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I nostri sensi
Quanti e quali sensi abbiamo
Fa parte del senso comune sapere che la comunicazione del nostro
corpo col mondo esterno si basa su cinque sensi: vista, udito, tatto,
olfatto e gusto; non appena si analizza la situazione un po’ più in
profondità, però, si scopre che la realtà è ben più complessa.
Innanzitutto esiste un altro senso: il senso cinestesico, o propriocezione,
generalmente associato al tatto, ma che poco ha a che fare con la pelle, e
che ci consente di conoscere la nostra posizione nello spazio. Questo
“sesto senso” si basa su alcuni ricettori che sono presenti nei muscoli,
nei tendini e nelle articolazioni, e sui ricettori labirintici del sistema
vestibolare nell’orecchio interno. Questo complesso e diffuso sistema
percettivo fa sì che noi possiamo avere una chiara idea della nostra
posizione assoluta rispetto all’ambiente, della posa assunta dal nostro
corpo e ci permette, assieme al tatto, di dosare la nostra forza nel toccare
gli oggetti, evitando che ci scivolino o di schiacciarli.
Il tatto è un senso che presenta alcune caratteristiche particolari: è un
senso diffuso su tutta la pelle, un organo complesso, costituito da diversi
tipi di ricettori organizzati su più strati che formano la nostra cute,
ognuno capace di percepire diverse caratteristiche ambientali. Assieme al
gusto, il tatto funziona solo per contatto, anche se in alcuni casi può
essere anche utilizzato per avere informazioni a distanza, ad esempio ci
sono dei non vedenti riescono a stimare la presenza di un oggetto
davanti a loro basandosi sulla percezione dell’aria sul viso. La percezione
tattile di un determinato oggetto, così come la percezione uditiva, si
sviluppa in modo sequenziale nel tempo: ci si forma un’idea complessiva
dell’oggetto toccato analizzandone prima i singoli dettagli e, solo
successivamente, ricomponendoli in un’unità. Questa è una notevole
differenza dalla vista che, invece, è capace di percepire
contemporaneamente l’intero campo visivo estraendone le caratteristiche
principali e, solo successivamente, passa ad analizzare i singoli elementi.
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La vista è il senso maggiormente sviluppato nell’essere umano, si basa
sui ricettori collocati negli occhi (coni e bastoncelli), e su un sistema
estremamente complesso che va ad interessare svariate parti del cervello,
preposte al riconoscimento di diverse caratteristiche: l’unione degli
stimoli provenienti dai due occhi, il movimento, i colori, i visi, ecc.
Come funzionano i nostri sensi
Dato che ci siamo evoluti in un ambiente in continuo movimento, i
nostri ricettori sono sensibili alle variazioni nello stimolo esterno. Questo
vale per tutti i sensi: se fissiamo un oggetto bloccando completamente
ogni movimento degli occhi, dopo un po’ non ci sarà possibile vedere
nulla, analogamente un contatto fisico fisso e immobile non merita la
nostra attenzione se non negli istanti del suo instaurarsi, e dopo un certo
intervallo di tempo non lo sentiamo più, infatti non siamo coscienti della
pressione dei nostri abiti se non nel momento in cui li indossiamo.
Tutti i nostri sensi reagiscono agli stimoli esterni in un determinato
intervallo di intensità, gli stimoli troppo deboli o troppo forti non sono
percepiti. Questo range, pur avendo una certa variabilità da individuo a
individuo, è simile per ogni persona umana. La minima intensità che uno
stimolo deve avere per poter generare una sensazione in almeno la metà
delle persone è definita empiricamente come soglia assoluta, uno stimolo
sotto soglia non viene percepito.
La soglia differenziale, determinata empiricamente da E. H. Weber all’inizio
dell’Ottocento, definisce la differenza minima di intensità tra due stimoli
perché questi possano essere riconosciuti come diversi tra loro da
almeno metà delle persone. Si tratta di una differenza che non è costante,
ma proporzionale all’intensità dello stimolo, quindi più lo stimolo è
intenso, più grande diventa la soglia differenziale.
La formula che permette di calcolare la soglia differenziale è:
Soglia differenziale = ∆m = k * m
dove m è lo stimolo minore e k una costante. Valori indicativi di k sono:
1/50 nella sensibilità propriocettive, 1/7 nella sensibilità alla pressione.
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È comunque necessario tenere conto che la nostra sensibilità soggettiva
non è costante nel tempo: il nostro organismo è capace di mettere in atto
una strategia adattativa che ci permette di ignorare un segnale fino ad
una certa soglia oppure di fissare l'attenzione su stimoli debolissimi.
Esiste quindi un certo intervallo di intensità entro il quale uno stimolo
genera incertezza: il soggetto non è sicuro di aver effettivamente
percepito qualche cosa. Un ulteriore elemento che influisce sulla
percezione è la selettività, cioè la tendenza dell’essere umano a percepire
quanto si immagina debba esistere.
Concludendo, la percezione è l’organizzazione immediata, dinamica e
significativa delle informazioni sensoriali corrispondenti ad una data
configurazione di stimoli, che viene generata da processi sia di tipo
bottom-up, cioè che partono dallo stimolo distale
2
che colpisce i nostri
sensi, sia di tipo top-down, cioè in funzione delle aspettative.
Esistono due principali approcci allo studio della percezione: uno, di tipo
meccanicistico, sostiene che ad uno stimolo corrisponde una reazione di
un apposito sensore, e che quando lo stimolo viene replicato, si replica la
sensazione corrispondente; l'altro può essere definito olistico, nel senso
che considera la percezione come il risultato di un insieme integrato di
sensazioni difficilmente individuabili singolarmente. Questo approccio
meno deterministico è quello che caratterizza, ad esempio, la psicologia
della Gestalt, secondo la quale il processo percettivo è un'esperienza
globale, che va oltre la somma dei singoli elementi atomici, tanto più
significativa quanto maggiore è il nostro coinvolgimento nella realtà da
percepire.
Gestalt è un termine tedesco che significa pressappoco “forma
organizzata”, e che dà il nome ad una scuola di pensiero che nasce in
2
La percezione visiva si compone di tre diversi elementi: lo stimolo distale, che è costituito
dall’oggetto del mondo che riflette la luce; lo stimolo prossimale, che è il primo livello di
mediazione, cioè la stimolazione che arriva ai nostri sensori visivi; i percetti che sono il
risultato del modo in cui la stimolazione prossimale viene organizzata. [GERBINO, 1994]
11
Germania all’inizio del ventesimo secolo. I gestaltisti pongono l’enfasi
sui processi di organizzazione degli stimoli in base ad una serie di
principi che intervengono non solo nella percezione, ma nel pensiero
stesso. La percezione, secondo loro, è un processo primario ed
immediato che, basandosi sull’organizzazione interna di “forze” presenti
nello stimolo, genera la realtà fenomenica, cioè il mondo così come ci
appare, ricco di proprietà e relazioni immediatamente evidenti, in cui
l’esperienza pregressa non ha che un ruolo secondario.
Nei prossimi paragrafi vorrei cercare di dare un’idea dei sensi con cui
avrò a che fare, che sono coinvolti nei processi di traduzione di opere
d’arte visive per non vedenti, quindi del tatto, del senso aptico, della
vista.
Il tatto
Il tatto è un senso complesso, costituito da diversi tipi di ricettori
specializzati a percepire il caldo, il freddo e il dolore. Come gli altri sensi,
il tatto funziona per differenze, il movimento ci consente di affinare la
nostra sensibilità e percepire differenze anche ridottissime. Ad esempio,
per leggere il Braille è necessario muovere il polpastrello sul carattere per
poterlo percepire correttamente, se lo li lascia fermo non si riescono a
distinguere i diversi punti che compongono il carattere. La parte del
corpo in cui il tatto è maggiormente sviluppato è la bocca, ma anche nei
polpastrelli delle mani e, in generale, negli interi palmi.
Sull’epidermide, che è lo strato più esterno della pelle, dei polpastrelli
abbiamo un’ottima capacità tattile, siamo capaci, potenzialmente, di
rilevare risoluzioni al di sotto del millimetro e frequenze anche molto
basse. La risoluzione tende a diminuire man mano che ci si sposta verso
il palmo della mano, ma rimane comunque molto elevata, sufficiente al
rilevamento delle forme con solo il contatto, cioè anche senza il
movimento relativo tra oggetto e pelle. Sotto all’epidermide ci sono altri
strati di pelle, che contengono, a loro volta, altri ricettori. Ad esempio il
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dolore e il calore sono percepiti da ricettori che si trovano nel derma, lo
strato sottostante all’epidermide [Ricchetti, 2003].
Il tatto può essere esercitato in maniera passiva, cioè quando un oggetto
ci tocca, oppure attiva, che è quando si fanno scorrere le dita attivamente
su un oggetto; in generale la sensibilità è maggiore nel tatto attivo
rispetto al passivo. La sensibilità umana è molto fine, è possibile rilevare
rilievi di appena due micron su superficie liscia, ma occorre che ci sia
movimento della pelle contro la superficie.
Per i nostri scopi, però, tale soglia è ben lontana da ciò che può essere
considerato il limite reale. Secondo il Manuale per il disegno in rilievo [Tactile
Vision], il punto dell’alfabeto Braille (in genere 1 millimetro di
dimensione) rappresenta la dimensione minima utilizzabile del punto in
rilievo, mentre la soglia per rendere una linea percepibile si aggira
intorno al mezzo millimetro di larghezza, e deve essere ad almeno due
millimetri di distanza da altre linee per poter essere considerata una linea
isolata.
Il tatto è soggetto anche ad altre limitazioni: per percepire tattilmente un
oggetto è necessario toccarlo, quindi siamo vincolati dalla lunghezza
delle nostre braccia, inoltre il riconoscimento tattile degli oggetti non è
immediato e una superficie troppo ricca di dettagli può creare
disorientamento.
È necessario tenere conto di tutte queste limitazioni nella realizzazione
di una trasposizione tattile di un dipinto: le dimensioni globali non
potranno essere né troppo grandi né troppo piccole, così come gli
elementi rappresentati devono avere una dimensione minima per poter
essere percepiti e, talvolta, la densità di oggetti nel dipinto può renderli
impossibili da individuare.
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Il senso aptico
3
Il senso aptico non è un senso di cui abbiamo ricettori, ma è il prodotto
dell’integrazione sensoriale tra senso del tatto e senso cinestesico. Nella
percezione aptica si possono distinguere due componenti fra loro
sinergicamente interagenti:
ξ una componente di posizionamento (propriocettiva) delegata alla
localizzazione nello spazio delle parti del corpo,
ξ ed una prettamente tattile (esterocettiva) responsabile della
rilevazione di grandezze fisiche locali dell’oggetto esplorato o
manipolato quali ad esempio la microgeometria e la macrogeometria,
la temperatura, la capacità termica, la cedevolezza etc.
La vista
I recettori della vista sono di due tipi diversi: coni e bastoncelli. I coni ci
permettono di vedere i colori, ed hanno una buona risoluzione, mentre i
bastoncelli sono molto più sensibili alla luce permettendoci di vedere
anche in condizioni di bassa luminosità, ma hanno una risoluzione
peggiore. La fovea è quella parte dell’occhio in cui la densità di coni è
maggiore e ci permette di mettere a fuoco e concentrare l’attenzione su
un certo particolare, ma copre un’area piuttosto ridotta del campo visivo.
L’elaborazione dei dati provenienti dai ricettori avviene in momenti
diversi, iniziando già nell’occhio stesso. I coni e i bastoncelli comunicano
tra loro e iniziano, in questo modo, una prima elaborazione dei dati
acquisiti. Il segnale viene poi inviato al cervello, dove diverse aree sono
specializzate nel trattamento di singole caratteristiche. Ogni occhio
3
A. Riegl, in Problemi di stile. Fondamenti di una storia dell’arte ornamentale (Stilfragen, Grundlegungen
zu etner Geschichte der Ornamentik, Berlin, 1893), Milano, Feltrinelli, 1963, propone una
possibile distinzione teorica nell'ambito delle arti plastiche tra uno stile ottico e uno stile
aptico. Lo studioso della percezione J. Gibson riprende e sviluppa in termini sperimentali
l’ipotesi di un senso aptico (“haptic” deriva dal greco “apto”, che significa “toccare” e che
evoca l’apprensione tattile dello spazio, oltre che l’autopercezione dell’assetto corporeo
che consente l’orientamento di un organismo rispetto all’ambiente fisico circostante).
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comunica con entrambi gli emisferi cerebrali, alcuni neuroni reagiscono
agli stimoli provenienti dai due occhi, associandoli e realizzando la
percezione binoculare. Esistono poi aree specializzate nel
riconoscimento del colore, di alcune forme
4
, del movimento, ecc.
La percezione visiva
Arnheim, in Arte e percezione visiva [Arnheim, 1954], parte dai principi
della Gestalt per analizzare il modo in cui percepiamo un’opera d’arte
visiva (pittura, disegni, ma anche scultura e architettura) e,
successivamente, fa un breve excursus su come queste opere vengono
create. I principi che si utilizzano per rappresentare nelle due dimensioni
una realtà tridimensionale cambiano nel tempo, ma anche con
l’evoluzione di ogni singolo individuo.
Secondo Arnheim, ogni persona umana, indipendentemente dalla
propria cultura di appartenenza, vede in modo simile, un modo che
dipende dalla struttura fisiologica dell’organo della vista e del nostro
sistema psicologico. Solo a valle di questa prima elaborazione percettiva
intervengono i fattori legati alla propria esperienza personale e culturale.
Nella percezione c’è di più di ciò che colpisce la retina, si vengono a
creare, attraverso un processo primario, elementi legati alla topologia
dell’area analizzata, alla forma, dimensione e collocazione reciproca dei
diversi oggetti, ecc. Ad esempio siamo in grado di percepire il centro di
una rappresentazione, che assume un significato particolare, anche
quando non c’è alcun segno che lo evidenzia esplicitamente.
L’importanza, e quindi il peso psicologico, di un oggetto non è sempre lo
stesso, ma dipende dal luogo in cui questo si trova: lo stesso elemento,
quando è posto al centro, viene percepito come più importante rispetto a
quando si trova in periferia.
4
A titolo di esempio basti citare che esiste un’area del cervello specializzata nel
riconoscimento dei volti; quando questa non funziona correttamente, la persona si dice
affetta da prosopagnosia e, pur vedendo correttamente ogni dettaglio di un viso, è
incapace di riconoscerlo. [Sacks, 1985]
15
Nel nostro campo visivo Arnheim riconosce la presenza di forze
percettive, che si creano nel sistema nervoso al formarsi del percetto e
che sono, almeno in parte, legate alla nostra esperienza del mondo.
Queste forze dipendono dalla posizione degli oggetti nel piano della
rappresentazione, dalla loro profondità spaziale, dalla dimensione e
colore, oltre che dalla desiderabilità, interesse o timore dell’oggetto, dalle
aspettative dell’osservatore, ecc. La mente umana tende alla ricerca di
una condizione di equilibrio tra queste forze, che può essere raggiunto
attraverso un complesso insieme di rapporti tra gli oggetti e tra diverse
caratteristiche del campo visivo, anche se la soddisfazione non è la stasi
nell’equilibrio, ma l’azione che vi tende.
La nostra vista si è poi specializzata nel riconoscimento delle forme, con
particolare attenzione a quelle che hanno un’influenza sulla nostra vita,
siamo capaci di afferrare immediatamente alcuni tratti essenziali,
sufficienti per il riconoscimento dell’oggetto esaminato. La
configurazione globale di una immagine salta immediatamente all’occhio,
non viene creata in base alle singole parti che lo compongono. Lo
scheletro strutturale di un oggetto arriva alla nostra coscienza solo dopo
una complessa elaborazione. Siamo anche capaci di distinguere gli
oggetti dallo sfondo, o riconoscerli e completarli quando si
sovrappongono, rimanendo in parte nascosti alla vista.
Noi percepiamo lo spazio in cui viviamo come anisotropico, nel senso
che alto e basso, sinistra e destra hanno significati diversi. Tutti gli esseri
umani associano ad alto e basso lo stesso significato, che dipende
dall’ambiente naturale che ci circonda e dalla forza di gravità. Per quanto
riguarda la sinistra e la destra, invece, ci sono differenze culturali: per gli
occidentali la sinistra viene prima della destra, secondo la direzione della
nostra scrittura, per cui un movimento da sinistra verso destra viene
percepito come naturale e gradevole, mentre quello opposto presenta
maggiori difficoltà.
Queste caratteristiche sono particolarmente importanti nelle opere
d’arte, dove le diverse forze concorrono a creare l’impressione generale
16
della raffigurazione e partecipano alla costruzione del significato. Ad
esempio un oggetto posto in alto su una base stretta e piccola non può
che generare una sensazione di instabilità, così come la diagonale
discendente, cioè quella che parte dal vertice in alto a sinistra e va verso
quello basso a destra viene letta, nella nostra cultura, secondo un
movimento discendente. Quando questa lettura naturale entra in
contrasto con altri elementi della rappresentazione che guidano l’occhio
secondo un verso opposto, cioè forzando una lettura ascendente, da
destra verso sinistra, si viene a creare una situazione che comunica molta
forza, una configurazione che sfida l’ordine “naturale” del nostro
mondo. Questa particolare configurazione è molto usata nei quadri
equestri, in cui il cavallo è rappresentato in impennata col muso rivolto
verso il lato sinistro del dipinto. Alcune pubblicità di automobili sportive
ed aggressive utilizzano lo stesso espediente psicologico per connotare la
propria immagine.
La rappresentazione
Le arti visive si sono evolute nei millenni basandosi sulle caratteristiche
fisiologiche dei nostri sensi, nel tempo si è sviluppato un codice che ci
porta a considerare come naturali certe rappresentazioni, che viviamo
come se fossero l’esatta riproduzione dell’immagine che si forma sulla
nostra retina, mentre è facile dimostrare che sono frutto di convenzioni
culturali e sociali.
La creazione di immagini, artistiche e non, non è una semplice
riproduzione della proiezione ottica dell’oggetto rappresentato, ma è
frutto del tentativo di riprodurre, utilizzando un mezzo espressivo
bidimensionale, le caratteristiche principali che si percepiscono
nell’oggetto reale.
Arnheim sostiene che
Se desideriamo fare delle pitture su una superficie piana, tutto ciò che
potremo sperare è di produrre una traduzione: ossia di presentare alcune
delle essenziali caratteristiche strutturali del concetto visivo mediante
mezzi bidimensionali.
17
[Arnheim, 1954; tr. it. 101]
Ci sono molti modi diversi di rappresentare il mondo, e ognuno sembra
corrispondere al reale per coloro che appartengono alla stessa cultura
dell’artista, ma sono tutte codifiche, convenzioni intersoggettivamente
determinate. Come afferma Picasso, si può soltanto tradurre la natura in
pittura mediante segni. La verosimiglianza di un quadro viene giudicata,
istintivamente, in base allo stile artistico dell’epoca e non in base alla
realtà, così come ogni stimolo non viene giudicato in base alle sue
proprietà assolute, ma in rapporto al livello normale che si è imposto
nella mente del giudicante. Rappresentare un oggetto vuol dire mostrare
alcune delle qualità che gli sono proprie utilizzando un codice specifico.
Siamo abituati a vedere il mondo disegnato in determinati modi e ci
sembra del tutto naturale che sia così, ma
ogni tipo di figurazione richiede l’uso di concetti rappresentativi i quali
forniscono l’equivalente, tramite un determinato medium, di concetti visivi
che si vogliono rappresentare, e trovano una manifestazione esterna nel
prodotto della matita, del pennello, ecc.
[Arnheim, 1954; tr. it. 148].
Ma allora, se l’artista è colui che sa trovare una forma tangibile per
l’incorporea struttura di ciò che ha provato, che significato avrebbe
tradurre un’opera d’arte visiva per una persona che non ha mai usato la
vista? Vedremo come in alcuni casi può essere sensato fare una
trasposizione, dell’opera, cercando di rendere accessibile quella specifica
forma in quanto elemento significativo della cultura visiva di un
determinato periodo storico, di un artista o di uno stile, mentre in altri
casi può essere più appropriato cercare di trovare una diversa forma
tangibile per quelle stesse strutture significanti. Quale sia la scelta
migliore dipende dal livello di significato che si ritiene pertinente, da chi
sono i destinatari, qual è la loro cultura, qual è il fine per il quale si decide
di fare la traduzione in questione.
Vorrei ora elencare alcune caratteristiche della rappresentazione che
possono essere di interesse per questo lavoro. In questa elencazione
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seguo la falsariga di Arte e percezione visiva [Arnheim, 1954], a cui rimando
per eventuali approfondimenti:
1. La prospettiva
Ci sono diversi modi di esprimere la terza dimensione, tra cui: la
prospettiva centrale rinascimentale, la prospettiva isometrica (in cui le
rette all’infinito rimangono tra loro parallele), quella invertita (in cui le
forme divergono in lontananza invece che convergere). Tutte queste non
sono che approssimazioni di ciò che vediamo nel mondo reale, nessuna
riesce a riprodurre perfettamente il nostro percetto. La scelta di un
determinato tipo di prospettiva è anche un modo di veicolare una
determinata visione del mondo: la prospettiva centrale rappresenta bene
un mondo gerarchico, con un unico e solido centro, in cui la figura
principale è collocata al centro e tutto viene determinato armonicamente,
come, ad esempio, nell’Ultima Cena di Leonardo. Se però passiamo
all’Ultima Cena di Tintoretto, dipinta una sessantina di anni dopo,
abbiamo che il centro focale della stanza si trova in alto a destra, mentre
Cristo è spostato e si trova al centro del quadro: la legge del mondo ha
perduto la sua validità assoluta e viene presentata come un modo di
esistenza possibile tra altri, egualmente possibili.
2. La sovrapposizione
Nella nostra realtà, accade assai raramente che un oggetto possa essere
visto interamente. La maggior parte delle volte risulta almeno
parzialmente coperto da un altro oggetto. Il nostro sistema visivo si è
evoluto adattandosi a questa realtà e siamo generalmente capaci di
completare un oggetto automaticamente. Anche se vediamo una persona
con una gamba dietro ad un tavolo, diciamo di aver visto l’intera
persona, e non crediamo certo che sia senza una gamba.
Un non vedente, però, non è generalmente abituato all’idea che un
oggetto non possa essere visto nella sua totalità. Quando prende in mano
qualcosa, è in grado di maneggiarlo e può toccarlo in tutti i suoi aspetti.
Naturalmente non è difficile comprendere che una parte di un oggetto
19
possa rimanere nascosta, coperta da qualcosa di altro, ma si tratta sempre
di un evento di cui il non vedente congenito non ha esperienza diretta.
Ne è esempio una signora cinquantenne
5
, non vedente dalla nascita che
si è stupita nello scoprire che un vedente non riesce a vedere l’etichetta
di una bottiglia quando questa è nascosta dal corpo della bottiglia stessa.
Nel toccare lo stesso oggetto, lei aveva la possibilità di esaminare tutti i
lati, e non si era mai resa conto che il campo visivo è, invece,
caratterizzato da un sacco di particolari nascosti, che gli oggetti sono
sempre visibili solo in modo molto parziale.
Kanisza, in Vedere e pensare [Kanisza, 1991] analizza in dettaglio il
fenomeno del completamento amodale, studiando il modo in cui il
nostro sistema visivo completa le immagini, in base criteri propri, che
non necessariamente sono legati alla nostra esperienza personale o alla
nostra cultura, ma che cercano di interpretare lo stimolo nel modo più
semplice possibile.
3. La luce
In molti dipinti la luce è diffusa ed omogenea, proviene da una generica
fonte posta, la maggior parte delle volte, in alto a sinistra, che illumina
omogeneamente gli oggetti e non presenta particolari problemi, ma
esistono alcuni casi in cui essa assume una notevole importanza per il
significato stesso del dipinto.
5
Da una esperienza di Piero Cecchini dell’ASPHI di Bologna con una signora non vedente
congenita.
20
Fig. I.1. – Il neonato di Rennes, Georges De la Tour (1593-1652)
Un esempio sono i quadri a lume di candela
6
dove si viene a creare,
grazie alla luce, uno spazio sferico e ristretto, circondato dal buio, che
tende ad uscire dal dipinto e accogliere l’osservatore in sé.
In molti casi, l’illuminazione di un quadro costituisce una guida per
l’occhio e definisce l’importanza degli oggetti: in Caravaggio è
l’illuminazione che fa emergere i corpi da uno sfondo buio e poco
caratterizzato. Inoltre la luce può anche offrirci informazioni sui
personaggi dipinti, ad esempio una persona in ombra può comunicare
indecisione, desiderio di rimanere nascosto, ecc.
Un esempio interessante di illuminazione in un quadro è dato dalla Fuga
in Egitto di Adam Elsheimer, in cui sono presenti tre fonti luminose
contemporaneamente: la luna e il suo riflesso sulla destra, la torcia del
gruppo dei fuggitivi nel centro, il falò sulla sinistra. Ogni fonte luminosa
caratterizza un momento diverso della fuga: il mondo lasciato alle spalle
contraddistinto dalla luminosità lunare, diffusa ma, nel contempo,
minacciata dalle nuvole che si apprestano ad oscurarla; il difficoltoso
tragitto nel bosco in mezzo all’oscurità, con solo un lieve chiarore della
torcia; il caldo focolare che promette un momento di riposo e di
6
Per una interessante trattazione dei quadri a lume di candela vedere [Corrain, 1996]
21
tranquillità nella fuga. La lettura del quadro segue una direzione da
sinistra verso destra, che sottolinea la dimensione divina dell’evento
rappresentato.
Fig. I.2. – Fuga in Egitto, Adam Elsheimer (1609)
Dal falò salgono piccoli lapilli luminosi, che ci fanno uscire dalla
dimensione terrestre e andare verso il cielo, fino al chiarore della Via
Lattea la quale, a sua volta, guida lo sguardo verso la luna, dove un
albero morto si staglia contro il cielo, creando un effetto di chiusura del
quadro: tutto è contenuto nel quadro e nulla si completa fuori di esso. Si
viene a creare così una circolarità che ci narra l’intera storia di Cristo,
fino all’albero che rappresenta una morte appartenente alla terra, ma che
si staglia verso il celeste.
Siamo dunque di fronte ad un’opera in cui la luce è fondamentale, non
solo determina il percorso di lettura del dipinto, ma gioca un ruolo
importante nella significazione stessa dell’opera.
Oltre all’illuminazione, la luce in un quadro può creare altri fenomeni
che possono essere di particolare interesse: il riflesso, lo specchio,
l’ombra, le rime cromatiche, ecc. Sono tutti fenomeni tipici del visivo
che possono creare alcune difficoltà nella traduzione per un non
vedente, e che, spesso, agiscono sull’osservatore anche a livello non
cosciente, comunicando atmosfere e sensazioni. La loro trasposizione in
un sistema basato su sensi diversi dalla vista presuppone che gli effetti
luminosi vengano razionalizzati ed interpretati, con il rischio di snaturare
22
l’opera originale o, comunque, di creare qualche cosa di diverso,
un’opera nuova, a sé.
4. I colori
Come ci ricorda Branzaglia, [Branzaglia, 2003], i colori agiscono
direttamente sul nostro equilibrio fisiologico, ad esempio il rosso tende
ad accelerare il battito cardiaco e la circolazione sanguinea, generando
una sensazione di calore, mentre il giallo, che è quello che maggiormente
riflette la luce, tende ad essere percepito come instabile. Quindi, così
come per l’illuminazione, anche il colore agisce ad un livello inconscio,
fisiologico, prima ancora di arrivare ad un significato culturale e testuale.
Anche in questo caso la trasposizione per sensi diversi dalla vista è
particolarmente problematica, tanto che in tutti i casi esaminati i colori
sono sempre trasmessi solo nella descrizione verbale.
5. Espressioni e posture
Tra gli elementi che rivestono maggior importanza nella nostra
percezione visiva c’è il corpo umano in genere, e il viso in particolare.
Nell’evoluzione, il riconoscimento delle espressioni sul viso dei nostri
simili è di fondamentale importanza perché, assieme al loro
comportamento corporeo, ci comunicano alcune informazioni
fondamentali per la nostra vita sociale.
Nell’osservare un’opera d’arte noi percepiamo immediatamente, anche se
non necessariamente a livello cosciente, sensazioni, sentimenti, alcuni
aspetti del carattere dei personaggi rappresentati. Interpretiamo queste
informazioni in base ad alcuni elementi istintivi e agli stereotipi che si
formano durante la fase di socializzazione del bambino. Sono
informazioni così importanti che spesso trasferiamo le espressioni anche
sugli oggetti, definendo, ad esempio, il salice come piangente perché
rivolto verso il basso. L’artista utilizza questi aspetti della percezione per
comunicare le proprie passioni e sensazioni.
Oltre alle espressioni del viso, è rilevante anche la postura fisica dei
personaggi rappresentati. La posa frontale piuttosto che il profilo serve a
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comunicare alcuni valori culturali che possono caratterizzare un’epoca o
un personaggio, in momenti storico-culturali diversi questo sistema viene
proposto in modi differenti. Nell’arte egizia, così come nel cubismo, il
profilo è utilizzato in modo combinato con la frontalità per mostrare la
persona da più punti di vista diversi. L’arte vascolare greca, invece,
utilizza esclusivamente il profilo per raccontare delle storie che si
svolgono dinamicamente davanti all’osservatore. La frontalità, in questo
caso, è utilizzata per rappresentare il diverso, ciò che è fuori norma come
maschere, persone morte, ubriachi, satiri. Nel medioevo la
rappresentazione frontale indica poteri divini mentre il profilo è
destinato alla rappresentazione dell’umano.
Shapiro [Shapiro, 2002] associa la posizione frontale ad un discorso in
prima persona, un io che interpella un tu al di fuori del testo, mentre la
posizione di profilo viene considerata come un discorso indiretto, in
terza persona, in cui la narrazione avviene in modo indipendente dalla
presenza dell’osservatore e tutto si svolge internamente alla narrazione. Il
profilo è maggiormente dinamico perché permette alla storia di andare
avanti, mentre la frontalità è statica, ferma la narrazione per interpellare il
lettore.
Nel lavoro di Shapiro emerge la seguente omologazione:
frontalità :: profilo = debrayage enunciazionale :: debrayage enunciativo
frontalità :: profilo = statico :: dinamico
Assieme alla postura frontale, ci sono altri elementi utilizzati per
chiamare in causa l’osservatore come la posizione delle braccia e del
corpo, la direzione dello sguardo, elementi che omologano lo spazio
della rappresentazione con lo spazio esterno, in cui questa si trova.
In una traduzione per un non vedente, fino a che punto siamo in grado
di riprodurre una generale atmosfera che può essere veicolata da
espressioni o micro elementi somatici, fisionomici o comportamentali?
Ovviamente non esiste una risposta univoca a questa domanda, dipende
dalla singola opera oltre che dallo scopo per cui si fa la traduzione.