-4-
News (più tardi rinominato World Report), e dieci anni dopo l’apparizione
di Time (1923). Il magazine, originariamente venne chiamato News-Week
dal fondatore Thomas J. C. Martyn, in precedenza redattore capo agli esteri
di Time. Quattro anni più tardi, nel 1937, News-Week si fuse con la rivista
di Raymond Moley, Today Magazine e, con Vincent Astor come
presidente, cambiò il nome in Newsweek. Moley era stato uno dei membri
del “Brain Trust” del presidente Franklin D. Roosevelt e con lui, il giornale
assunse un orientamento generalmente più liberale di Time, benchè le due
pubblicazioni si assomigliassero nella disposizione delle notizie e in una
linea politica moderata. Newsweek provò a distinguersi dal rivale più
anziano introducendo le colonne firmate ed evitando il linguaggio
“arieggiato” che caratterizzava Time.
Gli articoli esaminati coprono un periodo compreso tra il 1945 e il 1949.
Per il 1945 ci sono stati alcuni problemi dovuti all’utilizzo di materiale in
cattivo stato e non completo nelle sue parti.
Inoltre le copie a disposizione rinvenute nella Bibilioteca Centrale di
Milano sia di Time che di Newsweek, per quel che riguarda il 1945, sono in
formato ridotto ed espressamente prodotte per le truppe americane presenti
sul territorio europeo.
Dal 1946 viene riacquistato il formato originale delle riviste e le annate
sono complete ed integre.
Attraverso la natura e l’analisi di tali articoli, oltre che la storia recente del
Medio Oriente e della politica estera americana si può osservare
l’evoluzione del giornalismo politico statunitense.
In linea generale, nonostante la diversa appartenenza politica dei due
settimanali, non si sono notate differenze sostanziali nell’approccio alla
questione palestinese.
-5-
E’ sicuramente da tenere presente che i giornali americani tengono a
separare nettamente gli articoli riportanti i fatti dalle opinioni
dell’articolista o dalla linea politica del giornale.
E’ importante inoltre rimarcare che nella stampa americana la sensibilità su
questo punto è così viva che i giornali sono organizzati con spazi specifici
per le due tipologie di articoli.
Entrambe le riviste, sostengono la linea della presidenza americana nei
confronti dello stato di Israele, anche se non mancano di criticare la Casa
Bianca e la persona del presidente per le ambiguità tenute in particolari
occasioni. Entrambi i giornali inoltre, mantenendo una posizione liberal
sulla questione palestinese, appoggiarono in toto la richiesta degli ebrei (e
la politica estera di Truman) di poter avere una propria patria.
Rispetto a Time, che riporta fedelmente le direttive del governo americano,
e più orientato a riferire le notizie in chiave ufficiale, Newsweek presta una
maggiore attenzione anche alle vicende di politica interna e a fonti
confidenziali di vario tipo riferenti opinioni e indicazioni politiche
ufficiose.
Il liberalism americano degli anni di Truman presentò, e non solo sulla
questione ebraica un doppio atteggiamento: progressista nell’opinione
pubblica liberal e nella stampa di eguale tendenza; moderato, e talvolta
incline al conservatorismo, nella classe dirigente.
Nel caso particolare di Truman questa duplicità si riproponeva: le
convinzioni di Truman, liberal di convinta tradizione newdealista, si
scontravano spesso con gli atteggiamenti conservatori di molti suoi
collaboratori, con il risultato che la vagheggiata politica liberal subiva
frequenti correzioni anche sostanziali e rimaneggiamenti significativi: il
problema della Palestina ne era uno degli esempi più evidenti.
-6-
L’opinione pubblica liberal non era affatto soggetta all’influenza politica
del Dipartimento di Stato e di Marshall ed era quindi libera di esercitare le
proprie pressioni sui centri di potere.
Nel caso specifico della Palestina appariva inconcepibile che una
risoluzione delle Nazioni Unite di così vasta portata (la spartizione della
Palestina) venisse sabotata e rovesciata da interessi particolari e congiunti
di Gran Bretagna, paesi arabi e Dipartimento di Stato.
Pare paradossale che il movimento liberal americano potesse, per
solidarizzare e sostenere il popolo ebraico, accettare di distruggere un altro
popolo che non aveva sicuramente nessuna colpa delle tribolazioni subite
dagli ebrei in Europa.
Le altre fonti utilizzate sono:
1. Una corposa bibliografia concernente l’evoluzione del sionismo dalla
sua nascita ai giorni nostri, necessaria per inquadrare correttamente il
contesto storico e politico in cui si è formato. Inoltre basilari sono
stati alcuni titoli riguardanti i rapporti tra sionismo e Stati Uniti, in
particolare nel periodo preso in considerazione, ovvero dal 1945 al
1950.
2. L’utilizzo di articoli e saggi. In specialmodo sono stati utili gli
articoli tratti dai numeri monotematici di Limes di gennaio/febbraio
1993 e di gennaio 2001. Inoltre Internazionale, utile strumento di
conoscenza per chi si cimenta di giornalismo internazionale, mi ha
fatto scoprire Edward Said, attraverso il quale ho imparato a
cambiare la mia prospettiva da “occidentale” nel guardare il
problema mediorientale.
3. L’utilizzo di fonti internet. Attraverso internet sono state recuperate
centinaia di informazioni e documenti. Sono stati consultati sia siti
ufficiali di organizzazioni ebraiche religiose, laiche e con differenti
-7-
posizioni riguardo al sionismo, siti governativi e di organizzazioni
non governative, siti di discussione e siti riguardanti il conflitto
mediorientale.
Credo sia necessario dare alcuni brevi cenni di geopolitica e alcuni dati
relativi ai finanziamenti percepiti dallo stato di Israele.
Gli Stati Uniti nell’interpretazione della geopolitica hanno la
conformazione di una potenza marittima, oggi espressa fondamentalmente,
in termini militari, dalla forza aerea e dalla tecnologia spaziale.
L’obiettivo di questo approccio, mantenere aperte le principali vie di
comunicazione e impedire che qualsiasi potenza rivale ammassi un esercito
capace di minacciare la madrepatria è tipico delle potenze marittime.
In pratica, ciò significa anche che Washington e le sue agenzie preferiscono
aver a che fare con ampi, stabili blocchi. Il fastidioso, infinito lavoro
necessario ad assicurare l’equilibrio di raffinati, delicati e fluttuanti sistemi
politici, lavoro un tempo gestito da pochi esperti ufficiali basati nella
madrepatria, va al di là dei mezzi e della pazienza del governo americano.
Si pensi alla mancanza di qualsiasi politica efficace in Libano, che alla fine
Washington ha preferito affidare in gestione alla Siria.
O alla attuale preferenza americana per il dialogo con Mosca, ignorando
largamente i piccoli o grandi paesi che circondano la Russia, nonostante sia
evidente l’importanza degli sviluppi periferici per gli esiti del cambiamento
nella Federazione russa.
Se si tiene conto del solo contributo americano, ci si accorge del fatto che,
come riferito da statistiche dell’ONU, dal 1945 al 1967, gli Stati Uniti
hanno dato 435 dollari a ogni israeliano e 36 dollari a ogni arabo o, in altre
parole, che hanno fornito al 2,5% della popolazione il 30% dell’aiuto
contro il 70% dato al 97,5% restante.
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Un altro dato per farci capire quanto siano imponenti queste cifre: l’aiuto
del Piano Marshall, accordato dal 1948 al 1954 all’Europa occidentale, ha
raggiunto tredici miliardi di dollari; lo Stato di Israele, dalla sua
fondazione, ha ricevuto per meno di due milioni di abitanti più della metà
di ciò che hanno ricevuto duecento milioni di europei.
Cioè cento volte di più pro capite rispetto all’Europa.
In cinquant’anni a partire dal 1948 Israele ha ricevuto 65 miliardi di dollari
sotto forma d’aiuto militare pur non essendo legato con gli Stati Uniti con
un’alleanza formale.
La nascita d’Israele è stata frequentemente associata ad una “special
relationship” stabilitasi nell’immediato dopoguerra fra la presidenza, una
parte influente dell’elite politica e la componente sionista americana e
protrattasi poi a lungo, in pratica fino ai giorni nostri, coinvolgendo la
totalità delle relazioni fra i due stati fino a farne qualcosa di unico nel
panorama delle relazioni estere americane.
A partire dalla dichiarazione del Ministro degli Esteri britannico Balfour
del dicembre 1917, non è mai mancato il supporto presidenziale alla
creazione di un “focolare ebraico”. Anche la delegazione americana alla
conferenza di pace di Parigi era esplicitamente schierata sulla linea di
conferma della Dichiarazione Balfour.
Uno dei documenti più importanti prodotti dalla delegazione americana
riguardava il futuro assetto della Palestina.
In questo documento erano contenute quattro raccomandazioni:
1) La separazione della Palestina dalla Siria;
2) L’attribuzione del mandato sulla Palestina alla Gran Bretagna
3) L’invito agli ebrei a far ritorno in Palestina al fine della creazione di
uno stato ebraico;
4) L’affidamento dei Luoghi Santi alla Lega delle Nazioni.
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E’ stato visto come una visione “occidentale” del problema Medio
Orientale possa distorcere e modificare la realtà, in particolare in rapporto
ai mezzi di informazione, in particolare attraverso i testi di Edward Said e
Noam Chomsky, e in specifico ne “La questione palestinese” di E. Said e
ne “I cortili dello zio Sam” di N. Chomsky.
Proprio nell’interpretazione della Dichiarazione Balfour possiamo notare,
come viene evidenziato da Edward Said ne “La questione palestinese”, che
l’importanza di questo documento sta non solo nel fatto che ha costituito la
base giuridica per le rivendicazioni sioniste sulla Palestina ma, si tratta di
un’affermazione la cui posizione di forza può essere apprezzata solamente
se si tiene conto di quale fosse la realtà demografica ed umana della
Palestina.
In realtà, la Dichiarazione fu formulata:
a) Da una potenza europea;
b) Su un territorio non europeo;
c) In assoluto disprezzo dei desideri e della maggioranza dei suoi
abitanti;
d) Sotto forma di una promessa fatta a proposito dello stesso
territorio ad un altro gruppo straniero, perché questo potesse
letteralmente fare di tale territorio la patria per gli ebrei.
Dal 1945 al 1947 lo scontro in corso in Palestina venne presentato dalla
stampa americana all’opinione pubblica non come la lotta tra la
popolazione indigena ed i nuovi coloni, ma come se si trattasse di un
conflitto tra gli inglesi ed i sionisti. Riprendendo “La questione
palestinese” di Edward Said, il libro è da considerarsi un’esemplificazione
del celebre discorso di Said sull’Orientalismo: un’applicazione al caso
palestinese della metodologia per svelare l’interiore fragilità
-10-
dell’orientalismo occidentale. Vale a dire per fare chiarezza
sull’inconsistenza delle dottrine tendenti a consacrare la supremazia e lo
sfruttamento occidentali sui popoli dell’Asia, dell’Africa e dell’America
Latina. Ci troviamo di fronte alla serrata denuncia di un clima culturale teso
ad occultare una pratica di dominio che, traendo spunto dal globale
impegno capitalistico di controllo del mondo, si concretizza nella strategia
di fare scomparire il popolo palestinese: dall’autocensura più ermetica delle
misure oppressive anglo-sioniste e poi israelo-americane, all’esaltazione
senza limiti della gestione vessatoria dei sionisti, alla perentoria
svalutazione della realtà araba e palestinese che è sempre solo brutta,
misera e volgare.
Riprendendo l’altro autore che mi ha aiutato a comprendere e a svelare i
meccanismi nel corso della tesi e, che già conoscevo in precedenza, Noam
Chomsky, egli afferma ne “I cortili dello Zio Sam” che “La propaganda è
per la democrazia quello che il randello è per lo stato totalitario”.
Secondo Chomsky, i media sono monopolio dell’industria e sostengono
tutti la stessa ideologia. Sia che si definiscano “liberal” oppure
“conservatori”, i principali media sono grandi aziende, possedute da (e
strettamente legate a) società ancor più grandi. Come altre imprese,
vendono un prodotto a un mercato. Il mercato è quello della pubblicità,
cioè di un altro giro d’affari. Il prodotto è l’audience. I due partiti esistenti
negli Stati Uniti sarebbero quindi due fazioni del partito degli affari.
I media più importanti, quelli che stabiliscono le priorità a cui gli altri
devono adattarsi, vantano un prodotto in più: quello di un pubblico
relativamente privilegiato.
Abbiamo quindi delle grandi imprese che vendono un pubblico piuttosto
benestante e privilegiato ad altre imprese. Non stupisce che l’immagine del
-11-
mondo che esse presentano rifletta gli interessi ed i valori ristretti dei
venditori, degli acquirenti e del prodotto.
Altri fattori intervengono a rafforzare questa stortura. I manager culturali
(direttori, autorevoli editorialisti, eccetera) condividono interessi e legami
di classe con i loro omologhi nello stato, nel mondo degli affari e negli altri
settori privilegiati. Infatti, tra le grandi imprese, il governo e i media si
verifica un continuo interscambio di personalità ai più alti livelli.
La facilità di accesso alle massime autorità dello stato è fondamentale per
poter conservare una posizione competitiva; le “soffiate” o le
“indiscrezioni”, per esempio, sono spesso invenzioni o distorsioni
fabbricate dalle autorità con la collaborazione dei media, che fanno finta di
non conoscerne l’origine.
In cambio, le autorità dello stato esigono cooperazione e sottomissione.
Anche gli altri centri di potere hanno i loro strumenti per punire le
deviazioni dall’ortodossia: metodi che possono servirsi del mercato
azionario o anche di un vero e proprio sistema di calunnia e diffamazione.
Lo scopo è di fare in modo che il gregge disorientato continui a non
orientarsi. Non è necessario che si preoccupino di quel che accade nel
mondo. Anzi, non è desiderabile: se dovessero vedere troppo della realtà,
potrebbero farsi venire in mente di cambiarla.
Reinhold Niebuhr, per esempio, autorevole teologo ed esperto di politica
estera, chiamato anche “il teologo dell’establishment”, guru di George
Kennan e degli intellettuali kennedyani, ha avanzato l’ipotesi che la
razionalità sia una qualità posseduta da pochi. La maggior parte delle
persone è guidata soltanto dall’emozione e dall’impulso. Chi di noi è dotato
di razionalità deve creare “illusioni necessarie” e “ipersemplificazioni” di
forte impatto emotivo per tenere sotto controllo gli ingenui e gli sciocchi.
-12-
Questa idea è diventata parte sostanziale della dottrina politica
contemporanea. Negli anni venti e nei primi anni trenta Harold Lasswell,
fondatore del moderno campo delle comunicazioni e uno dei più importanti
teorici politici statunitensi, spiegava che “non dobbiamo soccombere al
dogmatismo democratico secondo cui gli uomini sono i migliori giudici dei
propri interessi, perché è infondato”. I media quindi, essendo monopolio
dell’industria, sosterrebbero tutti la stessa ideologia.
In conclusione, l’atteggiamento degli Stati Uniti verso i paesi del Medio
Oriente tranne che per alcuni casi (Israele e Arabia Saudita sono alcuni di
questi) è stato sempre dettato da situazioni contingenti dettate dalle mosse
del colosso sovietico nell’area. La vicenda irakena e quella iraniana ne
sono un chiaro esempio: finanziati o boicottati a seconda dei rapporti che
tenevano con il blocco sovietico, e se al loro interno vi erano governi
fantoccio allineati con le esigenze politico-militari americane o no.
-13-
Capitolo I
Le divergenze tra il Dipartimento di Stato e la Casa
Bianca sulla creazione di uno stato ebraico in Palestina
1.1 Dal disimpegno all’impegno
Nel periodo tra le due guerre, e quindi anche durante i primi due mandati
presidenziali di Roosevelt, venne mantenuto un atteggiamento di distacco
verso gli affari europei. Si preferì quini mantenere coerentemente la
politica che sin dagli anni Venti era stata perseguita nelle precedenti
amministrazioni.
Tale politica, può essere ricondotta ai due seguenti principi di fondo:
1. La persecuzione antiebraica doveva essere considerata come una
faccenda interna dei singoli stati europei;
2. La questione sionista era da ritenersi un problema esclusivo della
Gran Bretagna, cui era stato affidato il mandato sulla Palestina.
Gli Stati Uniti non ravvisavano alcun particolare interesse nazionale nel
venire incontro alle richieste di aiuto dell’ebraismo europeo.
Per ciò che riguarda l’atteggiamento diplomatico degli Stati Uniti verso
l’ebraismo, sul tema del sionismo e della fondazione di uno stato ebraico in
Palestina, l’amministrazione Roosevelt si attestò sui seguenti principi:
ξ La dichiarazione Balfour era stata fatta dagli Alleati, non dagli Stati
Uniti;
ξ Né la Risoluzione del Congresso americano del 1922 né la
convenzione anglo-americana sulla Palestina del 1924 impegnavano
gli Stati Uniti nei confronti del sionismo;
-14-
ξ Gli interessi americani verso il mondo islamico spingevano il
governo americano a proteggere gli interessi cristiani nella regione
1
.
Le differenti visioni d’intervento nello scacchiere mediorientale tra il
Dipartimento di Stato e l’ufficio della Presidenza degli Stati Uniti
incominciarono ad essere evidenti quando il ruolo della Gran Bretagna
nella regione andò scemando, preannunciando una possibile penetrazione
sovietica nell’area, e quando l’approvvigionamento di petrolio diventò un
interesse primario ai fini delle operazioni militari e necessario per lo
sviluppo interno del paese.
Fino alla vigilia della seconda guerra mondiale il Medio Oriente si poteva
definire un teatro vuoto per la politica estera americana.
Non è che mancava una presenza americana nella regione, ma era legata
all’iniziativa dei privati: missionari, uomini di cultura ed educatori, da un
lato, e più tardi le imprese petrolifere, dall’altro.
I primi diedero vita ad alcune istituzioni, in primo luogo le università
americane a Beirut ed al Cairo, all’interno delle quali si formerà una buona
parte del personale diplomatico che sarà poi presente nelle ambasciate
mediorientali.
Le seconde incominciarono nel corso degli anni trenta ad affacciarsi sulla
regione senza intenti competitivi. Un accordo del luglio 1928 permise alle
compagnie americane di unirsi al consorzio anglo-francese, che controllava
le concessioni nell’ex impero ottomano, con una quota pari a circa il 25%.
Nel 1933 la Standard Oil of California (CASOC), una compagnia esclusa
dall’accordo precedente, raggiunse la prima intesa con l’Arabia Saudita
allo scopo di esercitare attività di prospezione petrolifera che solo nel 1939
cominceranno a dare risultati
2
.
1
A. Donno, Gli Stati Uniti, la Shoah e i primi anni d’Israele (1938-1957), La Giuntina, Firenze, 1995
2
G. Valdevit , Stati Uniti e Medio Oriente dal 1945 ad oggi, Carocci Editore, Roma, 2003, p. 20
-15-
George Kennan, che diresse dal 1947 al 1949 il Policy Planning Staff
dell’amministrazione Truman, scrisse che l’impegno americano verso
Israele è “di assicurare che Israele continui ad esistere e che il suo popolo
non sia distrutto, reso schiavo, o ricacciato in mare dai vicini che gli sono
nemici” e rilevò come l’interesse americano verso Israele fosse strettamente
legato alla necessità di impedire un’influenza sempre più diretta
dell’Unione Sovietica nel Medio Oriente.
Le affermazioni di Kennan, benché rappresentino il succo della politica
americana verso quella regione per tutto il dopoguerra, sono evidentemente
dettate dal senno di poi. E’ infatti noto come, in quegli anni cruciali, che
videro prima la decisione delle Nazioni Unite di dividere la Palestina in due
stati e poi la nascita di Israele, il Policy Planning Staff, e quindi Kennan in
primo luogo, insieme a quasi tutto il Dipartimento di Stato, fosse contrario
al piano di spartizione varato dalle Nazioni Unite e conseguentemente alla
creazione di uno stato ebraico in Palestina.
Il che creò un grave attrito con la Casa Bianca, che fu ricomposto soltanto
dalla tempestiva iniziativa dei sionisti, i quali proclamando il 14 maggio
1948 la nascita dello stato di Israele, misero tutti d’accordo e, in qualche
modo, determinarono il successivo corso della politica estera americana
verso il Medio Oriente
3
.
Fin dall’assunzione della massima carica da parte di Truman, si
scontrarono due posizioni ben definite in seno all’amministrazione: quella
di Truman, di carattere umanitario, ma anche ambigua e calcolatrice, che
ben presto si caricherà di collocazioni politiche ed internazionali,
favorevole alla creazione di uno stato ebraico in Palestina, previa
l’illimitata immigrazione degli ebrei in quella regione; e quella dei
responsabili del Dipartimento di Stato, con a capo Marshall, del
3
A. Donno , Gli Stati Uniti, il sionismo e Israele (1938-1956), Bonacci Editore, Roma, 1992, p. 36
-16-
Dipartimento della Difesa, con a capo Forrestal, e del Policy Planning
Staff, diretto da Kennan, i quali condividevano il punto di vista inglese sul
problema del Medio Oriente e sulla Palestina in particolare.
Questa diversità di opinioni viene riferita da Newsweek del 23 febbraio
1948 e si rivela come “One of the most politically esplosive controversies
within the Truman Administration today concerns Palestine.
Despite denials, insiders say that President’s Cabinet is split. One group,
headed by secretary Marshall, stands for vigorous enforcement of the
partition plan. The other, led by Defense Secretary Forrestal, contends that
U. S. Security lies in placating Arab nations and maintaining access to
vital oil reserves, transportation, and communications in the Middle East.
The National Security Council now is engaged in reviewing U.S. military
interests in the Middle East, and a modification of American policy may
result. Meanwhile Democratic headquarters has received instructions not
to bring any petitioning delegations to the White House when Palestine is
subject. The White House also has quietly sounded out GOP leaders in
Congress on adopting a bipartisan policy toward Palestine, but
Republicans aren’t interested”
4
. Troviamo quindi una divisione abbastanza
netta sulla politica da adottare riguardo alla situazione in Medio Oriente e
una particolare attenzione alla delicata situazione politica interna, con un
invito alle forze politiche americane a non incrementare la già difficile crisi
diplomatica. La minaccia di uno stato ebraico, si pensava, avrebbe
sconvolto l’assetto della regione, minato l’amicizia anglo-araba e la stessa
leadership inglese nel Medio Oriente, con ripercussioni negative per
l’approvvigionamento di petrolio. L’amministrazione Truman ebbe
comunque fortissimi pressioni da parte delle lobbies sioniste, come si
evince dall’articolo “Zion, Truman suggests”, apparso su Newsweek del 26
4
The Palestine Problem, Newsweek, 23 febbraio 1948
-17-
agosto 1946: “President Truman left the unwelcome solution of the
unwanted Palestine problem to the unwilling british last week.
After mulling for three weeks over Britain’s proposal to partition and
federalize the Holy Land, Mr Truman reportedly told Prime Minister Attlee
that he could neither the accept nor reject it without “the support of the
american people” – a reply almost certain to strenghten the british
tendency to blame the United States for the Palestine muddle, among other
things.The President had faced strong political pressure from American
Zionists and sympathizers, who criticized the limitations to the plan placed
on the proposed Jewish State and decried the British intention of linking
the immediate immigration of 100,000 European Jews to Palestine with
acceptance of the plan. To alleviate the plight of jews and other european
displaced persons, Mr. Truman said he contemplated asking Congress for
special legislation to allow a “fixed number” (50,000) to enter the United
States”
5
. L’intenzione di Truman di modificare le clausole restrittive
all’immigrazione in America si risolse in un nulla di fatto, con il voto
negativo del Congresso ad una revisione dei criteri di immigrazione negli
Stati Uniti. Ma perché Truman aveva interesse a modificare le politiche di
ingresso dei flussi migratori verso gli Stati Uniti? Sicuramente era sua
intenzione cercare una mediazione tra gli interessi del governo inglese e del
Dipartimento di Stato, filo-arabi e contrari all’immigrazione di un grosso
numero di ebrei in Palestina, e dall’altra parte del mondo liberal americano
e della Casa Bianca, favorevoli all’immigrazione ebraica finalizzata alla
creazione dello Stato d’Israele. Liberalizzare le leggi sull’immigrazione
poteva permettere un maggiore assorbimento di profughi ebrei e ridurre la
pressione sulla regione mediorientale.
5
“Zion, Truman Suggests”, Neewsweek, 26 agosto 1946