La tematica dell’ambiente nelle relazioni industriali Danilo Tomasini
5 novembre 1999
Occuparsi di questioni ecologiche significa fare i conti anche con il problema occupazionale.
Occupazione ed ecologia sono apparse per anni come gli estremi di due poli opposti ed antagonisti,
irriducibili tra loro proprio per la radicale diversità delle logiche economiche che li sostengono: da un
lato l’esigenza di una continua crescita economica come fattore di sviluppo del benessere sociale,
dall’altro l’esigenza di un rallentamento dell’economia e la ricerca di un nuovo e diverso modello di
sviluppo che, nel breve periodo può anche comportare riduzione degli occupati.
La convinzione che occorra rivedere questo modello di sviluppo oggi è largamente diffusa
nell’opinione pubblica e nell’opinione degli studiosi: l’attuale modello fonda, infatti, le proprie radici
nella cultura positivista del secolo scorso, quando la fiducia nella nascente società scientifica ed
industriale era assoluta, ma il senso contemporaneo del termine “sviluppo”, al quale si è legato
indissolubilmente anche il moderno concetto di “benessere”, ha poco più di quarant’anni.
Fu Truman, infatti, nel ‘49 a dividere il mondo in aree economiche: quelle già sviluppate e
quelle “in via di sviluppo”. Da allora questa categoria è divenuta l’asse portante di ogni politica
economica, finendo col permeare a tutti i livelli - economico, politico, culturale e finanche linguistico
- la società contemporanea.
Sull’onda dei ricorrenti disastri ambientali, questo concetto sembra tuttavia aver fatto il suo
tempo e nuovi concetti permeano i settori più avanzati della società: sostenibilità, autolimitazione,
rallentamento dell’economia, modernizzazione ecologica.
La Comunità Europea ha ufficializzato il concetto di “sviluppo sostenibile” inserendolo nei
propri programmi d’azione ambientale, e lo stesso mondo economico s’interroga sulle possibili
direzioni della crescita futura.
Un problema di vaste proporzioni che non può non coinvolgere proprio gli attori principali del
processo economico, gli industriali ed il movimento sindacale: il sindacato è, infatti, nato e cresciuto
immerso e permeato dalla cultura industriale ed il mutamento quindi, se è diventato un obbligo per le
imprese moderne, interessa in primo luogo lo stesso movimento sindacale spesso prigioniero della
grande contraddizione tra la necessità di difendere l’occupazione e contemporaneamente l’ambiente
circostante in cui operano e vivono i suoi rappresentati.
Più di altri, la tutela ambientale dipende dalle condizioni-quadro in cui opera una nazione
(politica, economia, maturità delle istituzioni, grado di democrazia, maturità sociale, ecc.) e per molti
aspetti i risultati concreti di una politica ambientale si possono misurare sulla capacità d’azione degli
operatori sindacali; a differenza dei movimenti politici, infatti, il sindacato dispone di uno strumento
unico, atto a rappresentare efficacemente i diritti dei lavoratori e ad influenzare le scelte dei governi e
delle imprese: lo strumento della contrattazione.
La tematica dell’ambiente nelle relazioni industriali Danilo Tomasini
6 novembre 1999
I modelli di relazioni industriali esistenti, oggi, nella grande maggioranza degli Stati
dell’Unione Europea consentono ormai, tramite meccanismi istituzionalizzati e codificati nei rispettivi
sistemi nazionali, di legare le politiche aziendali ad un percorso di confronto con i rappresentanti dei
lavoratori, percorso che prevede passaggi diversi ed ognuno ugualmente importante: il diritto di essere
informati e consultati sulle politiche globali d’impresa, specie su quelle che comportino ricadute sul
personale e sull’occupazione, il diritto di partecipazione tramite la costituzione di appositi comitati
paritetici aziendali, il diritto di contrattazione, quando non addirittura la partecipazione diretta alla
vita delle imprese come il caso della Germania (Betriebsrat) e della Francia (Comité d’entreprise), od
il potere d’iniziativa dei rappresentanti dei lavoratori, per quanto concerne la salute e la sicurezza sul
lavoro, come nel caso italiano.
A livello macro esistono inoltre intese con i Governi, ad es. in Italia, con l’accordo del luglio
’93, è stato istituito un percorso concertato triangolare Governo/sindacati/industria sulle scelte globali
che interessano l’economia e le politiche del lavoro.
Il problema non è tanto la mancanza di strumenti di intervento, quanto il possibile raggio
d’azione di questi strumenti, ancora limitati ai temi centrali della gestione del rapporto di lavoro ed ai
quali non è ancora riconosciuta alcuna competenza in campo ecologico.
Lo stesso sindacato, privo di uno specifico mandato ecologico da parte dei propri iscritti,
affronta le nuove questioni o in termini di emergenza o, nei casi più lungimiranti, ricorrendo agli
strumenti di cui già dispone tra le pieghe delle relazioni industriali: agisce, cioè, nel quadro tipico
della logica negoziale, cercando di ancorare le questioni ecologiche a temi già noti, su cui può vantare
esperienza e competenza, come l’igiene ambientale, la tutela della sicurezza dei lavoratori,
l’organizzazione del lavoro, investendo dei problemi globali lo Stato.
Il crescere della pressione esterna per attività produttive meno inquinanti e l’ambizione del
sindacato, specie quello italiano, a rappresentare i diritti dei lavoratori nella loro globalità, dentro e
fuori il posto di lavoro, sta gradualmente modificando anche i confini delle relazioni industriali a
livello macroeconomico, dove è chiamato in causa lo Stato; qui emerge, in tutta la sua portata, un
nuovo elemento, finora estraneo al rapporto di lavoro: la qualità della vita.
Questo concetto, che oggi assume dimensioni economiche tali da influenzare le tendenze del
mercato stesso, investe sia la qualità dell’ambiente di lavoro sia la qualità dell’ambiente di vita.
La sfida della qualità influenza in modo determinante anche l’evoluzione del modello
organizzativo delle imprese moderne: le esigenze di maggiore flessibilità, per rispondere ad un
ambiente esterno sempre più incerto, rendono il dominio sui lavoratori più sottile; non sono più
definiti semplicemente “forza lavoro” ma “risorse umane” e “clienti interni”, ossia uomini e donne di
La tematica dell’ambiente nelle relazioni industriali Danilo Tomasini
7 novembre 1999
cui acquisire la collaborazione attiva e non la semplice prestazione d’opera; uomini e donne le cui
scelte, in quanto consumatori, hanno riflessi diretti sui bilanci aziendali.
La stessa distinzione tra ambiente aziendale interno, con le proprie specificità, e ambiente
naturale circostante, è da ritenersi definitivamente superata, come sottolinea ad esempio il
regolamento europeo EMAS sulla certificazione di qualità ambientale delle imprese: l’ambiente cui ci
si riferisce è esplicitamente “l’intero sistema di gestione dell’impresa nel suo rapporto con il
territorio circostante”.
Le esigenze sociali di prevenire gli infortuni sul lavoro, anche per ragioni di bilancio
nazionale, hanno portato all’introduzione di nuove norme sulla tutela della salute e della sicurezza sul
lavoro: un fatto di fondamentale importanza che sta facendo crescere e maturare nei lavoratori una
nuova coscienza ecologica che, partendo dal proprio ambito di lavoro, si estende anche al proprio
ambito di vita.
Ciò non rimane senza conseguenze sul modello relazionale sindacato/imprenditori: la
coscienza della “comune responsabilità” degli attori delle r.i. nella tutela dell’ambiente sta prendendo
faticosamente piede, pur con tutta l’asimmetria di potere tra i due attori, e li spinge ad un nuovo
approccio sui problemi comuni, di tipo preventivo anziché reattivo.
Siamo dunque di fronte ad un’interessante evoluzione delle relazioni industriali verso
l’assunzione di nuove responsabilità, non più di settore ma globali, e che trovano all’interno dei
modelli di relazioni industriali, strutturati e collaudati come quelli europei, differenti evoluzioni,
legate ai diversi modelli nazionali, che possono portare ad includere od escludere i lavoratori ed il
sindacato dalle strategie ecologiche aziendali, dal processo decisionale e, in definitiva, anche dalle
garanzie occupazionali.
Un’evoluzione che non manca di creare forti contraddizioni nello stesso movimento sindacale.
La più evidente è quella tra economia ed ecologia, tra occupazione ed ambiente, che vede il
sindacato spesso arroccato su posizioni conservatrici in difesa dell’esistente: la poca chiarezza sulla
reale portata occupazionale della modernizzazione ecologica, è, in effetti, un “Giano bifronte” di cui
non è possibile intravedere con certezza la faccia buona, quella della garanzia occupazionale, legata
ad uno sviluppo di tipo nuovo ma sicuro, come lo è stato quello industriale, mentre si teme quella che
preannuncia sacrifici, rinunce, rallentamento dell’economia, recessione, come di norma viene inteso il
concetto di “sostenibilità” dello sviluppo.
Altre contraddizione interessano la logica organizzativa del sindacato: da un lato, soggetto
sociale e politico in grado di interpretare ed orientare i nuovi valori che la parte più avanzata della
società esprime, dall’altra, soggetto di rappresentanza di interessi orientati alla conservazione
dell’esistente.
La tematica dell’ambiente nelle relazioni industriali Danilo Tomasini
8 novembre 1999
Date le premesse, l’analisi delle dimensioni quantitative e qualitative del fenomeno di una
possibile apertura delle relazioni industriali alla tutela dell’ambiente, interno ed esterno alle imprese,
richiede una specifica attività di ricerca, ad oggi ancora poco diffusa: si distingue tuttavia, anche per
la vastità de campione, l’iniziativa di un’istituzione della Commissione Europea, la “European
Foundation for the improvement of living conditions” di Dublino, che si occupa di ricerca sociale, con
particolare riferimento alle condizioni di vita dei lavoratori in tutti gli Stati membri dell’Unione
Europea.
Questa fondazione ha promosso, in collaborazione con la fondazione Hans Böckler di
Düsseldorf e la fondazione Friedrich Ebert - ufficio di Bruxelles, agli inizi degli anni ‘90, una ricerca
in 10 Paesi dell’UE sulla portata dell’estensione delle relazioni industriali alla questione ecologica.
Avvalendosi di una rete di ricercatori europea, denominata “IRENE” (Industrial Relations
European Network), nel quadriennio ‘92-96 ha raccolto una gran quantità di dati ed esempi di pratiche
contrattuali aventi per oggetto la tutela dell’ambiente, successivamente elaborati scientificamente e
sistematizzati dal “Centro di ricerche sociali di Berlino” (WZB) sotto la direzione del Prof. Eckart
Hildebrandt.
Il presente elaborato si propone di esaminare l’uso degli strumenti economici ed i legami tra
questi e le politiche d’intervento ambientali europee tendenti a migliorare entrambe le componenti
della qualità della vita. Inoltre, viene sviluppato un quadro di analisi sull’impatto occupazionale di
tali politiche con una significativa attenzione ai risultati della ricerca della European Foundation.
Una raccolta delle esperienze frutto della concreta prassi di contrattazione bipolare dei due
agenti negoziali centrali delle relazioni industriali, sindacato ed imprenditori, completa, sia pure per
sommi capi, il quadro di quanto è stato fatto e si sta facendo in Europa nel corso dell’ultimo decennio,
sia a livello legislativo sia di analisi teorica,
La metodologia di lavoro qui seguita, si basa sulla rassegna della letteratura esistente, gran
parte in lingua tedesca, sulla raccolta e lettura di documenti, casi-studio e scenari sul tema della
responsabilità ecologica degli attori delle relazioni industriali, raccolti nel corso di seminari e
workshop internazionali promossi dal sindacato italiano tra il ‘96 ed il ‘99.
Oltre alle consuete note bibliografiche è riportata anche una guida alla ricerca dei siti Internet
che si occupano del tema relazioni industriali ed ambiente: la rete offre preziose possibilità di ricerca,
ma “navigare” è spesso un percorso di sofferenza per l’immensità delle informazioni disponibili;, la
ricerca per parole chiave utilizzando motori di ricerca specializzati consente invece di reperire
informazioni aggiornate sullo stato della pratica sindacale estesa alla tutela dell’ambiente su tutto il
pianeta.
La tematica dell’ambiente nelle relazioni industriali Danilo Tomasini
9
Introduzione
L’ipotesi di partenza chiede di verificare se, e fino a che punto, i sistemi nazionali di relazioni
industriali nei paesi della Comunità Europea, possano dare una risposta indipendente per evitare o limitare i
massicci problemi ecologici connessi con il processo produttivo industriale.
Detto altrimenti, se le relazioni industriali possano essere un meccanismo come un altro attraverso il
quale gli aspetti dell’ecologia legati al lavoro ed al processo produttivo possono essere portati avanti.
La definizione corrente di sistema di relazioni industriali sembra lasciare poco spazio a
quest’ipotesi; esso viene, infatti, definito come “quell’insieme di norme, strumenti e metodi attraverso i
quali l’impiego dei lavoratori viene regolamentato, secondo determinati processi e gradi differenti di
cooperazione e di conflittualità”
1
Altre osservazioni sembrano confermare questo limite:
• le istituzioni delle relazioni industriali non vengono prese in considerazione nella
legislazione ambientale dei Paesi della Comunità Europea;
• le varie normative che regolano i sistemi nazionali delle relazioni industriali non
contemplano la voce “ambiente”;
• molte delle associazioni imprenditoriali e sindacali rifiutano di riconoscere una propria
diretta competenza in tema di politica ambientale;
• se proprio si deve parlare di politica ambientale a livello di impresa, questa viene
affrontata nella maggioranza dei casi con interventi riparatori a posteriori.
Jänicke sostiene che la modernizzazione ecologica di una società è fatta di capacità di
modernizzazioni tecnico-economiche, socioculturali ed istituzionali
2
, ma in nessuno di questi ambiti
le questioni ambientali vengono esplicitamente riconosciute come oggetto del sistema delle r.i., da ciò
emerge la posizione comunemente diffusa che le r.i. non sono competenti a trattare questioni
ecologiche.
Una posizione in realtà sempre meno sostenibile, se esaminiamo l’evolversi di numerosi
sviluppi oggettivi, ossia:
1. Regolamentare la tutela del lavoro e della salute in azienda, in particolare nel settore
dei materiali pericolosi, diventa ecologicamente rilevante in quanto l’esposizione a questi materiali
mina la salute del lavoratore e l’ambiente circostante, mette in pericolo la salute dei cittadini e gli
stessi consumatori del prodotto, con conseguenze sui profitti aziendali e quindi sul livello
occupazionale;
1
Cella, Treu, Relazioni Industriali,1982, Il Mulino, p. 18
2
Jänicke, M., Ökologische und politische Modernisierung in entwickelten Industriegesellschaften, FFUrep 92, Berlin, 1992, p.5
La tematica dell’ambiente nelle relazioni industriali Danilo Tomasini
10 novembre 1999
2. la politica ecologica statale, regionale ed aziendale, incide direttamente ed
indirettamente sulla situazione degli occupati: particolarmente importanti sono le conseguenze
della richiesta sociale di tutela ecologica sulla situazione occupazionale complessiva, a seconda se
crei o distrugga posti di lavoro - Da questo punto di vista una politica aziendale ecologicamente
orientata è in grado di modificare a lungo termine i profili occupazionali, le strutture retributive, i
programmi di formazione e riconversione professionale, la politica aziendale di informazione e di
partecipazione;
3. le conseguenze immediate di una politica ecologica toccano direttamente gli interessi
centrali dei partner sociali, interessi che ricadono nella sfera delle r.i. - infatti, le rappresentanze
aziendali sono costrette a reagire alla pressione esterna, e dipenderà dal tipo di politica aziendale
se ne nascerà un sistema cooperativo e costruttivo di r.i. oppure un conflitto permanente sulle
rispettive competenze.
4. l’importanza della questione ambientale nella vita dei cittadini è diventata, negli ultimi
20 anni, indiscutibile: il livello di consapevolezza ecologica, il loro attivo impegno politico, il loro
comportamento come consumatori sono i veri motori della politica ambientale. Ma sono anche
considerevoli le discrepanze che si riscontrano tra il comportamento e la responsabilità privata, -
dove la questione ecologica ha comportato modifiche all’atteggiamento ed al comportamento dei
singoli pressoché in ogni campo del vivere quotidiano -, e l’atteggiamento sul lavoro di fronte alla
necessità di assumere comportamenti eco-compatibili.
5. la spinta alla qualità ambientale dei prodotti, assume una capacità occupazionale di
dimensioni così vaste da poter diventare un ammortizzatore economico e sociale.
Una serie di ulteriori riscontri empirici evidenzia il nuovo trend delle r.i., che nell’ultimo
decennio, segna un mutamento di prospettiva, infatti:
• sempre più, nelle politiche ambientali nazionali si fa strada il “principio di
responsabilità”, vale a dire che la regolazione dei rischi ambientali viene sempre più decentrata a
livello di singola impresa;
• il 5° Programma di Azione Ambientale Europeo del marzo 1992 prende atto che,
nonostante l’emanazione di oltre 200 norme della CE, non si è giunti alla tanto auspicata svolta
nella politica ambientale dei singoli Stati membri, e che occorre invece agire dal basso,
responsabilizzando e coinvolgendo, in una sorta di concertazione degli obiettivi ambientali, tutte le
parti sociali interessate, in primo luogo gli attori delle relazioni industriali;
• il management aziendale ed i sindacati sono sempre più confrontati con le conseguenze
ecologiche dell’attività industriale: il rispetto dei vincoli legislativi, i costi crescenti
dell’approvvigionamento energetico e dello smaltimento dei rifiuti, i conflitti con la cittadinanza
locale, il boicottaggio dei consumatori organizzati dalle associazioni, il crescente attivismo sugli
La tematica dell’ambiente nelle relazioni industriali Danilo Tomasini
11 novembre 1999
aspetti della salute sul lavoro. Fenomeni che portano non solo ad una caduta di legittimazione
sociale delle imprese, ma comportano anche costi più alti, spesso di tipo immateriale (immagine);
• Il processo di globalizzazione dell’economia, e l’entrata in vigore del Mercato Comune
Europeo, hanno portato all’internazionalizzazione delle politiche settoriali, vale a dire che la
regolazione nazionale viene sempre più sostituita da nuove norme sovranazionali;
• l’emanazione del regolamento di management ambientale da parte della Comunità
europea (EMAS), ha aggiunto un nuovo elemento con cui le imprese devono fare i conti per
accreditarsi sul mercato come imprese ecologiche.
Tutte queste tendenze segnalano un processo di progressiva apertura dei sistemi nazionali di
relazioni industriali alle istanze dell’ambiente esterno, con cui il processo produttivo deve sempre più
fare i conti, un’apertura che, se incontra ancora diversi ostacoli a livello “macroeconomico”
(Governo, Associazioni di categoria), risulta invece assai estesa a livello “micro”, di singola impresa,
nella concreta attività di contrattazione tra le parti.
La tematica dell’ambiente nelle relazioni industriali Danilo Tomasini
12 novembre 1999
PARTE PRIMA
Bisogni, modelli di consumo, modelli di sviluppo
Ecologia ed Economia: un nuovo campo di tensioni nelle relazioni industriali
La diversità dei modelli nazionali di regolazione del rapporto di lavoro ed il fatto che tale
regolazione sia ormai estesa anche al di fuori dei settori industriali ha fatto sì che si possa parlare di
veri e propri “sistemi nazionali di relazioni industriali”.
Questi sistemi sono stati costruiti, nella maggior parte dei Paesi Europei, nel corso degli
ultimi centocinquant’anni, e sono stati operativi nel migliorare le condizioni di lavoro, nell’assicurare
incrementi salariali e nel ridurre l’orario di lavoro. Il loro successo si è basato sulla crescita
industriale, una crescente produttività e divisione del lavoro da un lato, ed un miglioramento del
benessere per la forza lavoro espresso nella forma dell’accrescimento dei diritti di proprietà e del
consumo di beni materiali, dall’altro.
Esiste un profondo legame tra la questione ambientale ed il processo di industrializzazione
dell’Europa Occidentale: se ne è fatta una questione sostanziale soltanto quando, una volta soddisfatti
gli interessi centrali della forza lavoro, la crescente domanda di qualità della vita e di risorse
disponibili è stata limitata dalla progressiva distruzione dell’ambiente.
Le strategie sindacali sono ancora concentrate sul nocciolo centrale della rappresentanza di
interessi: mantenimento del potere d’acquisto dei salari, garanzia dei livelli occupazionali e di
condizioni di lavoro ottimali, garantite dalla crescita economica e dalla prosperità crescente, la
prospettiva sindacale rispetto alle questioni ambientali tende, infatti, a dipendere dai legami, positivi o
negativi, con le precondizioni e gli effetti della prosperità economica.
La spinta verso una società più sostenibile è venuta invece dall’opinione pubblica, sull’onda
del cambiamento degli stili di vita e delle preferenze dei consumatori, e dall’azione di nuovi
movimenti sociali ed organizzazioni “verdi”. Questa spinta è stata assunta dai partiti e trasformata in
parte in leggi, norme e regolamenti. In anni recenti la tendenza delle associazioni imprenditoriali a
favorire una regolazione volontaria rivela che la pressione dello Stato e dell’opinione pubblica è
ancora essenziale per conseguire dei progressi nella politica ambientale.
Questa pressione esterna, insieme con la crescente consapevolezza dell’esaurimento delle
risorse e dei crescenti costi di produzione e di allocazione, ha dimostrato di essere efficace. Ha portato
ad una lenta crescita della soglia generale di consapevolezza, inserendo la questione ambientale nei
calcoli di domanda - offerta e forzandone l’inclusione nelle strategie del management.
La tematica dell’ambiente nelle relazioni industriali Danilo Tomasini
13 novembre 1999
Razionalità economica, razionalità ecologica: il modello di sviluppo
La dinamica dello sviluppo della nostra civiltà tecnologico-economica è stata talvolta descritta
come “un treno senza macchinista, lanciato verso il baratro con i finestrini sigillati, mentre i passeggeri si
divertono spensieratamente nei loro scompartimenti”
3
.
Un’immagine suggestiva che drammatizza volutamente il pericolo rappresentato da
un’economia libera da vincoli morali, senza confini intrinseci, un’economia che seppellisce a lungo
termine i fondamenti stessi della propria esistenza.
L’idea di “sviluppo” infatti, non è neutra, implica giudizi di valore, parte da una visione della
realtà parziale ed interessata.
L’imprenditore ad esempio viene considerato socialmente responsabile solo per quel che
riguarda la moltiplicazione del profitto, e proprio questo, si dice, assicurerebbe il miglior impiego dei
beni scarsi ed il benessere generale, ma si tratta di una certezza sempre più minata dalla
preoccupazione che condizioni di equilibrio e di benessere possano continuare a svilupparsi su tali
basi.
Il timore di catastrofi ecologiche, causate da processi di destabilizzazione ambientale su vasta
scala, cresce in tutto il mondo. Si cercano alternative per ridurre le pesanti conseguenze che minano le
basi stesse della vita naturale e l’esistenza delle generazioni future, ma non si rinuncia per questo
all’efficienza produttiva e distributiva delle organizzazioni economiche di mercato,
André Gorz, con il suo “imperativo ecologico di parsimonia”
4
, teorizza uno sviluppo economico
limitato, nell’interesse delle possibilità di riproduzione dei sistemi ecologici naturali, per una tutela
delle risorse naturali disponibili e per una limitazione dei bisogni. Secondo Gorz dovrebbero essere
prodotte solo merci di lunga durata e ad alto valore d’uso.
Una posizione nettamente contraria alla logica dell’impresa industriale, che persegue il
profitto mirando a rendere sempre più economica, ossia conveniente per l’impresa, la produzione,
soddisfacendo i bisogni del mercato o suscitandone sempre di nuovi, dando per scontata la
disponibilità di materie prime e la capacità di assorbimento dei prodotti di scarto da parte
dell’ambiente naturale. Due modi fondamentalmente contrapposti di rapportarsi con le forze
produttive della natura, considerando cioè i due poli estremi della loro conservazione e del loro
spreco; occorre orientare le decisioni economiche secondo una logica diversa dalla redditività a breve
termine: l’ex presidente della Bosch Spa Hans L. Merkle affermava ancora 20 anni fa “Il profitto deve
essere la misura di un’impresa, non il suo scopo”.
3
E. Schmidt, E. Hildebrandt, Konfliktpartnerschaft, R. Hempp Verlag, München, 1991, p. 275
4
André Gorz, Kritik der ökonomischen Vernunft. Rotuch Verlag, Berlin, 1989,
La tematica dell’ambiente nelle relazioni industriali Danilo Tomasini
14 novembre 1999
L’imperativo economico del rendimento è fondamentalmente diverso dall’imperativo
ecologico del risparmio: nel nuovo programma di lungo periodo elaborato dal Partito
Socialdemocratico Tedesco (SPD) nel giugno 1989
5
si legge
• “l’innovazione tecnica deve non soltanto servire alla ristrutturazione ed alla razionalizzazione
ecologica” ma anche “elevare la produttività del lavoro e liberare dal lavoro alienato”; i criteri economici
di rendimento e di produttività vengono qui subordinati a criteri socio-ecologici.
Razionalità diverse: quella ecologica intende soddisfare i bisogni materiali con una quantità di
beni durevoli minima possibile, quella economica richiede invece di massimizzare il profitto con il
massimo di produzione e di efficienza. Con l’ovvio corollario che occorre anche massimizzare i
bisogni e quindi i consumi. La ricerca del massimo rendimento possibile a livello di impresa porta di
conseguenza, dal punto di vista ecologico, al massimo spreco delle risorse naturali.
E proprio queste diverse razionalità sono portatrici di due diversi concetti di sviluppo: Gorz
nota che, ciò che dal punto di vista ecologico è percepito come distruzione di risorse, dal punto di
vista economico è visto invece come fonte di crescita. La concorrenza tra le imprese e la velocità di
circolazione dei capitali favoriscono l’innovazione dei prodotti e stimolano quindi la domanda.
Viceversa, ciò che dal punto di vista ecologico è visto come un’economia (durata dei prodotti,
prevenzione delle malattie e degli incidenti, minore consumo di energia e di risorse) appare sul piano
macroeconomico come una fonte di perdite. Questa contraddizione viene notata anche nel programma
della SPD nel capitolo dedicato alla “democrazia economica”:
• “un’economia non diventa ecologicamente e socialmente difendibile che quando le decisioni democratiche
hanno la meglio sulla ricerca del profitto e del potere economico (...) le esigenze ecologiche devono diventare i
princìpi di base dell’attività economica.”
6
Sulla necessità storica di una modernizzazione ecologica si possono dunque fondere, secondo
la SPD, le due razionalità in un unico principio che ambisca a rilanciare secondo nuovi concetti
un’economia considerata senza più sbocchi:
• “dobbiamo riuscire a rispondere contemporaneamente alle domande del diciannovesimo e del
ventesimo secolo”
7
Il sindacato, per l’autonomia contrattuale che lo caratterizza può, attraverso le relazioni
industriali e la continua attività di normazione messa in campo dai suoi attori, determinare
cambiamenti significativi in direzione di un ridimensionamento della sfera governata dalla razionalità
economica.
5
Neue Gesellschaft/Frankfurter Hefte, 1989, op. cit. in A. Gorz, Capitalismo, socialismo, ecologia, p. 72
6
ibidem, p. 74
7
ibidem p. 67
La tematica dell’ambiente nelle relazioni industriali Danilo Tomasini
15 novembre 1999
Ridefinire i bisogni
Poiché sosteniamo che il comportamento dei lavoratori/cittadini è determinante nell’innescare
il processo di innovazione ecologica della società, ed indirettamente della produzione, assume una
certa rilevanza considerare anche i meccanismi sociali che sostengono la propensione al consumo.
La struttura dei bisogni di una popolazione è strettamente legata alla sua storia sociale,
politica ed economica. Anche se in questi ultimi tempi c’è stato un fortissimo processo di
globalizzazione culturale e di omologazione internazionale dei bisogni, possono esistere margini di
intervento anche sulla struttura dei bisogni dei consumatori. Il problema sta nella possibilità di
tramutare bisogni generici relativi alla qualità della vita, in domanda effettiva.
La definizione di qualità della vita è sempre più legata al concetto di quantità di consumo, in
cui la valutazione e l’utilità del prodotto (il suo valore d’uso) sono relativi ai suoi aspetti esteriori
come la grandezza o la quantità, ma anche ai suoi aspetti immateriali.
L’economia vede i bisogni, di regola, come “dati” di natura esogena, sostenendo
implicitamente che il processo economico non ha alcuna influenza sulla formazione e modificazione
delle preferenze al consumo.
Questa visione restrittiva non mette in evidenza, così come fa invece l’analisi teorica e
sociologica sul concetto di bisogno, la capacità del sistema socio-culturale-tecnologico di influenzare
l’induzione e formazione dei bisogni individuali.
La socializzazione dell’individuo nella società capitalistica provoca, infatti, la non
coincidenza dei bisogni individuali con quelli dell’organizzazione sociale: l’adulto socializzato è
l’uomo adattato ai bisogni dell’organizzazione sociale di cui non riconosce l’artificiosità e la distanza
dai bisogni reali.
Secondo Basaglia, la socializzazione capitalistica comporta una progressiva e sistematica
“corruzione”
8
dei bisogni naturali dell’individuo, fin dalla sua condizione di bambino, producendo una
frattura nel continuum bisogni naturali - bisogni indotti. Non c’è continuità qualitativa tra i bisogni
naturali espressi dal bambino e quelli espressi dall’individuo socializzato. La società contemporanea
si occupa dei bisogni del bambino per guidarli gradualmente fino a coincidere con i bisogni della
produzione, in un processo che corrompe l’individuo fino a farlo diventare altro da sé, immagine
dell’uso che deve esserne fatto.
Il problema del capitale oggi non è produrre merce per soddisfare ipotetici bisogni-valori
d’uso naturali, ma vendere merci sempre meno necessarie al soddisfacimento di bisogni materiali.