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nella seconda parte viene messo in evidenza se e per quali motivi Garage Olimpo
possa essere considerato realistico, con un’analisi non solo del film stesso, ma
anche del suo backstage. Infine il sesto capitolo: uno studio dei due protagonisti
del film e del loro rapporto in chiave psicologica, con una premessa nella quale
vengono illustrati il fenomeno della Sindrome di Stoccolma e i principali
meccanismi di difesa dell’uomo in una situazione di pericolo.
Da ultimo, il settimo capitolo: una sorta di breve inchiesta sugli effetti
del film, sulle reazioni che ha - o non ha – scatenato: un’analisi che ascolta la
voce del Sud America e dell’Europa, della gente comune e delle autorità
pubbliche, tra il successo di critica e il successo di botteghino.
5
1.
Marco Bechis
1.1 Chi è Marco Bechis?
Un ex militante di sinistra, un videoartista, un regista, un difensore dei
diritti umani? Marco Bechis è tutto questo contemporaneamente.
Nasce a Santiago del Cile nel 1957 da madre cilena di origine svizzero-
francese e padre italiano e vive in Argentina per vent’anni; cresce a San Paolo e a
Buenos Aires, dove lavora come maestro e partecipa attivamente alla vita politica
al fianco degli oppositori del regime, e il 17 aprile 1977 viene sequestrato e
detenuto per quattro mesi dai torturatori argentini in un carcere clandestino
chiamato “Club Atlético”. La spiacevole avventura si conclude con la liberazione
e con l’espulsione dall’Argentina appunto per motivi politici.
Approda in Italia e si stabilisce a Milano, trascorrendo però anche lunghi
periodi a New York, Los Angeles e Parigi; nel 1980 infatti è a New York dove
studia economia e si avvicina alla video-arte.
Nel 1982 è di nuovo a Milano. Qui realizza un’esposizione videografica
(la ricostruzione di un campo di concentramento argentino) in collaborazione con
Amnesty International e partecipa ad una scuola di cinema, l’Albedo. A Milano
realizza anche i suoi primi cortometraggi: Mi sembra di averlo già visto (1982,
40’), Absent (1984, 7’), Dall’ascensore (1986, 20’), Esterno tango (1987, 35’) e
Storie metropolitane (1988, una raccolta di cortometraggi ognuno della durata di
7’ circa). Nel 1991 esordisce nel lungometraggio con un film sulla Patagonia,
Alambrado, che riscuote un discreto successo.
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Nel 1994 muore Luca, suo grande e carissimo amico, e Bechis, con altri
compagni, costituisce una piccola troupe improvvisata e parte per l’India per
gettare le ceneri dell’amico buddista. Risultato di questo viaggio è Luca’s Film
(1996), un documentario girato tra l’India e Milano e presentato al Festival di
Locarno.
Nel frattempo nel 1995 il regista si era recato in Bosnia, dove aveva
conosciuto il giornalista Gigi Riva col quale aveva progettato la sceneggiatura di
un film per l’appunto sulla realtà bosniaca. Tornato in Italia aveva trovato un
produttore, ma in seguito ad alcune incomprensioni Bechis è costretto ad
abbandonare il progetto che viene però realizzato dal produttore - detentore dei
diritti della sceneggiatura - e il film esce lo stesso col titolo Il carniere (1997).
Tornato dalla Bosnia, Bechis incomincia a lavorare al suo secondo
lungometraggio, Garage Olimpo: un film sui campi di concentramento argentini
che esce nel 1999 e viene presentato al 52° Festival di Cannes, nella sezione
ufficiale “Un certain regard”. La pellicola ottiene una lunga serie di
riconoscimenti internazionali quali, per indicarne alcuni: David di Donatello
come Miglior Produttore nel 2000
1
; Ciak d’oro come Miglior Montaggio; Globo
d’oro come Miglior Film Italiano, Miglior Sceneggiatura, Miglior Opera Prima.
Nel 2001 esce il suo terzo, e per ora ultimo, lungometraggio: Hijos, un
film sui figli dei desaparecidos, in continuità tematica con Garage Olimpo, che
viene presentato in concorso al 58° Festival di Venezia.
Attualmente Marco Bechis vive a Milano.
1.2. Il cinema di Marco Bechis
La sfera politica in Bechis appare come la diretta, ma non scontata,
conseguenza di una dolorosa conoscenza dei (mis)fatti, che rimettono in
discussione molti principi e molte premesse psicologiche, morali, parentali ed
1
Cfr. i dati riportati nell’archivio dell’Istituto Luce.
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affettive. I suoi film sono principalmente parabole educative in cui i protagonisti
si presentano – e non potrebbe essere diversamente – giovani. La loro condizione
anagrafica assume spesso un significato emblematico e tendenzioso, poiché
obbliga lo sviluppo narrativo a coincidere con quello formativo.
Il cinema di Bechis riesce a trasformare la verità in un percorso
contraddittorio, tortuoso, ma indispensabile, secondo un’impostazione educativa
che non è tuttavia didascalica né edificante, ma che chiama in causa la coscienza
di chi sa, non sa o non vuole sapere, senza distinzioni. Un meccanismo, questo,
che certamente appare più evidente nella continuità tematica che lega Garage
Olimpo a Figli/Hijos.
Ma va aggiunto che, fondandosi su una forte istanza educativa, questo
cinema non si esaurisce nella sua componente polemica e di denuncia, ma
assume una forte e imprescindibile connotazione simbolica, che consente ad
Alambrado di risultare assai meno distante da Garage Olimpo e Figli/Hijos,
nonostante la mancanza di una continuità tematica.
Non a caso con Figli/Hijos Bechis ha inteso proseguire il discorso
impietoso di scavo iniziato con Garage Olimpo.
8
2.
Garage Olimpo: solo un film?
Anno: 1999; Genere: Drammatico; Colore: C; Regia: Marco Bechis;
Sceneggiatura: Marco Bechis, Lara Fremder; Fotografia: Ramiro Civita;
Suono: Marcos de Aguirre; Montaggio: Jacopo Quadri; Musica: Jacques
Lederlin; Interpreti: Antonella Costa (Maria), Carlos Echevarria (Félix),
Dominique Sanda (Diane), Chiara Caselli (Ana), Paola Bechis (Gloria),
Enrique Piñeyro (Tigre), Pablo Razuk (Texas), Marcelo Chaparro (Turco),
Miguel Oliveira (Nene), Adriàn Fondari (Rubio); Produzione: Amedeo Pagani
per Classic/ Paradis Films/ RAI – RAI Cinema/ Tele +; Distribuzione: Istituto
Luce; Origine: Italia/ Francia/ Argentina; Durata: 98’.
Protagonista della storia è una giovane maestra, Maria (Antonella Costa),
che vive con la madre, Diane (Dominique Sanda), in una bella e vecchia casa in
declino di cui affittano alcune stanze.
Sotto la copertura neanche tanto prudente del suo lavoro di maestra nelle
bidonville, Maria è una fiera oppositrice del regime, come Ana (Chiara Caselli),
capace di andare a piazzare una bomba sotto il letto di un alto ufficiale che si dà
il caso sia il padre di un'amica
2
.
Anche uno degli inquilini di casa, Felix (Carlos Echevarria), un
misterioso ragazzo senza famiglia e senza storia, forse innamorato di Maria, ha
una vita segreta: lavora da manovale dell'orrore al Garage Olimpo, una delle
tante case di tortura sparse per Buenos Aires, dove i militari perseguitano i loro
prigionieri.
E' lì che, dopo un blitz improvviso, viene portata e tenuta prigioniera
Maria, mentre fuori la sua vita viene fatta a pezzi. E capita che il suo carceriere
2
L’episodio è realmente accaduto.
9
sia proprio Felix. Il quale, travolto da una sindrome di Stoccolma al contrario,
innamorato della ragazza, fa tutto quello che è possibile in una situazione così
perversa e inarrestabile per alleviarle la prigionia, senza accorgersi che Maria si
muove ascoltando solo il suo istinto di sopravvivenza. E senza che ci sia
speranza alcuna di un lieto fine.
Tra i due ragazzi nasce una relazione che dura fino a quando Felix decide
di portare Maria a fare un giro per Buenos Aires a patto che non scappi; rientrano
troppo tardi e il nuovo ufficiale dà disposizioni perché la ragazza venga
“trasferita”: Maria viene sedata e caricata (alla stregua di una merce) su un
camion e poi messa su un aereo. Ora è definitivamente una desaparecida.
2.1. La regia di Marco Bechis
Che cosa rappresenta ai nostri occhi una grande metropoli? Progresso,
civiltà, sviluppo, benessere, sono forse alcuni dei concetti che possono rispondere
a questa domanda.
Bechis apre il film con un piano-sequenza: la macchina da presa, situata
sul pelo dell’acqua del Rio de la Plata che lambisce Buenos Aires, si alza
progressivamente e contemporaneamente avanza verso la città fino a sorvolarla.
Nel corso della pellicola torneranno più volte queste panoramiche a volo
d’uccello che il regista utilizza per stravolgere il concetto di città: non più luogo
di progresso, quanto di tortura e di barbarie. Queste riprese in qualche modo
allargano all’intera metropoli quella realtà orribile costituita dai centri di tortura,
dei quali nel film viene emblematicamente rappresentato solo il Garage Olimpo.
Le rappresentazioni diurne della capitale argentina si limitano a riprese
brevi e anonime ma estremamente significative per la loro funzione di contrasto
rispetto alle scene girate in interni le quali sono nettamente predominanti. Ci
sono però dei passaggi che fanno eccezione e nei quali la città da contenitore
torna ad essere luogo agito dai personaggi: ad esempio quando nelle sequenze
iniziali vediamo Maria che insegna a leggere e scrivere a persone disagiate nella
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periferia di Buenos Aires; oppure quando la madre di Maria e un’altra donna
argentina effettuano ricerche per ritrovare rispettivamente la figlia e il marito; o
ancora quando Felix porta Maria in giro per la città.
Ad ogni modo, come accennato, il film è prevalentemente girato in
interni, quelli del Garage Olimpo. Per realizzare le lunghe sequenze ambientate
all’interno del campo di concentramento Bechis fa uso unicamente della luce
naturale e non ricorre mai al carrello, ma fa largo uso della camera a mano,
sempre ad altezza uomo. L’assenza di illuminazione artificiale svolge la funzione
di testimone fedele della situazione all’interno del garage, mentre l’uso della
macchina a mano permette di seguire gli attori come se noi camminassimo verso
di loro. Abbiamo una sola inquadratura dall’alto in interni, quando Maria, avendo
tentato di fuggire ed essendo stata subito prontamente ricatturata, viene portata
nuovamente all’interno del garage e minacciata di essere uccisa con
un’esecuzione istantanea. Il cambiamento di visuale è estremamente efficace e
significativo in quanto trasmette allo spettatore un senso di impotenza, lo stesso
provato dalla ragazza di fronte alla violenza che la sovrasta: è l’immagine della
sconfitta e della rassegnazione.
Notevole anche la consapevolezza nell’uso della struttura circolare: la
sequenza iniziale, altrimenti difficilmente comprensibile, viene chiarita da quella
finale, con tutta la sua implicita drammaticità.
2.2. Garage Olimpo: un simbolo o una denuncia?
In seguito alla sentenza del 6 Dicembre 2000 della seconda Corte
d’Assise di Roma contro i militari argentini (alcuni ergastoli e lunghe pene
detentive), in particolare sette ex alti ufficiali rei della scomparsa di diversi
cittadini con passaporto italiano durante la dittatura, è stata inoltrata una formale
richiesta di estradizione che, seppur non accolta, testimonia la volontà di non
lasciare cadere nell’oblio fatti tanto gravi.
Si potrebbe dire che la stessa volontà animi Garage Olimpo.
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Per quanto atroci, i crimini compiuti dalla dittatura militare argentina non
sono molto noti: non più cronaca, non ancora facenti parte a pieno titolo della
“storia”, si trovano in un limbo (anche geografico) di cui poco si parla e ancor
meno si studia. Il rischio è che fra qualche decennio, quando la fine del XX
secolo sarà oggetto consolidato di studio scolastico, queste barbarie vengano
comunque lasciate in un secondo piano e che la cifra di 30.000 morti circa faccia
un effetto pressoché nullo. Del resto cosa sono 30.000 dissidenti argentini
rispetto ai milioni di russi morti in Siberia o ai milioni di ebrei scomparsi nei
lager nazisti? Le cifre da sole non riescono mai a fornire almeno un’impressione
di quello che può essere successo.
Fatta questa premessa, risulta comprensibile ed estremamente
consapevole la scelta di Marco Bechis di trattare il tema dei desaparecidos
attraverso un film che si avvicina molto ad una denuncia, ma non lo è,
soffermandosi su uno solo dei numerosi campi di concentramento disseminati
nel sottosuolo della città di Buenos Aires, lasciando poi all’immaginazione dello
spettatore il compito di moltiplicare tale orribile realtà (le panoramiche su
Buenos Aires lasciano intuire anche questo: la violenza e la tortura non erano
proprie solo di quel “garage”).
Una panoramica più ampia, cioè tale da prendere in considerazione un
vasto numero di centri di tortura, avrebbe corso il rischio di rivolgere l’attenzione
prevalentemente all’entità del fenomeno (comunque sottolineata), distogliendola
però dal tema fondamentale della violenza disumana esercitata in ciascun centro:
è più facile estendere ad un’intera città quanto visto a proposito del “Garage” del
film piuttosto che immaginare aspetti non rappresentati delle torture e in generale
del funzionamento di quella macchina di morte così perfetta.
Ecco perché Bechis ci fornisce il quadro di uno questi centri, poco
importa che alla fine esso si chiami Garage Olimpo o con altro nome. La sua
stessa esperienza personale (imprigionato e torturato per dieci giorni nel Club
Atlético) lo ha aiutato a ricostruire in modo preciso le atrocità che si
commettevano nei campi di concentramento della dittatura.
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Siamo certamente abituati all’idea di un operaio che fa i turni di lavoro e
che timbra il cartellino; vedere invece un aguzzino che prima di dedicarsi alle sue
vittime timbra regolarmente il cartellino ci appare senza dubbio una stranezza.
Eppure questo gesto, come altri magari in apparenza scarsamente importanti, è
fondamentale: ci trasmette un senso di routine, di abitudine, per quella che è
un’attività (sempre che così la si possa definire) terribile. Fare il torturatore, in
fin dei conti, per le persone in questione, era un “mestiere” come un altro. È
terribile pensare a quale assuefazione alle più terribili violenze si fosse arrivati
per considerarle qualcosa di “normale”, “abitudinario”. Lo stesso colonnello, al
ritorno a casa, afferma di essere stanchissimo per la dura giornata di lavoro;
poche sequenze prima lo abbiamo visto nel pieno svolgimento delle sue
mansioni: controllare il regolare imbarco in aereo dei condannati ad essere gettati
vivi in mare o nel Rio de la Plata.
Siamo di fronte ad individui che hanno perso la loro umanità: sono come
automi per i quali giocare a ping-pong o ascoltare la radio durante la pausa e
seviziare degli esseri umani sono gli aspetti abitudinari del lavoro: l’esercizio,
per di più continuo e atroce, della violenza li ha privati della capacità di percepire
il senso e l’atroce valore della violenza stessa.
La vittima, legata nuda al tavolo dove viene ripetutamente torturata,
appare simile ad un pezzo meccanico in una fase della catena di montaggio;
questo accresce l’orrore ai nostri occhi, mentre per gli aguzzini è la pura e
semplice normalità. Il degrado al quale questa violenza porta è ulteriormente
testimoniato dal fatto che i torturatori, ogni qualvolta sia possibile, non esitano a
trasformarsi in ladri, a partire dai piccoli furti (la valigia di orologi nella camera
di Felix), fino ad impossessarsi delle abitazioni delle vittime, acquistandole
prima con regolare contratto, ma a prezzo bassissimo, dai parenti di queste ultime
dietro la promessa di aiuto o di poter vedere il familiare sequestrato, assassinando
poi il venditore per rientrare in possesso del denaro (esattamente ciò che succede
nel film alla madre di Maria).