Ci troviamo quindi di fronte al coerente completamento di quella
metafisica della luce che Bruno già a partire dalla sua prima opera
filosofica (il De umbris idearum, pubblicato a Parigi nel 1582) aveva
cominciato a delineare, sebbene seguendo più fedelmente i criteri del
linguaggio magico-ermetico (gli stessi che adotterà scrivendo le sue
ultime opere: il De magia, il Theses de magia, il De magia mathematica
e il De vinculis in genere).
Il concetto di infinito assume nei dialoghi metafisici una centralità tale
da coinvolgere tutte le dimensioni dell'esperienza umana: dalla
gnoseologia al mondo naturale, dalla religione all'etica: si tratta quindi
di un'idea che non si lascia affatto ridurre al solo ambito metafisico, e
che viene invece a coinvolgere - simultaneamente - tutti i nodi
concettuali della nolana filosofia. Da questo punto di vista, se è vero
che ogni filosofia è condizionata da un tema centrale, e come tale si
presenta come sviluppo di una intuizione originaria, allora si potrebbe
pacificamente concordare con Carlo Monti quando sostiene che «il
motivo dominante della filosofia bruniana è costituito da una continua
spiegazione dell'idea di infinito, dove l'infinito è insieme Dio, Verità,
Bene, Uno e tutto l'universo [...]. Il discorso bruniano sull'infinito è
dunque discorso cosmologico e metafisico insieme; esso dovrà essere
analizzato e seguito in tale sua duplice dimensione»[3]. In effetti
l'analisi del concetto di infinito in Bruno deve necessariamente passare
attraverso lo studio di tutti i grandi temi del suo pensiero filosofico,
dalla cosmologia alla metafisica, dall'etica alla religione, dalla teologia
alla magia. E' addirittura possibile sostenere che tutti questi motivi
possono essere coordinati proprio dalla teoria infinitista, che a molti di
essi fornisce anche una relativa impalcatura concettuale.
Ma alla fine, proprio grazie all'analisi dei testi metafisici, si dovrà
sorprendentemente concludere che l'infinito non è il nocciolo teoretico
esclusivo della nolana filosofia. La centralità dell'infinito infatti non
presuppone mai l'abbandono del finito, del minimo, del limitato. Lo
scopo di questo studio è appunto quello di mostrare come l'infinito sia
una delle tante conseguenze logico-metafisiche dell'adozione
spregiudicata della filosofia binaria, cui fa eco un utilizzo altrettanto
spregiudicato della magia naturalis, sia a livello teoretico che pratico.
Il mio tentativo è quindi quello di mostrare come la teoria dell'infinito
non sia in Bruno comprensibile a prescindere dalla considerazione del
suo contrario: il finito.
In realtà - questo è quello che emerge dai dialoghi metafisici - la
discussione dell'infinito trova una sua collocazione precisa solo
all'interno della misteriosa, magica, filosofia binaria, quella dei
contraii: «chi vuol sapere massimi secreti di natura, riguardi e
contemple circa gli minimi e massimi degli contrarii e opposti.
Profonda magia è saper trar il contrario dopo aver trovato il punto
d'unione»[4], aveva dichiarato Teofilo-Bruno nel De la Causa. Come
aveva ben compreso Nicola Badaloni - senza peraltro approfondire
adeguatamente questa tematica - secondo Bruno Aristotele non ha
saputo vedere in ogni soggetto (e nell'Essere totale) l'elemento della
contrarietà. Aristotele ha mantenuto l'opposizione logica «ma non
seppe vedere la forza che sprigionava dalla contrarietà fisica, certo
impastata di anima del mondo, che fa della materia un principio attivo,
non solo privativo, e un punto fermo per la ricerca sulla natura che,
quando è stata feconda, mai si è lasciata fermare dalle barriere rigide
della non contraddizione logica»[5].
E infatti dichiarerà il Nolano: «A questo [a saper trar il contrario dopo
aver trovato il punto d'unione] tendeva con il pensiero il povero
Aristotele, ponendo la privazione (a cui è congionta certa disposizione)
come progenitrice, parente e madre della forma; ma non vi poté
aggiungere. Non ha possuto arrivarvi, perché fermando il pié nel geno
de l'opposizione, rimase inceppato di maniera che, non descendendo
alla specie de la contrarietà, non giunse, né fissò gli occhi al scopo; del
quale errò a tutta passata, dicendo i contrarii non posser attualmente
convenire in soggetto medesimo»[6]. Il principio di non-contraddizione
doveva insomma negare - per Bruno - il divenire, e quindi la vita
dell'universo stesso. Ma nel mondo divino ogni cosa diventa ogni cosa:
c'è sempre compresenza di essere e non-essere-ancora. L'esistenza non
è mai immobile, ed è impossibile bloccare l'infinita catena dell'essere,
anche solo per un istante.
Da un punto di vista epistemologico queste posizioni erano già state
chiarite nel De umbris idearum, e mostrerò in seguito come esse siano
perfettamente coerenti con gli sviluppi finali della metafisica binaria.
La negazione del principio di identità e di non-contraddizione
rappresenta appunto il momento fondamentale della filosofia binaria di
Bruno e, ovviamente, di ogni filosofia magica.
Anche Umberto Eco, pur confessando da parte sua di credere ancora al
principio di identità, ha ricordato che «si può parlare di simpatia e
somiglianza universale solo se si rifiuta questo principio e quello di non-
contraddizione. La simpatia universale è effetto di una emanazione di
Dio nel mondo, ma all'origine dell'emanazione sta un dio inconoscibile,
che è la sede stessa dell'emanazione [...]. Il pensiero ermetico dice che
il nostro linguaggio, quanto più ambiguo, polivalente, e si avvale di
simboli e metafore, è particolarmente adatto a nominare un Uno in cui
si realizza la coincidenza degli opposti. Ma dove trionfa la coincidenza
degli opposti cade il principio di identità»[7].
Utilizzando in modo spregiudicato la cusaniana coincidentia
oppositorum, Bruno sostiene che l'Uno si svolge esplicandosi in una
infinità di forme, che esso poi complica come totalità. E' quindi
possibile risalire dalla molteplicità all'Uno, attraverso però la
mediazione dell'umbra: il sistema magico mnemotecnico del De umbris
è appunto costruito su questa idea e sulla convinzione di poter
conoscere tutto da tutto. Questa possibilità è data evidentemente
proprio dalla negazione esplicita del principio di non-contraddizione.
La logica dei contrari, in aperta opposizione a quella aristotelica,
coinvolge sintomaticamente anzitutto il piano metafisico, l'Unum.
Nell'Uno vi è infatti - assolutamente - coincidenza di complicatio ed
explicatio, di minimo e massimo, di ombra e luce. Il mistero che
avvolge la modalità di questo essere - allo stesso tempo - minimo e
massimo, provoca il sistema dell'analogia razionale e della magia
teurgica: due metodiche meno che mai antitetiche, che devono essere
invece sapientemente coordinate dal mago-filosofo al fine di ottenere
non solo la reale affermazione dell'autonomia umana in campo religioso
ed etico, ma anche una crescita spirituale che permetta il divinizzarsi
della vita e il realizzarsi di un progresso infinito. In sostanza è ancora
una volta operante il sistema analogico: dall'infinità di Dio Bruno giunge
all'infinità della natura e dell'uomo che in essa vive. La distruzione di
tutte le gerarchie, cosmologiche o morali che siano, è il frutto di
questa operazione analogica.
Né si deve concludere che Bruno abbia optato per una divinizzazione
totale e completa dell'uomo grazie al semplice abbattimento
dell'ultima sphaera mundi: il progresso richiede infatti un tempo
infinito, un contatto diretto con la divinità, una ciclica vicissitudine
universale. Per di più, tra l'uomo e Dio è posto un limite metafisico,
un'ombra che - sempre all'interno della filosofia dei contrari - risulta di
doppia natura. Si tratta infatti di un'ombra che può essere rischiarata,
ma mai definitivamente. Questo limite misterioso è quindi -
magicamente - frangibile ed infrangibile al tempo stesso.
Questa idea mi è stata suggerita da un passaggio apparentemente di
scarso rilievo, esposto proprio nelle prime battute della Cena.
All'apertura del dialogo metafisico, Bruno aveva infatti definito il
numero binario come misterioso. Sollecitato a dare una spiegazione
(«perché avete detto, Teofilo, che il numero binario è misterioso?»),
Teofilo-Bruno risponderà per modo di passaggio: «Perché due sono le
prime coordinazioni, come dice Pitagora, finito ed infinito, curvo e
retto, destro e sinistro, e via discorrendo. Due sono le spezie di numeri
pare ed impare, de' quali l'una è maschio, l'altra è femina. Doi sono gli
Cupidi, superiore e divino, inferiore e volgare. Doi sono gli atti della
vita, cognizione ed affetto. Doi sono gli oggetti di quelli, il vero e il
bene. Due sono le specie di moti: retto, con il quale i corpi tendeno
alla conservazione, e circulare, col quale si conservano. Doi son gli
principi essenziali de le cose, la materia e la forma. Due le specifiche
differenze della sustanza: raro e denso, semplice e misto. Doi primi
contrarii ed attivi principii, il caldo e il freddo. Doi primi parenti de le
cose naturali, il sole e la terra»[8].
Quello che si è appena letto è a mio parere il vero centro della nolana
filosofia: l'esposizione chiara e precisa della legge binaria, dei contrari.
L'infinito non può non essere, perché esiste il finito. E così nella realtà
binaria, ogni cosa ha il suo contrario: si tratta solo di saper decifrare la
natura seguendo gli insegnamenti dell'antica sapienza egizia,
dell'ermetismo, che Pitagora aveva mostrato di aver ben capito.
Lo scopo di questo studio è quindi anche quello di mettere in rilievo
come il concetto di infinito sia stato accolto dalla tradizione ermetica
(e come sostanzialmente, nonostante siano passati 30 anni, siano
ancora valide le tesi di Frances A. Yates), e come dall'altra le idee
fondamentali dell'ermetismo siano funzionali non solo alla
comprensione dell'infinito, ma anche di tutti i nuclei concettuali della
«nova filosofia» (come, ad esempio, dell'ars memoriae, dell'Anima
mundi, dell'ascesi mistica al divino, etc.). In particolare, proprio
l'accettazione della numerologia magico-simbolica e pitagorico-
ermetica metterà alla fine in evidenza come l'infinito non sia affatto
l'unico perno cui gira attorno tutta la fantastica ruota della filosofia
nolana, ma come esso deve invece essere collocato in una concezione
magico animistica del mondo (di cui l'infinito rappresenta appunto la
maxima explicatio, mentre il finito, rappresentando la minima
complicatio, ne garantisce la possibilità ontologica).
«Propria haec sunt vincula et potentissima, quae sunt per
approximationem contrarii»[9], ripeterà il Nolano in uno dei suoi ultimi
scritti, poco prima della cattura e della fine della sua esistenza libera.
A Venezia, nel 1592, Bruno veniva infatti arrestato dall'Inquisizione.
Imprudentemente, aveva accolto l'invito di un nobile veneziano, tale
Mocenigo, che voleva apprendere dal grande Mago di Nola i segreti per
sviluppare una memoria prodigiosa. A casa del patrizio veneto,
nonostante gli scarsi progressi del discepolo, che diventerà poi il suo
traditore, Bruno continuava a studiare l'arte mnemotecnica, ed era
totalmente immerso nell'esplorazione della antica magia, «la cui
restaurazione assumeva la valenza di una piena restaurazione dei modi
della religione antica [quella egizia], da riproporre in tempi nuovi»[10].
Bruno si interessò quindi attivamente di magia e mnemotecnica fino
alla fine della sua esistenza libera, fino alla fine della sua produzione
letteraria: questo è un elemento che non può non far riflettere chi si
vuole avvicinare alla nolana filosofia.
Bertrand Russel, nelle prime righe del suo saggio Misticismo e Logica,
ha sostenuto che «la metafisica, ossia il tentativo di concepire il mondo
come un tutto per mezzo del pensiero, si è sviluppata fin dall'inizio
grazie all'incontro e al conflitto di due impulsi umani diversissimi, uno
dei quali spinge gli uomini verso il misticismo, l'altro verso la
scienza»[11]. In Bruno questo conflitto ha visto una completa vittoria di
un misticismo di tipo magico, votato a divinizzare l'uomo mediante il
contatto con una divinità che è nella natura e che la trascende al
tempo stesso.
CAPITOLO I
MORFOGENESI DEL CONCETTO INFINITO: L'ERMETISMO.
«et haec magia est transnaturalis seu metaphysica, et proprio nomine
appellatur jeourgiéa»[12]
«In fine illud esi firmiter asserendum et mente tenendum, quod spiritu,
anima numine, Deo seu divinitate omnia sunt plena, et intellectus et
anima ubique totus et tota est...»[13]
1. La natura analogica del concetto di infinito.
Nella formulazione del concetto di infinito il primo punto di riferimento
è, naturalmente, l'Assoluto, Dio. L'analogia su cui si regge la teoria
infinitista è però a sua volta sostenuta da una posizione panteista del
tutto particolare, che trae le sue origini soprattutto dall'Ermetismo. Se
l'aspetto più evidente dell'infinito bruniano è la sua relazione con una
precisa impostazione cosmologica e teologica, allora risulta
maggiormente chiaro il nesso universo-Dio: l'universo è infinito perché
è esplicazione di un Dio infinito. Fulvio Papi aveva del resto fatto già
osservare che «il ragionamento che fonda l'infinito è di ascendenza
teologica»[14]: negare un effetto infinito significava negare la infinita
potenza di Dio. Posizione questa chiaramente ambigua, paradossale,
che era stata risolta dai medievali con una certa eleganza: per
S.Tommaso, per esempio, Dio, nonostante abbia una potenza infinita,
tuttavia non può creare qualcosa di increato (il che sarebbe far
coesistere due cose contraddittorie), e così non può nemmeno creare
una cosa assolutamente infinita[15]. Bruno, come vedremo, capovolge
di fatto il ragionamento: è inammissibile che Dio crei (e si manifesti in)
un mondo finito, perché ammettere questa ipotesi sarebbe come voler
porre un limite alla sua infinita potenza. Un Dio che è in qualche modo
limitato, o che non gode di una reale potenza assoluta, non è un Dio.
Appare quindi chiaro un primo elemento, di cui cercheremo conferma
nella lettura circostanziata dei testi: l'infinito è uno degli attribuiti di
Dio, o meglio la determinazione che qualifica in modo appropriato la
sua essenza e quindi le sue qualità, il suo modo di essere, di esplicarsi.
Poiché l'universo è espressione di questa potenza infinita, su di esso si
riflettono - per analogia - le stesse caratteristiche di infinità e
perfezione che rivestono l'Assoluto. Infinito è allora propriamente il
modo con cui Dio è il Tutto. Ma questo è solo un primo livello di
lettura, l'inizio di un vero e proprio labirinto di idee.
Ho sostenuto che per Bruno sarebbe assurdo limitare la potenza divina
sostenendo l'idea di un universo finito. E' bene precisare subito che
sotto questa affermazione si cela una precisa posizione metafisica,
cosmologica ed epistemologica insieme. L'universo non può essere
finito non solo perché è opera di Dio, ma perché Dio stesso è
nell'universo. La teoria infinitista di Bruno nasconde una posizione
radicalmente panteista, forse precedente e addirittura originaria.
Credo che in realtà questo panteismo, più volte fermamente ribadito,
provenga dalla tradizione ermetica (che Bruno accolse con fervore,
probabilmente leggendo Ficino), elemento che importanti autori
contemporanei hanno voluto fortemente ridimensionare o addirittura
escludere dal quadro interpretativo di Giordano Bruno. Mi riferisco in
particolare a Michele Ciliberto e Leen Spruit[16]. Più avanti questi
autori saranno ripetutamente citati, insieme e in contrapposizione a
Frances Amelia Yates, che per prima ha interpretato tutto lo
svolgimento storico della nolana filosofia (e non solo le opere tarde,
come ha fatto invece Corsano) all'interno di un quadro interpretativo
magico-ermetico. Questa ricerca ha però la presunzione di staccarsi sia
dall'una che dall'altra scuola interpretativa, e casomai, se possibile,
cercare di conciliare i due indirizzi. Pur conferendo una importanza
fondamentale agli elementi magico-ermetici, credo sia importante non
cadere nella trappola dell'aut-aut. E' possibile coordinare, senza che si
escludano a vicenda, entrambe le correnti. Anzi, dal loro opportuno
coordinamento possono nascere nuove prospettive, finora negate da
una esclusione vicendevole abbastanza netta. Il pensiero di Bruno è
frutto di una costruzione stratificata e complessa, che include una
molteplicità disorientante di elementi eterogenei: uno sguardo
d'insieme che non tenga conto di tale molteplicità risulta perciò
compromesso fin dall'inizio. Il sincretismo bruniano si riflette infatti
direttamente su tutti i livelli del suo pensiero, al punto che il discorso
cosmologico non è concepibile senza quello metafisico, quello
metafisico non lo è a prescindere da quello teologico, e così via[17]. E
il magismo ermetico entra a pieno titolo a far parte di questi livelli di
pensiero, in particolare di quello metafisico e gnoseologico.
2. Anche la questione gnoseologica, seguendo la struttura
metafisica della realtà, viene impostata secondo criteri analogici.
Anche una questione importante come quella gnoseologica viene risolta
su questo piano: sulla connessione, strettissima, tra cosmologia e
metafisica-ermetica. La problematica epistemologica si collega infatti
direttamente al concetto di scala naturae: una scala, non solo ideale
ma anche reale, di elementi e individui che unisce l'Unum al
molteplice. L'essere - che per Bruno è equivalente al concetto di vita,
nel senso di animato - coinvolge sia il piano della fisica che quello della
metafisica. Il punto di unione tra questi due livelli è costituito proprio
dal concetto di scala naturae, che fornisce quindi un notevole supporto
teoretico al panteismo bruniano. Ma del concetto di scala naturae e di
come sia un elemento fondamentale nel pensiero del Nolano,
parleremo più avanti. Per ora ritorniamo per un momento alla
questione dell'essere (che possiamo già distinguere in assoluto - quello
di Dio - e relativo - quello del mondo) e sulle implicazioni della sua
infinitudine a livello epistemologico. Poiché l'essere è infinito (sia
quello del mondo che quello di Dio - ma, come vedremo, in modo
qualitativamente diverso), la sua conoscenza è possibile solo per
ascesi. Da qui le ripercussioni in campo teologico sono evidenti: l'unica
teologia possibile sarà quella negativa, o meglio quella naturale. La
teologia diventa filosofia della natura, ossia, così come la intendeva
Bruno, ascesi.
L'ascesi, come vedremo, non è però alla portata di tutti. Si tratta
infatti di ripercorrere la scala degli esseri che dalla materia porta a
Dio: sarà quindi indispensabile l'utilizzo della mnemotecnica (di
ispirazione lulliana), della sapienza (ermetica e razionale, cioé quella
caratteristica della nova filosofia), il rifiuto netto e deciso del sapere
tradizionale, della «pedanteria», nonché, ovviamente, l'uso di tecniche
magiche. Si tratterà in effetti di una teologia tutt'altro che «negativa»,
proprio perché intrisa di elementi cosmologici e «naturali». Ovvie le
ripercussioni - di tutto rilievo - in ambito morale: alla distruzione del
sapere pedantesco (della tradizione aristotelica, ma soprattutto della
sua interpretazione medievale e del suo utilizzo in ambito teologico e
morale) si affianca la nuova visione dell'uomo, inteso secondo
l'espressione ermetica come «magnum miraculum» - un uomo che vive
nel cosmo infinito - e l'affermazione di una religione tutta naturale,
intrisa di elementi ermetici (culti solari, magia naturale, etc.).
Ora ci interessa però scoprire da dove nasce la concezione infinitista. Si
tratta di un'acquisizione scientifica? E' forse il frutto di una
speculazione filosofica? E' il necessario correlato alla corretta posizione
teologica (ossia al riconoscimento della infinità divina)? Certamente si
tratta di elementi tutti più o meno presenti nel pensiero dell'infinito,
ma a mio parere la «provenienza» deve essere ricercata piuttosto nella
formazione giovanile, quando Bruno studiò Pitagora, Platone e con loro
la filosofia greca, il neoplatonismo, e venne anche a contatto con la
filosofia ermetica, ovvero con il «pensiero magico». L'incontro con le
teorie di Copernico avviene in realtà quando la concezione infinitista,
almeno a livello embrionale, è già formata; e si tratterà di un incontro
tutt'altro che facile. L'inizio di questa ricerca è dato quindi dalla
relazione tra infinito e magia, relazione che, se non ho preso un
abbaglio, costituisce il nucleo originario del pensiero infinitista
bruniano.
3. La morfogenesi del concetto di infinito.
Come si può allora definire la morfogenesi dell'idea dell'infinito in
Bruno? Affermare che l'infinito è fondato su un «ragionamento
teologico» non deve certamente portare a limitare il discorso alla sola
teologia ed ampliarlo al massimo alla cosmologia. In realtà le cose
sembrano essere più complicate: ho sostenuto poc'anzi che la
problematica infinitista coinvolge direttamente anche la dimensione
epistemologica ed etica, tanto per fare due esempi lampanti. Ma
cercando in una prospettiva più ampia, la genesi del pensiero infinito
porta ad allargare enormemente il campo d'analisi. In effetti sembra
che in Bruno si siano congiunte due tradizioni infinitiste: una relativa
alla filosofia greca (dai presocratici e Plotino, fino al neoplatonismo
rinascimentale), l'altra propria dell'ermetismo e del magismo in
generale. Mia convinzione è che Bruno abbia tratto l'idea dell'infinito
anzitutto dalla tradizione ermetica, che essendo anche e soprattutto
«religione», è venuta saldando intuizioni già accolte dallo studio dei
greci. Per di più la filosofia tradizionale viene continuamente inserita
nelle esposizioni bruniane con modificazioni e adattamenti «di
comodo». Naturalmente non è opportuno chiudere il discorso al solo
ambito ermetico, perché sappiamo che in Bruno si mescolano apporti
diversi in un'unica sintesi. In particolare, il quadro neoplatonico è
particolarmente funzionale alla comprensione della «nolana filosofia»,
perché operante già a partire dal De umbris idearum: l'idea della
catena infinita che emerge nel quadro epistemologico e metafisico del
testo richiama appunto l'idea della degradazione dell'Essere
nell'esistente, e del relativo ritorno dell'esistente all'Ente: idea, questa,
di evidente matrice neoplatonica. Ma cercherò di mostrare poi come in
realtà esistano delle forti differenze tra la metafisica del Nolano e
quella di Plotino, soprattutto per il discorso della trascendenza
dell'Unum e della sua consistenza materiale.
Anche da un punto di vista strettamente storiografico è bene non
dimenticare che storicizzare il pensiero di Bruno significa anzitutto
ricollocarlo immediatamente nell'ambito della corrente del «magismo
rinascimentale», di cui egli stesso si sentiva in qualche modo
l'interprete più autorevole. Da un punto di vista psicologico, inoltre,
sappiamo che il pensiero magico è il risultato di processi inconsci - e
collettivi - che partono da lontano, nel tempo e nello spazio; essi sono
stati spesso considerati come strutture archetipiche collettive,
originarie. Nulla da stupirsi dunque, se Bruno restò sempre molto
interessato all'occulto, o meglio, all'umbratile.
4. Magia, stregoneria e rielaborazione dell'Assenza.
Una prima, evidente caratteristica dell'Infinito è che non è di-
mostrabile. Nessuno può di-mostrare fisicamente che l'universo (o
qualsiasi altro ente) sia infinito. La critica del senso esterno (che per
sua natura non può cogliere l'infinito) che Bruno esporrà nella Cena de
le ceneri si basa appunto sull'idea che all'infinito si giunge per
intuizione, per analogia: mediante insomma l'uso di quella particolare
capacità cognitiva che il Nolano definisce con il termine intelletto
interno. L'infinito è quindi, per sua natura, absconditus, assente dal
panorama naturale dell'esperienza comune.
Alcuni autori hanno sostenuto, con validi argomenti, che esiste
nell'uomo una sorta di predisposizione psicologica, inconscia, al mito e
alla credenza nella magia. Altri, a ragione, collegano il pensiero magico
al tema dell'alterità. Carlo Ginzburg, per esempio, ha evidenziato come
«la capacità di oltrepassare l'ambito dell'esperienza sensibile
immediata è il tratto che contraddistingue il linguaggio, e più in
generale la cultura umana. Essa nasce dall'elaborazione
dell'assenza»[18]. Viene così messo in evidenza (per un caso
apparentemente non legato in modo diretto alla tematica dell'infinito,
ossia per la decifrazione del fenomeno del sabba) il nesso che collega
meccanismi psicologici del profondo, linguaggio, magia e significazione
dell'assenza, ovvero dell'Alterità nascosta. Definire questa alterità Dio,
Assoluto, Unum, o Infinito, non è un problema, visto che in ogni caso
all'infinito (o Assoluto che dir si voglia) viene riconosciuto il massimo
dell'alterità possibile (rispetto alla finitezza umana).
Per comprendere come mai l'accettazione della teoria infinitista sia da
mettere in relazione all'acquisizione delle dottrine ermetiche, è
necessario anzitutto capire in che cosa consiste la magia professata dai
cultori di Ermete Trismegisto (come Bruno del resto si considerava
apertamente, e con grande soddisfazione).
La magia, come spero di mostrare con sufficiente chiarezza, è per
Bruno conoscenza, sapienza, capacità pratica mirabile e, soprattutto,
ascesi. L'infinito costituisce appunto la meta paradossale di questa
ascesi: meta cui si può giungere solo per illuminazione, tramite una
scala fatta di sapienza, tecnica, linguaggio, razionalità e, appunto,
magia. In questo senso è possibile affermare fin da ora che l'infinito in
Bruno ha una natura non matematica, non «scientifica», ma
genuinamente religiosa. Magia e religione sono infatti in Bruno la stessa
cosa, coincidono assolutamente. Ecco perché è importante considerare
l'infinito anzitutto in rapporto alla magia, alla magia intesa come
sistema di pensiero in cui è possibile trovare elementi eziologici e
teleologici.
Bruno pensava infatti alla magia come una metodica per accelerare il
progresso. La magia ha infatti aspetti sorprendentemente simili a quelli
della Nuova Scienza, ed in essa è possibile cogliere lo sforzo di spiegare
la natura con un discorso mitico. I passi che verranno citati, a partire
dal De Umbris idearum, sembrano confortare ampiamente queste
congetture.
A proposito è può essere utile aprire una parentesi. Si ricorderà che
che Bruno è stato condannato al rogo come eretico. Come mago-
eretico era certo stato considerato dagli Inquisitori, che per molti
aspetti non avevano neppure compreso bene i particolari della sua
dottrina. In realtà essi compresero però immediatamente la tesi
fondamentale del Nolano, quella più pericolosa per l'ordine costituito:
l'accettazione delle conseguenze filosofiche della teoria copernicana
(l'abbattimento dell'ultima sphaera mundi, l'assenza di un centro
dell'universo, l'esistenza dell'Anima del mondo: in breve, la distruzione
di tutte le gerarchie assolute e la parallela esaltazione dei poteri
dell'uomo e del mago-dio in particolare). Un uomo che vive in un
universo infinito, senza centro né perfiferia, e che tramite i poteri
magici riesce ad elevarsi sul mondo, non può essere considerato
creatura, ma espressione del divino. La radicale distinzione ontologica
del neoplatonismo cristiano tra Creatore e creatura viene qui scossa
nelle sue fondamenta: l'uomo si può mutare in dio. Vengono così
definitivamente abbattute tutte le gerarchie - anche morali - che
seguivano la distinzione tra mondo sublunare e mondo divino.
Bruno, da parte sua, si doveva certo considerare una sorta di mago-
profeta, visto l'ammirazione continuamente espressa in tutte le opere
nei confronti della magia e della sapienza egiziana. Sul magismo
rinascimentale che comprese - nonostante le accademiche distinzioni
dei filosofi-maghi rinascimentali tra magia naturalis e magia
cerimonialis - il fenomeno della caccia alle streghe e i processi di
eresia, ci sarebbe molto da dire, e molto di tutto questo ha in realtà a
che fare con il problema dell'infinito.
Dalla metà del Trecento si andava consolidando nell'Europa centro-
occidentale il concetto cumulativo di stregoneria, e le inquisizioni delle
diocesi europee cominciavano, agli inizi del '400, a dar vita al
fenomeno della caccia alle streghe. Il fenomeno si esaurì solo alla fine
del Seicento, e vide più di 100.000 persone condannate al rogo.
Sarebbe interessante soffermarsi su tutti i passaggi che dalla «paura
del complotto» hanno portato le comunità cristiane a perseguitare
prima i lebbrosi, poi gli ebrei e infine le vecchie streghe di campagna
(accusate di minare alla base l'ordine delle comunità con l'uso dei
maleficia)[19].
Per la nostra indagine è comunque necessario passare oltre per
concentrare la nostra attenzione, per un attimo, sulla figura della
strega e sull'oggetto delle accuse inquisitoriali: la stregoneria. Con una
certa sorpresa si vedrà alla fine che la stregoneria (per ora usiamo
questo termine improprio) e l'infinito di Bruno hanno molto in comune.
Gli storici che si sono occupati del fenomeno della stregoneria hanno
da tempo individuato due elementi fondamentali. Da una parte c'è
l'opera degli inquisitori, che con la carcerazione o la tortura
raccoglievano le confessioni dei sospetti e degli imputati. Le
confessioni erano di solito proporzionate ai metodi che erano stati usati
per estorcerle, tant'è vero che la Chiesa stessa aveva tentato in
qualche modo di fornire agli inquisitori una qualche regolamentazione
per evitare l'abuso della carcerazione e della tortura. Gli inquisitori si
trovavano spesso di fronte delle persone che, pur di sfuggire alla
tortura (o farla cessare se questa era già in atto) raccontavano
qualsiasi cosa, prendendo spunto dalle stesse domande, che già
contenevano chiare indicazioni su ciò che l'inquisitore voleva sapere. Il
fenomeno della stregoneria sembrerebbe quindi una creazione
involontaria della stessa azione inquisitoria.
Ma questa conclusione non tiene conto di un secondo elemento,
importantissimo, che ci interessa da vicino. Dai documenti dei processi
e dai resoconti delle confessioni, emerge tutta una serie di elementi
particolari, che erano senza dubbio fuori dalla portata conoscitiva degli
inquisitori. Ginzburg ha sapientemente ricollegato tutta una serie di
manifestazioni, credenze e riti (sconosciuti agli inquisitori e perciò
erroneamente interpretati come stregoneria), ad un culto antichissimo,
di origine celtica. In particolare la metamorfosi in animali, i riti
orgiastici, l'adorazione di una dea notturna dai molti nomi, l'estasi
(ottenuta mediante l'uso di sostanze allucinogene o vere e proprie
droghe, come per esempio la claviceps purpurea) e le cerimonie
particolari che le streghe confessavano di praticare: sono tutti
elementi che vanno ricondotti alla cultura celtica e in quest'ottica
interpretati. In particolare il rito del volo notturno, della metamorfosi
in animali e le orgie rituali vanno interpretati all'interno di un contesto
magico-folklorico di sedimentazione antichissima. Il significato
psicologico che in essi si può trovare, credo sia direttamente
assimilabile alla ricerca magica del Deus absconditus, dell'Alterità
assente, dell'infinito.
Nell'immagine del sabba rinascimentale Ginzburg aveva riconosciuto
due filoni culturali di provenienza eterogenea: «da un lato il tema,
elaborato da inquisitori e giudici laici, del complotto ordito da una
setta o da un gruppo sociale ostile; dall'altro, elementi di provenienza
sciamanica ormai radicati nella cultura folklorica, come il volo magico
e le metamorfosi animalesche»[20]. Questi elementi di provenienza
celtica sono in realtà tutti riconducibili ad un tema comune: riandare
nell'aldilà, tornare dall'aldilà: «questo nucleo [...] ha accompagnato
l'umanità per millenni»[21]. La sua permanenza può essere spiegata in
questo modo: il viaggio ed il ritorno dal mondo dei morti equivale ad
instaurare un discorso mitico che collega il visibile all'invisibile. Il sabba
sarebbe quindi il risultato storico di una lunga cristallizzazione di riti e
miti in cui natura, animali e morti vengono sentiti come espressione
dell'«alterità»[22].
Si tratterebbe quindi di un rito in cui si verifica, in forma magica,
l'incontro tra uomo e natura: in cui l'uomo incontra il «di fuori», il
«diverso», l'Altro. Il circolo si è chiuso: il rito magico porta all'incontro
con l'Alterità, per di più attraverso l'estasi. Siamo ritornati di colpo al
discorso sull'infinito. L'infinito, l'infinitamente in-conoscibile, la
«infinita, semplicissima, unissima, altissima e absolutissima causa,
principio e uno», come Bruno dirà concludendo il De la Causa, è
immediatamente rappresentabile come alterità, rispetto alla
contingente situazione umana di finitezza, se non di aporia assoluta.
Nonostante il legame profondo, per Bruno sia fisico che metafisico, che
ci unisce alla divinità infinita, di fatto, in concreto, l'uomo è anzitutto
limite, finito. Lo sforzo di rappresentazione dell'Invisibile,
caratteristico del pensiero magico di ogni tempo e luogo, corrisponde
alla distruzione e alla dispersione - solo momentanea - dell'uomo
nell'universo infinito, privo di punti di riferimento assoluti. Il De
vinculis, vero e proprio trattato di magia pratica, servirà proprio a
spiegare come vincolare le anime dei corpi al fine di ottenere una
elevazione dell'anima.
Per il caso di Bruno, dove l'infinito non poggia mai su di una
convinzione e argomentazione «scientifica», ma sempre su di un
impeto mistico-religioso, credo che sia possibile identificare la ricerca
magica del contatto con l'Alterità abscondita proprio con lo slancio
religioso verso l'Infinito. La magia mira quindi anche alla realizzazione
dell'unione con la divinità, l'alterità per eccellenza. La magia nolana va
intesa quindi come teurgia, ossia come arte che si serve di azioni
ineffabili per realizzare l'unione con la divinità, infinita, e operare in
virtù di questo contatto. Magia «transnaturale o metafisica [...],
propriamente, teurgia»[23]: così il Bruno stesso definiva la sua
concezione dell'arte magica. Da questo punto di vista, la miglior
definizione della nolana filosofia è, semplicemente, la parola
desiderio.