VIII
di un uomo, e non solo di un uomo del Medioevo. Ognuno di
noi può seguire il viaggio dantesco attraverso la lettura delle tre
cantiche ed avvertire nel contempo che lo stesso viaggio ci
appartiene
2
, che avremmo potuto compierlo anche noi, come il
poeta, «nel mezzo del cammin di nostra vita», insomma
l’impressione del «postero» non è quella d’imbattersi «in un
tenace e ben conservato sopravvissuto, ma di raggiungere
qualcuno arrivato prima di lui»
3
.
La nostra attenzione è stata dedicata essenzialmente alla
lingua dei diavoli, dei guardiani che Dante ha posto nel primo
dei regni dell’aldilà, l’Inferno, perché questa lingua ci ha
permesso d’indagare una breve ma varia gamma di fonti e
tematiche elaborate dal poeta per dare vita a questi oscuri
personaggi. Il De Sanctis ha scritto, infatti, che «l’inferno è il
regno del male, la morte dell’anima e il dominio della carne, il
caos: esteticamente è il brutto. […]. Il bello non è che se stesso; il
2
Profondo, a riguardo, quanto scrive il SINGLETON: «Giù per una costa dirupata che
scende a un fiume di sangue i piedi di quest’uomo smuovono i sassi, e così un centauro
che è lì di guardia, per esprimere il suo stupore, prende uno strale dalla faretra e con la
cocca si spinge indietro la barba. Quest’uomo deve essere trasportato al di là del fiume (il
sangue è bollente) in groppa a un altro centauro, poiché egli “non è spirto che per l’aere
vada”. Le cose vedute e toccate diventano ciò che possono vedere gli occhi dei vivi e le
mani dei vivi toccare: […]. Il piede di quest’uomo percuote il viso congelato di un
peccatore confitto nel ghiaccio del Cocito e la sua mano gli strappa ciocche di capelli dalla
testa. Questo fiorentino passeggia con un altro fiorentino sotto una pioggia di fuoco, e i
due conversano come se fossero ancora a Firenze. […] Dovunque è il particolare,
l’individuale, il concreto, il sensibile, l’incarnato, con tutta la forza e l’irriducibilità della
realtà stessa. Qui è visione fatta davvero carne, […]. Nella Commedia, infatti, il viaggio in
corpore, il viaggio reale e letterale, irriducibile, il “suo” viaggio oltremondano, richiamerà
spesso alla mente quell’altro viaggio in cui ci aveva posto la scena del prologo – il nostro
viaggio in terra» (C. S. SINGLETON, La poesia della Divina Commedia, il Mulino, Bologna
2002, pp. 17-35: 30-31).
3
G. CONTINI, Un’idea di Dante, Einaudi, Torino 2001, p. 111.
IX
brutto è se stesso e il suo contrario, ha nel suo grembo la
contraddizione, perciò ha vita più ricca, più feconda di
situazioni drammatiche. Non è dunque maraviglia che il brutto
riesca spesso nell’arte più interessante e più poetico. Mefistofele
è più interessante di Fausto, e l’inferno è più poetico del
paradiso»
4
.
Dante, dicevamo, ha sperimentato in tutto l’arco della sua
opera artistica, diverse lingue e stili: « […] le esperienze
artistiche di Dante volutamente spaziano per un’amplissima
gamma. […], Dante atteggia la propria lingua nelle varie opere,
anzi nelle varie parti delle opere, a stili diversissimi»
5
. Egli ha il
merito di aver dato inizio ad una vera e propria questione
linguistica italiana, che il nostro poeta ha affrontato
teoricamente in uno spazio che va dal De Vulgari Eloquentia al
canto XXVI del Paradiso, passando concretamente per le Rime, la
Vita Nova, il Convivio e gli sperimentalismi, le accettazioni e i
rifiuti della Comedìa
6
.
4
F. DE SANCTIS, Storia della Letteratura Italiana, Salani, Firenze 1965, in Letteratura Italiana
Einaudi. Le Opere, cit., vol. 8, pp. 184-185.
5
B. MIGLIORINI, Storia della lingua italiana, Bompiani, Milano 2001, pp. 167-180: 173.
6
Vd. B. NARDI, Dante e la cultura medievale. Nuovi saggi di filosofia dantesca, Laterza, Bari
1942, pp. 148-175, dove si fa largo riferimento anche alla sentenza della Vita Nova:
«Nomina sunt consequentia rerum» (VN XIII 4), confutando l’opinione che possa essere
un «primo fugace accenno ad una teoria del linguaggio» (p. 149). Cfr. anche CONTINI,
Un’idea, cit., pp. 36-42.
X
Nel I libro del De Vulgari Dante analizza la natura,
l’origine e la storia del linguaggio
7
: afferma che la parola fu data
all’uomo perché a lui solo fu necessaria, in quanto gli angeli
comunicano tramite un reciproco rispecchiamento intellettuale
o attraverso lo Speculum comune, ossia Dio, mentre, per quanto
riguarda gli spiriti che rovinarono dal Cielo, il poeta afferma:
[…] eos preterire debemus, cum divinam curam perversi expectare noluerunt;
[…] ipsi demones ad manifestandam inter se perfidiam suam non indigent nisi ut
sciat quilibet de quolibet quia est et quantus est; quod quidam sciunt.
Cognoverunt enim se invicem ante ruinam suam.
8
Vien detto che i diavoli, dopo la ribellione di Lucifero,
precipitati tutti negli abissi della terra, continuano a conoscersi
tra loro come quando erano angeli. È, dunque, Dante che dà la
parola ai suoi custodi infernali, in base alla loro funzione,
collocazione e rapporto con le pene a cui sono preposti, come
vedremo.
Ma che lingua l’uomo parlava alle origini del mondo? E la
varietà dei nostri linguaggi di oggi da cosa dipende? Dante fa
risalire la confusione che c’è tra le lingue all’episodio biblico
della torre di Babele
9
:
7
Cfr. P. V. MENGALDO, Lingua, in Enciclopedia Dantesca, vol. III, Istituto dell’Enciclopedia
Italiana, Roma 1984, pp. 655-664.
8
DVE I ii: «[…] non dobbiam curarci di essi, però che furon malvagi dispregiatori del
lume divino; […] questi demoni, per fare scambievolmente manifesta la propria perfidia,
non han d’uopo di conoscere che qualche cosa l’un dell’altro, perché è, e quanto è: ciò che
sicuramente ben sanno; perché l’uno conobbe l’altro innanzi dalla lor ruina».
9
Vd. qui capitolo terzo, pp. 75-78.
XI
Hac forma locutionis locutus est Adam; hac forma locutionis locuti sunt omnes
posteri eius usque ad edificationem, turris Babel, que «turris confusionis»
interpretatur ; hanc formam locutionis hereditati sunt filii Heber, qui a beo dicti
sunt Hebrei. Hiis solis post confusionem remansit, ut Redemptor noster, qui ex
illis oriturus erat secundum humanitatem, non lingua confusionis, sed gratie
frueretur. Fuit ergo hebraicum ydioma illud quod primi loquentis labia
fabricarunt.
10
Dante presume, quindi, che il primo uomo alle origini parlò la
lingua ebraica, l’unica ad essersi conservata come lingua della
grazia dopo la confusio babelica. Nel capitolo successivo del De
Vulgari il poeta spiega ancora meglio l’impresa della torre,
identificandola come un atto folle di superbia:
O semper natura nostra prona peccatis! O ab initio et nunquam desinens
nequitatrix! Num fuerat satis ad tui correptionem quod, per primam
prevaricationem eluminata, delitiarum exulabas a patria? … Ecce, lector, quod
vel oblitus homo vel vilipendes disciplinas priores, et avertens oculus a vibicibus
que remanserat, tertio insurrexit ad verbera, per superbam stultitiam
presumendo. … cum celitus tanta confusione percussi sunt ut, qui omnes una
eademque loquela deserviebant ad opus, ab opere multis diversificati loquelis
desinerent et nunquam ad idem commertium conveniret. … Quot quot autem
exercitii varietates tendebant ad opus, tot tot ydiomatibus tunc genus humanum
disiungitur, et quanto excellentius exercebant, tanto rudius nunc barbariusque
10
DVE I vi: «In questa forma di parlare Adamo parlò; e poi tutti i discesi da lui fino alla
edificazione della torre babelica, o vogliam dir la torre della confusione; questa forma
ereditarono i figliuoli di Eber che da lui Ebrei furono detti, e a’ quali solamente, dopo la
confusione, si rimase, perché il Redentor nostro, che di essi doveva sortire, usasse,
siccome uomo, la lingua della grazia, non quella della confusione. Fu dunque l’ebraico
idioma quello che nacque in su le labbra dell’uomo che primo parlò».
XII
locuntur. Quibus autem sacratum ydioma remansit nec aderant nec exercitium
commendabant, sed graviter detestantes stoliditatem operantium deridebant.
11
La conferma viene all’ingresso del regno infernale, quando
Dante ode effettivamente «diverse lingue», perché ognuno ne
parla una differente dall’altra, segno, appunto, della decadenza
dell’uomo dalla sua primitiva condizione:
Diverse lingue, orribili favelle,
parole di dolore, accenti d’ira,
voci alte e fioche, e suon di man con elle
facevano un gran tumulto […]
[…].
«Figliuol mio», disse ‘l maestro cortese,
«quelli che muoion ne l’ira di Dio
tutti convegnon qui d’ogne paese;
[…]».
12
Nell’analisi del linguaggio e delle espressioni delle figure
demoniache scelte per questo lavoro, vedremo come questi
personaggi sembrano rispecchiare proprio questa conditio
11
DVE I vii: «Oh nostra natura seguace del peccato e dai tempi dei tempi ognora colma di
nequizia! Non bastò dunque alla tua malvagità che, fatta orba dopo il fallo primo,
perdesti la patria d’ogni delizia? […] Così è, lettore, che l’uomo, o dimentico o
dispregiatore delle prime percosse, volgendo gli occhi dalle persistenti lividure,
presumendo per la sua superba stoltezza, la terza volta alle battiture si offerse. […]
furono tutti sorpresi dal Cielo di cotal confusione, che quando tutti con ugual loquela
servivano al lavoro, discordate le favelle, da quello dovetter ristarsi, non più convenendo
l’un l’altro in un istesso commercio. […] quanto erano varie le opere, in altrettanti parlari
l’umanità si disgiunse: e quanto era più nobile l’arte, tanto più rozzo e barbarico fu
l’idioma. Quelli poi, ai quali rimase il sacrato linguaggio, né avevan prestato all’opera la
loro mano né il loro consentimento: ché anzi, forte destandola, si facean beffe di quelli che
vi travagliavano».
12
If III 25-28, 121-123.
XIII
linguistica delle «diverse lingue»: Dante passerà da un
linguaggio solenne e retorico (Caronte, Minosse, i Centauri), ad
una lingua completamente degradata e corrispondente alle
espressioni in campo realistico e ʹcomicoʹ, che il poeta stesso ha
sperimentato nella sua produzione lirica, soprattutto nelle
tenzoni poetiche, (i Malebranche, ma già Flegiàs), includendo
anche situazioni linguistiche anomale o addirittura inesistenti
(Pluto e Nembrot)
13
. Ci è sembrato di vedere forte il legame tra
lingua e peccato, nel senso che attraverso la scrittura poetica, la
lingua poetica, Dante ci trasmette tutto quanto il senso del
peccato e delle pene che sta descrivendo: le «rime aspre e
chiocce», ad esempio, di cui parleremo, davvero, al sol leggerle,
ci danno il senso dello stridore, dell’orrore, della deformità
dell’umano immerso nel vortice del male, il senso
13
Vd. l’interessante saggio, con una precisa analisi filologica, di S. VAZZANA, Il diavolo
parla toscano, in «L’Alighieri», XXXII, 1, gennaio-giugno 1991, pp. 51-67, di cui riportiamo
qualche passo significativo: «Il primo diavolo a parlare è Caronte, “dimonio” anche lui
“con li occhi di bragia” per Dante che fa sua la demonizzazione che il Cristianesimo
operò di tutta la mitologia pagana e delle figure degli Inferi in particolare. La dignità che
a queste figure-simbolo dell’inferno dantesco viene dall’essere stati personaggi dell’epica
latina, impedisce che il linguaggio di Caronte, Minosse, dei centauri etc. attinga la
bassezza del comico, che sarà proprio dei diavoli di Malebolge. Tuttavia, pur dentro i
limiti di un registro medio-alto, che non permette individuazioni troppo marcate, il
linguaggio di Caronte si lascia collocare, senza eccezione di parola alcuna, tutto nell’area
toscana. […] Dello stesso tenore linguistico e livello stilistico sono le parole di Minosse
[…] Altrettanto rapide e perentorie le parole del “galeotto” Flegias – demonio anche lui,
anche se iconograficamente meno caratterizzato in senso demoniaco che Caronte e
Minosse […] L’apparire, […], dei diavoli della tradizione popolare cristiana sulla porta di
Dite, inaugura una più aperta comunicatività dei custodi dell’inferno. Il loro linguaggio si
fa più discorsivo ampio e ragionato, ma non scende immediatamente alle soluzioni
estreme del comico. […] L’evidenza del parlato toscano scoppia più colorita ed energica
nelle parole dei centauri, dove occupa un punto mediano tra le tendenze tragiche
dell’alto inferno e quelle assolutamente comiche dei diavoli del basso inferno. […] La
comparsa dei diavoli come personaggi più vigorosamente e più a lungo attivi nella bolgia
dei barattieri, porta all’estrema utilizzazione dello stile comico-realistico, che fu una
peculiarità della poesia toscana tra il ‘200 e il ‘300, e pertanto con esso del parlato toscano,
con specifica terminologia lucchese, almeno nella prima parte» (pp. 53-57, 60).
XIV
dell’accozzaglia di uomini che vivono nell’eternità quello che
sulla terra hanno creduto non avere affatto senso.
Dobbiamo fare un salto al canto XXVI
14
del Paradiso per
concludere le teorie di Dante sulla lingua delle origini. Nel De
Vulgari, infatti, aveva affermato che il «sacratum ydioma»
parlato da Adamo si era conservato, dopo la confusio babelica,
solo nel popolo ebreo, il popolo eletto. Nella terza cantica della
Comedìa, invece, il poeta corregge quelle affermazioni, dando la
parola proprio al «primo parente»:
La lingua ch’io parlai fu tutta spenta
innanzi che a l’ovra inconsummabile
fosse la gente di Nembròt attenta:
ché nullo effetto mai razïonabile,
per lo piacere uman che rinnovella
seguendo il cielo, sempre fu durabile.
15
Il senso di queste parole (e di quelle che continuerà a dire
Adamo), è chiaro: Dante giunge alla conclusione che la lingua è
creazione dell’uomo, il quale ha ricevuto da Dio, invece, il dono
della parola. La differenziazione dei linguaggi viene dal
mutamento delle abitudini e usanze dell’uomo
16
.
14
Vd. il saggio di G. RATI, Il canto XXVI del “Paradiso”, in «L’Alighieri», XXXII, 1, gennaio-
giugno 1991, pp. 35-38.
15
Pd XXVI 124-129.
16
Questo concetto lo aveva espresso già nel De Vulgari: «[…] homo sit instabilissimum
atque variabilissimum animal, nec durabilis nec continua esse potest, sed sicut alia que
XV
Dunque, Dante ha affermato, in sostanza, che il
linguaggio non è prerogativa né degli animali, né degli angeli,
né dei demoni, ma solo dell’uomo. Eppure nella Comedìa il
poeta darà voce ai personaggi diabolici, ai guardiani del regno
infernale, e lo farà per degradare ancor di più la loro figura e
relegarli in una posizione inferiore a quella che avevano un
tempo (dèi della paganità classica, angeli ribelli), avvicinandoli
alla natura umana
17
. In fondo essi sono guardiani e carnefici,
posti nel «cieco mondo» dalla Giustizia divina, ma nel
contempo sono anche vittime di questa stessa Giustizia,
subiscono anch’essi lo squallore dell’inferno, e sostanzialmente
la condanna a vivere eternamente lontano dall’amore
dell’«eterno fattore», di cui un tempo avevano forse gioito e
goduto.
Il tema centrale che ci sembra emergere da queste
considerazioni, e da tutte quelle che faremo in seguito, è la
preoccupazione, costante nell’Alighieri, di evidenziare la forte
volontà da parte del Cielo che lui compia questo viaggio «nel
mezzo del cammin di nostra vita», e di conseguenza
l’altrettanto solida convinzione nell’animo del poeta che egli è
stato predestinato a questa missione. Ce lo suggerisce la sua
nostra sunt […]» (DVE I ix: «essendo l’uomo un animale al sommo grado instabile e
mutevole, così non può essere certa e immutabile la loquela sua»).
17
Cfr. G. PADOAN, Demonologia, in ED, vol. I, cit., pp. 370-371. Vd. anche C. CASAGRANDE-
S. VECCHIO, I peccati della lingua. Disciplina ed etica della parola nella cultura medievale,
Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1987, cit. in D. COFANO, La retorica del silenzio
nella Divina Commedia, Palomar, Bari 2003.
XVI
poesia: facendo una lettura simmetrica dei canti della Comedìa,
notiamo che Pd XXVI contiene un affermazione di Adamo che
ci rimanda a Ulisse e ad If XXVI:
Or, figliuol mio, non il gustar del legno
fu per sé la cagion di tanto essilio,
ma solamente il trapassar del segno.
18
Il peccato di Adamo è lo stesso di quello commesso da Ulisse: la
presunzione, la superbia di oltrepassare il «segno» posto da
Dio, il limite per la conoscenza del bene e del male
19
.
Mangiando il frutto proibito, Adamo ha volutamente tentato di
superare quel limite, come Ulisse nella sua impresa:
[…] misi me per l’alto mare aperto
sol con un legno e con quella compagna
picciola da la qual non fui diserto.
[…]
e volta nostra poppa nel mattino,
de’ remi facemmo ali al folle volo,
18
Pd XXVI 115-117.
19
«Al di là del valore che assume sul piano strettamente linguistico, la “ritrattazione”
ripropone il motivo della mutabilità di ogni cosa terrena con ciò che comporta da una
parte di denuncia dell’orgoglio e dell’autosufficienza e dall’altra del riconoscimento della
libertà e della dignità umana. Si chiarisce così ulteriormente il senso della presenza di
Adamo, depositario di una verità sull’uomo consistente nel riconoscimento dei suoi limiti
e nel contempo del disegno di Dio (nel quale si colloca la missione del poeta) che ne
vuole comunque la salvezza. Ma questa verità, ribadita anche dall’ultima risposta di
Adamo, il quale afferma di aver dimorato nel Paradiso Terrestre, dapprima innocente e
poi colpevole, soltanto sette ore, è quella stessa adombrata dalla cecità del poeta nella
prima parte del canto. Il volo che Dante sta per spiccare in direzione del Cielo cristallino
non è un “folle volo”» (G. RATI, Il canto XXVI del “Paradiso”, cit., pp. 36-37).
XVII
sempre acquistando dal lato mancino.
20
Dante sta facendo un percorso: sta acquistando sempre più
piena consapevolezza della volontà di Dio che lui veda, ascolti,
pianga, inveisca, si purifichi, partecipi, insomma, allo «status
peccatorum post mortem», perché possa ʹnotareʹ con le sue
«penne» che «di retro al dittator sen vanno strette» (Pg XXIV 58-
59). Il suo non è un volo folle
21
: lo aveva temuto all’inizio («Io
non Enëa, io non Paulo sono», If II 32), ma il viaggio lo va
rassicurando. In Pg XXVI è ormai consapevole di questo e
chiederà egli stesso, ai lussuriosi, di parlargli del loro status
«acciò ch’ancor carte ne verghi»:
«[…]
Quinci sù vo per non esser più cieco;
donna è di sopra che m’acquista grazia,
20
If XXVI 100-102, 124-126. E’ significativo che Dante utilizzi la parola «legno» sia in Pd
che in If, che crea un legame semantico: in Pd, infatti, è metonimia, in If sineddoche, e sta
ad indicare, in entrambi i casi, lo strumento materiale con cui Adamo e Ulisse hanno
ʹtrapassato il segnoʹ: la mela e la nave.
21
A proposito del rapporto che intercorre tra la persona di Dante e la figura di Ulisse vd.
l’interessante lectura di S. TAGLIAGAMBE, L’organizzazione spaziale della Commedia e il suo
significato filosofico, in Contesti della Commedia. Lectura Dantis Fridericiana 2002-2003, a c.
di F. Tateo e D. M. Pegorari, Palomar, Bari 2004, pp. 199-254: 238-250, in cui si parla di
Ulisse come doppio di Dante, alla base di considerazioni interessanti ai fini della nostra
analisi: « […] mentre Ulisse è caratterizzato da una sete di conoscenza che lo spinge a
seguire le tracce sia delle strutture segrete del mondo, sia “delli vizi umani e del valore”,
Dante, pur manifestando il massimo rispetto per questa aspirazione alla conoscenza che,
essendo incondizionata, non tollera nessuna forma di controllo o di limite, neppure di
natura etica, è piuttosto interessato alla luce dell’intelligenza e alla cresita del sapere
favoriti da un’interrotta ascesa lungo l’asse dei valori morali e dal perfezionamento etico
del soggetto coinvolto. “La sete di conoscenza di Ulisse non è invece legata né alla
moralità né alla immoralità, ma si trova su un altro piano. Lo stesso Purgatorio è per lui
solo un punto bianco sulla carta, e il tentativo di raggiungerlo è un viaggio ispirato dalla
sete delle scoperte geografiche. Dante è un pellegrino, Ulisse un esploratore”» (Ivi, pp.
248-249).
XVIII
per che ‘l mortal per vostro mondo reco.
Ma se la vostra maggior voglia sazia
tosto divegna, sì che ‘l ciel v’alberghi
ch’è pien d’amore e più ampio si spazia,
ditemi, acciò ch’ancor carte ne verghi,
chi siete voi, e chi è quella turba
che se ne va di retro a’ vostri terghi».
22
I diavoli di cui si serve il poeta per custodire gironi,
rappresentare e condannare peccati e peccatori, rappresentano
questa consapevolezza: la creatura non può superare il
Creatore; nel momento in cui questo avviene, il disegno
provvidenziale di Dio per il bene dell’uomo e del mondo viene
sconvolto, la ribellione punita e i ribelli distrutti, degradati. Dio
è Amore, al di fuori di Esso vi è il male, l’oscurità. Dante in
questo ci crede profondamente, al di là del condizionamento
del suo tempo essenzialmente teocentrico, e per comunicarlo
agli uomini, a noi, fa scorrere, dalla sua esperienza di viaggio
nell’oltretomba, fiumi di limpidi poesia, che comunichi una
condizione e nello stesso tempo una soluzione
23
.
Abbiamo diviso le figure demoniache analizzate in due
gruppi, quelle riprese dalla paganità classica e quelle recuperate
22
Pg XXVI 58-66.
23
«[…] la Commedia propone anche una forma di rivoluzione nella quale Dante ha inteso
proporre un ribaltamento del mondo, in nome del nuovo accordo stipulato da Cristo
sulla croce. Per amore» (S. SARTESCHI, Per la Commedia e non per essa soltanto, Bulzoni,
Roma 2002, p. 379).