
dell’illusione, il velo di Maya, fosse scomparso.
15
Euegnio Turri, Il paesaggio come teatro. Dal territorio vissuto al territorio
rappresentato, Venezia, Marsilio, 1998, p. 30
10
Se per ottenere il massimo di oggettività si deve
ricorrere ad una osservazione dall’esterno (da fuori), la
tipologia di sguardo derivante sarà caratterizzata dalla
lontananza e dalla complessità d’analisi di un oggetto
che semplice non è.
Questo significa che lo sguardo dovrà essere
attento ad evidenziare gli elementi portanti e le
caratteristiche salienti del paesaggio, tutte quelle forme,
immagini e prodotti dell’agire umano che rispondono al
nome di iconemi: le immagini di cui si compone il
paesaggio e, in realtà, i segni riscontrabili in esso.
In proposito Turri ancora afferma che “Iconemi
sono in tal senso le unità elementari della percezione: le
immagini che rappresentano il tutto, che ne esprimono la
peculiarità…Iconema è un segno –nel senso sopradetto-
che in quanto elaborato e selezionato dal meccanismo
percettivo, assume valore simbolico e funzionale (il
symbolon , frammento rappresentativo del tutto, secondo
il significato originario) nella visione del percettore”.
16
Sulla scia di tali riflessioni si può tentare una
similitudine tra gli iconemi e i fonemi: come questi
ultimi sono le unità minime fondamentali del discorso
(le sue parcellizzazioni estreme), così i primi sono le
unità più semplici e allo stesso tempo più rappresentative
del paesaggio, essendo in grado di significare per esso
anche a dimensioni ridotte.
Una concezione simile presuppone un corollario
piuttosto evidente: il paesaggio così inteso diventa un
testo che si può scomporre nei suoi elementi minimi e
sezionare in maniera accurata.
16
Eugenio Turri, Il paesaggio come teatro. Dal territorio vissuto al territorio
rappresentato, Venezia, Marsilio, 1998, p.170
11
Ciò non significa che l’analisi sia così meno
complessa, ma che una metodologia sufficientemente
chiara e praticabile è possibile.
E’ allora piuttosto urgente l’esigenza di sgombrare
il campo da equivoci riguardanti la nozione di paesaggio,
sovente distorta nel sentire comune e non sempre a torto,
come è della stessa urgenza soffermarsi sulla nozione di
luogo e, meglio, su quella di nonluogo, che incontreremo
nel prossimo paragrafo.
Per ora è sufficiente ricordare che il paesaggio
risulta in continuo movimento, suscettibile di mutamenti
repentini dal momento che è un qualcosa di vivo (o
vivente, riallacciandoci all’elemento antropico in esso).