2
A questi simboli ne aggiungiamo altri con cui si indicano i
partecipanti all’interazione:
I insegnante
A alunno
AM alunno marocchino
AA alunni in coro
Dovendo eliminare i nomi dei ragazzi per mantenerne l’anonimato,
si è deciso di procedere nel seguente modo per identificare quegli alunni
che sono riconoscibili: essi sono numerati (per es. A1, A2, ecc.) secondo
l’ordine di apparizione durante la lezione.
Essendo stata presente alle lezioni registrate, come osservatore, ho
ritenuto importante integrare le trascrizioni con appunti e ricordi, facendo
una breve premessa, nelle note in fondo pagina e tra parentesi quadre, per
rendere più comprensibili sia il contesto extralinguistico sia l’attività non
verbale. Inoltre, sempre all’interno di note a piè di pagina, riporto la
traduzione in italiano di alcune espressioni dialettali.
3
INTRODUZIONE
“Ma dove stanno i riti, professoressa?” è una domanda rivolta da
un alunno marocchino nel corso di una lezione di storia. Egli, credendo che
i “riti” di cui sta parlando l’insegnante siano una popolazione indigena
dell’America meridionale, le chiede informazioni riguardo al loro luogo di
insediamento in quel Continente. L’insegnante, quindi, è “costretta” a
spostare l’attenzione dalla sua esposizione alla necessità di colmare il
deficit linguistico dell’alunno non nativo. Questo è uno dei tanti interventi
degli alunni, ritrovati in alcune situazioni scolastiche da noi analizzate, che
provocano delle modifiche, ovvero delle digressioni dall’argomento
principale.
Questo lavoro si colloca, infatti, nell’ambito di studi
sull’interazione in classe, un campo d’indagine al quale, ora anche in Italia,
viene dedicata crescente attenzione da parte di sociologi, psicolinguisti,
studiosi di sociolinguistica, ecc. allo scopo di esaminare i processi
comunicativi e formativi dei contesti d’apprendimento. L’osservazione
della classe ha, generalmente, due finalità: una descrittiva ed una formativa.
Quando lo scopo è di tipo descrittivo, si analizza il linguaggio utilizzato in
classe, ossia, come funziona effettivamente la comunicazione tra insegnante
e alunni e tra gli alunni stessi. La classe è riconosciuta, in questi casi, come
“un ambiente comunicativo con caratteristiche e regole di funzionamento
sue proprie” (Ciliberti, Pugliese & Anderson 2003: 12), diverse ma
altrettanto autentiche rispetto a quelle del mondo esterno. Un punto di
riferimento essenziale, in questo ambito, è lo studio di Sinclair & Coulthard
(1975), in cui si identifica nella tripletta “domanda dell’insegnante-risposta
dell’allievo-commento dell’insegnante” la struttura essenziale del discorso
in classe, sottolineando la peculiarità di domande per lo più orientate a
4
verificare se l’alunno conosce un certo concetto e a valutarlo di
conseguenza. La finalità dell’osservazione può essere, inoltre, di tipo
formativo: si studia la classe scolastica con lo scopo di capire la relazione
tra insegnamento e apprendimento e, cioè, quali sono gli effetti di
determinate azioni educative adottate dall’insegnante sull’apprendimento
degli alunni. “L’analisi dell’interazione in classe permetterà così non
soltanto di reperire indicatori d’apprendimento e di motivazione nel
discorso degli allievi, ma darà anche modo di inferire la voce pedagogica
sottesa all’azione didattica del docente: le teorie implicite cioè che
informano e determinano il suo operare” (Ciliberti, Pugliese & Anderson
2003).
In considerazione di questi ed altri aspetti teorici, abbiamo rivolto
la nostra attenzione ad uno degli eventi faccia-a faccia individuabile nella
classe, ossia, la spiegazione, che occupa una parte significativa del discorso
scolastico, e che risulta di fondamentale importanza, considerando appunto
il suo obiettivo primario di far comprendere all’alunno un determinato
argomento o concetto, in altre parole, come afferma Mosconi (1989), di
“ristrutturare” il suo “campo cognitivo”.
Procedere nel nostro lavoro non è stato facile. Sebbene, infatti, si
sottolinei da più parti l’estrema rilevanza di descrizioni del processo
didattico-esplicativo, si sente, al momento, la mancanza di studi e di
ricerche specifici su questo fenomeno. Ciò è dovuto essenzialmente a due
ragioni: la prima risiede nella difficoltà di riconoscere e circoscrivere
questo particolare genere testuale. La seconda, invece, scaturisce da una
tradizione filosofica ed epistemologica che, occupandosi della sola
spiegazione scientifica, ha messo da parte e addirittura oscurato le
spiegazioni che avvengono nel parlato quotidiano e, quindi, anche a scuola
(Barbieri 1989).
La rilevanza di studi sull’evento esplicativo è ancora più evidente
in una classe in cui sono presenti bambini o ragazzi non italofoni, per i quali
5
l’italiano rappresenta una lingua seconda e quindi, oltre ad essere obiettivo
d’apprendimento è anche lingua veicolare per acquisire contenuti non
linguistici (Coonan 2002). Si presume, quindi, che essi incontrino più
difficoltà nella pratica didattica giacché la loro competenza linguistico-
comunicativa in una lingua/cultura differente dalla loro è (o ci si aspetta che
sia) inferiore rispetto a quella di un alunno/parlante nativo. In un contesto
scolastico di L2, la comprensibilità dell’input è fondamentale per due
motivi: a) perché lo studente possa apprendere i contenuti presentatigli; b)
perché lo studente cresca linguisticamente. Tuttavia, come hanno rilevato
alcuni studi in cui si mette in discussione la teoria di Krashen (1982 e
1985), una semplificazione dell’input programmata in modo unilaterale non
basta a costruire nuove conoscenze linguistiche e di contenuti. Il parlante
non nativo deve, invece, avere la possibilità di negoziare costantemente nel
corso di scambi conversativi, all’interno dei quali gli interlocutori (nativi e
non nativi) mettono in atto una serie di strategie e tattiche per comprendere
ed essere compresi (Long 1983).
Anche Tsui (1995), Pozzo (c.s.) e Zorzi (2003a) che esaminano la
spiegazione nella classe di lingua straniera e in quella di L2, ritengono che
all’interno di questi contesti l’interazione sia fondamentale, poiché il
discente che apprende contenuti linguistici e non, in una seconda lingua,
oltre a partecipare alla costruzione delle conoscenze, ha più possibilità di
chiedere chiarimenti e di verificare l’esatta comprensione del messaggio
dell’insegnante.
Nel primo capitolo, La spiegazione, si cerca innanzitutto di definire
con più precisione il fenomeno comunicativo che affrontiamo in questa
sede. La spiegazione vista non solo nell’ambito scolastico, ma anche in un
contesto quotidiano, poiché prima che nella classe essa si presenta
soprattutto fuori da essa. Consideriamo, in seguito, l’evento esplicativo a
scuola, sulla base di studi e teorie come, per esempio, Sbisà (1989); Tsui
6
(1995); Pontecorvo Ajello & Zucchermaglio (1997); Pozzo (c.s.); e Zorzi
(2003a).
Nel secondo capitolo, La comprensione della spiegazione,
discutiamo inizialmente di procedure, conoscenze e fattori insiti nel
processo di comprensione di testi orali in generale, per poi soffermarci,
nello specifico, su cosa significa dover capire una spiegazione in una lingua
non nativa. Presentiamo, inoltre, alcune teorie che propongono principi per
rendere un discorso in L2 più accessibile ad un alunno allofono (Krashen
1982 e 1985, Long 1983, e Swain 1985).
Il terzo capitolo, Osservando la classe: i risultati di un’esperienza,
è dedicato ad uno studio analitico condotto nel corso di attività didattiche. I
dati sono testi registrati di lezioni tenute in quattro classi di una scuola
media, due plurilingui e due con bambini italofoni, della Provincia di
Lecce. Dopo essere state trascritte, le conversazioni didattiche sono state
analizzate sulla base del quadro teorico esposto nel capitolo primo. Il nostro
lavoro nasce dal desiderio di descrivere più da vicino cosa si verifica prima
e durante la spiegazione, sia in una classe di italiano lingua materna, sia in
una classe di italiano L1 ed L2. Il punto di vista da noi adottato per la
ricerca si pone a metà strada tra la modalità descrittiva e quella formativa:
cercheremo, cioè, di rendere conto di come l’evento esplicativo, nei diversi
contesti scolastici, realmente viene costruito e qual è il ruolo
dell’insegnante e quello degli studenti, durante la sua realizzazione,
fornendo opportunità di riflessione sulle attività osservate, da cui poter
trarre suggerimenti per le scelte pedagogiche da attuare in classe.
7
PARTE PRIMA:
QUADRO TEORICO
8
1.
LA SPIEGAZIONE
1.1 Cos’è la spiegazione?
L’evento esplicativo è uno dei tanti fenomeni comunicativi che
ritroviamo nella vita di tutti i giorni, e può manifestarsi, come tutti i testi
producibili in una lingua, sia nello scambio interattivo parlato, sia nello
scritto. Compare, cioè, in un “continuum che va da un estremo concepibile
solo parlato (conversazionale non sorvegliato) all’estremo opposto
concepibile solo scritto” (Berruto 1997: 37).
Riteniamo, tuttavia, che sia impossibile definire con esattezza che
cosa s’intende con il termine spiegazione, poiché le situazioni in cui essa
appare possono essere tante e tra loro differenti. Più che essere
caratterizzata da un singolo elemento, sembra piuttosto che un insieme di
caratteristiche di varia natura contribuiscano a rendere una serie di
espressioni riconoscibili come una spiegazione. Potremmo avere, per
esempio, segnali di natura linguistica (congiunzioni come perché) o
paralinguistica come il tono della voce e negli scritti la punteggiatura (per
esempio i due punti), o ancora elementi di contesto, quando la riconosciuta
competenza di uno dei parlanti crea un contesto nel quale l’illustrazione del
fenomeno diventa spiegazione.
In questa sede, ci occuperemo, essenzialmente, della spiegazione
rintracciabile nel parlato conversazionale improvvisato.
Partendo, quindi, dalla ricerca di Sbisà (1989: 71-94) su
quest’argomento, abbiamo cercato di individuare, con più precisione, i
criteri in base ai quali determinati atti di spiegazione possono essere
riconosciuti e definiti come tali, ossia:
9
• la presenza di indicatori linguistici (da congiunzioni come perché a
verbi come, appunto, spiegare);
• il riconoscimento, da parte dell’interlocutore, di relazioni explanans-
explanandum,
1
esplicitate o meno dal parlante;
• il fatto, evidente o meno, che il parlante divulga delle informazioni
con autorità indiscussa;
• un certo bisogno di sapere da parte dell’interlocutore.
Sbisà (ibidem) accetta, quindi, i quattro tipi di spiegazione rilevati
da von Wright (1971): causale, teleologica, quasi-teleologica e quasi-
causale. Aggiunge, ancora, a queste tipologie esplicative, le “spiegazioni
comunemente riconosciute come tali”, ossia, le spiegazioni di significato e,
più precisamente, all’interno di queste distingue tra: definizioni, esempi,
chiarimenti, parafrasi, esemplificazioni, quasi-commenti o interi enunciati
metacomunicativi.
2
Sbisà (1989), approfondendo la descrizione del tipo di situazione
comunicativa in cui le spiegazioni si possono verificare, ipotizza, inoltre,
che la spiegazione possa essere considerata un atto illocutorio, avente, cioè,
delle “precondizioni e [degli] effetti sulla situazione comunicativa in cui ha
luogo” (ibidem: 94).
3
L’autrice, inoltre, tenendo presenti le quattro categorie
fondamentali di atti linguistici illocutori, ripresi da Austin 1962 e presentati,
1
Sbisà riprende queste categorie da von Wright (1971), che in una spiegazione individua
un explanandum (il fenomeno da spiegare) e un explanans (la condizione necessaria e/o sufficiente
dell’explanandum). Ad esempio, in: “Il terreno è bagnato perché ha piovuto”, l’explanans ,“ha
piovuto”, espone una condizione sufficiente dell’explanandum “Il terreno è bagnato” (Sbisà 1989:
73).
2
La metacomunicazione consiste “nel comunicare a proposito della situazione
comunicativa in corso di svolgimento e […] può implicare l’uso di espressioni metalinguistiche
[con cui, cioè si parla del linguaggio] ma anche consistere in indicazioni e impliciti suggerimenti
su come interpretare ciò che sta succedendo. Inoltre nella metacomunicazione si chiariscono sia
aspetti linguistici, sia aspetti extralinguistici della situazione comunicativa” (Sbisà 1989: 80).
3
Gli atti linguistici sono oggetto di studio della pragmatica linguistica. In particolare, si
distingue tra atto locutorio (proferire un enunciato fornito di senso e struttura grammaticale), atto
illocutorio (una frase che, quando pronunciata, costituisce per se stessa un’azione e opera una
trasformazione, riguardante le modalità di “potere”, “dovere” e “sapere”) e atto perlocutorio (che
provoca un effetto sull’ascoltatore) (Austin 1962 e Searle 1969).
10
in maniera riformulata, in Sbisà 1983 e 1989, ovvero: verdettivi, esercitivi,
commissivi e comportativi, ritiene che l’azione dello spiegare sia
essenzialmente un atto illocutorio esercitivo. “Gli esercitivi infatti
presuppongono l’autorità del parlante, non fanno appello a prove, ragioni o
verifiche, modificano i doveri o non-doveri del destinatario” (Sbisà 1989:
98).
4
L’espressione “autorità del parlante” non deve sembrare esagerata e
non applicabile a quei contesti in cui (a differenza di ambiti definiti in cui
l’autorità è evidente, come per esempio nella divulgazione scientifica o
nella spiegazione scolastica) non si può riconoscere il “potere” del parlante
verso il suo interlocutore. Per qualificare come esercitivo un certo atto
illocutorio, Sbisà (ibidem) afferma che basta che vi sia un dislivello di
conoscenza tra emittente e destinatario, di modo che i loro ruoli possano
esser considerati “asimmetrici” e quindi non “interscambiabili”.
5
Questo concetto di asimmetria, per cui “chi spiega sa o ha capito”,
all’interno del fenomeno spiegazione è indicato anche da Mattioli (1982) e
Mosconi (1989). Quest’ultimo prendendo in considerazione il termine
spiegazione rinvenuto nel linguaggio comune, sostiene che “spiegare […] è
un atto sociale” (Mosconi 1989: 108): è un agire il cui ambito dura per un
tempo determinato; “sociale” giacché inserito in un discorso che qualcuno
rivolge a qualcun altro. E’, inoltre, un atto finalizzato a far comprendere,
dato che “ ristruttura il campo cognitivo del ricevente in relazione
4
“Gli atti illocutori verdettivi assegnano al destinatario un sapere basato sul potere del
parlante nella forma della competenza, cui corrisponde un obbligo, da parte del parlante o suo
delegato di garantire […] il sapere in questione; gli atti illocutori esercitivi modificano lo stato di
dovere o non- dovere (deontici) del destinatario, […] sulla base del potere del parlante nella forma
dell’autorità; gli atti illocutori commissivi assegnano un potere al destinatario correlativamente
all’assunzione, da parte del parlante o suo delegato, di un dovere corrispondente, e sulla base del
potere del parlante nella forma di autorità riconosciuta; gli atti illocutori comportativi, a partire da
una situazione di dovere o comunque di non-potere del parlante, danno un comportamento di
questi come oggetto di sapere per il destinatario, aprendo nuove possibilità o autorizzando nuove
aspettative nell’ambito della relazione fra i partecipanti” (Sbisà 1989: 97).
5
Sbisà, però, puntualizza che si possono intendere spiegazioni anche quegli atti illocutori
che hanno “forza illocutoria verdettiva e comportativa, purché questi siano riconoscibili come
spiegazioni in base all’individuazione di una relazione explanans- explanandum” (Sbisà 1989:
101).
11
all’oggetto della spiegazione”; infine, l’atto di spiegare deve essere
costituito da messaggi verbali che ne condizionano l’efficacia (ibidem).
Barbieri, Colavita & Scheuer (1989: 120) osservano, come Sbisà
(1989) e Mosconi (1989), che la spiegazione è “una funzione interattiva”,
focalizzando l’attenzione sul fatto che essa “compare quando nella
comunicazione uno dei parlanti offre un’informazione nuova (explanans) su
un ‘oggetto’ al centro dell’attenzione comune (explanandum) ”.
6
Precisano,
inoltre, che la necessità di tale informazione può essere “o direttamente
segnalata dall’interlocutore con mezzi verbali o non verbali o presupposta
dal parlante per scopi relativi all’interazione in corso” (Barbieri, Colavita &
Scheuer 1989: 120).
Dopo aver considerato alcune definizioni e pareri intorno
all’argomento spiegazione, notiamo come tutti (o quasi) gli studiosi
tengono conto di alcuni elementi essenziali per definire la spiegazione come
tale, ossia:
• la dimensione interattiva, all’interno della quale emittente e
destinatario sono parimenti importanti;
• la presenza di un vuoto di conoscenze, che dà un senso al bisogno
della spiegazione stessa;
• la presupposizione di una disparità di sapere, per cui qualcuno, che
sa o conosce, spiega a qualcun altro che non sa o non conosce;
• lo scopo della spiegazione è quello di far capire, ristrutturando, così,
il campo delle conoscenze del destinatario.
6
Per la definizione dei termini explanans-explanandum si veda nota n. 1, § 1.1.
12
1.2 La spiegazione nella vita quotidiana
Quando si parla di spiegazione, si è subito portati a pensare e a
riferirsi ad un fenomeno circoscritto soltanto ad un ambiente scolastico,
senza, invece, considerare che si tratta di un evento comunicativo
individuabile anche e soprattutto nella vita di tutti i giorni. Sono molto più
numerosi, in effetti, gli studi effettuati sulla spiegazione all’interno di
conversazioni quotidiane rispetto a quelli che la esaminano nell’ambito di
situazioni istituzionali, quali, appunto, la scuola.
Come nota Pozzo (c.s.), la spiegazione non solo fa parte della
quotidianità ma è anche in qualche modo “pervasiva” poiché occupa uno
spazio rilevante nell’interazione sociale adulto- bambino, all’interno e
soprattutto all’esterno della scuola. Basti pensare ai tantissimi perché che,
con molta frequenza, il bambino pone agli adulti che gli stanno accanto, e
alle tantissime spiegazioni che questi ultimi sono “costretti” puntualmente a
dare (Barbieri 1977: 32).
Secondo Barbieri & Devescovi (1989) e Pontecorvo Ajello &
Zucchermaglio (1997) la spiegazione rientra nel concetto più generale di
“impalcatura di sostegno”, ovvero “scaffolding” (Wood, Bruner & Ross
1976), con cui si designano l’insieme delle strategie e degli atti per mezzo
dei quali l’adulto aiuta il bambino, fin dai primi mesi di vita,
nell’acquisizione del linguaggio, nello sviluppo cognitivo, e
nell’organizzazione delle conoscenze, di modo che questi le possa, con il
passare del tempo, interiorizzare e farle proprie.
Negli studi citati viene riconosciuto il contributo dell’opera e delle
teorie di Vygotsky,
7
secondo il quale i processi psichici superiori sono
interiorizzazioni di funzioni sociali. Barbieri & Devescovi (1989: 139)
riprendono, per esempio, dallo studioso russo, la metafora secondo cui il
7
Lev Semenovich Vygotsky (1896-1934), di nazionalità russa, si dedicò ad una serie di
ricerche di psicologia evolutiva, pedagogia e psicopatologia, molte delle quali furono interrotte
dalla sua morte precoce.
13
bambino è un “apprendista, che sotto la guida di un esperto [l’adulto] si
appropria degli strumenti concettuali che caratterizzano una certa attività”.
Ancora Barbieri e Devescovi (ibidem) affermano: “Nell’interazione con
l’adulto, il bambino non solo si impossessa di una certa rappresentazione
del mondo socialmente condivisa, ma apprende anche come si fa a capire
che il mondo è fatto in un certo modo”. Gli studiosi ritengono, in altre
parole, che l’interagire con l’adulto sia di fondamentale importanza, non
solo per lo sviluppo di capacità specificamente interattive o linguistiche, ma
anche per lo sviluppo delle conoscenze.
Il bambino, a sua volta, imparerà a dare delle spiegazioni sul
comportamento altrui, e, crescendo, lo farà in modo sempre più
soddisfacente, giacché quest’abilità va di pari passo “con lo sviluppo delle
capacità cognitive e con l’arricchimento dell’esperienza di vita” (Girardet,
1993: 202). La spiegazione, quindi, ha un ruolo fondamentale
nell’interazione con gli altri ed è essa stessa un’attività sociale, poiché,
come continua Girardet (ibidem), “si spiega qualcosa a qualcuno per
ottenere un cambiamento nell’interlocutore”. L’atto esplicativo è infatti
un’azione sociale che avviene in un contesto comunicativo ed influenza il
comportamento e i processi cognitivi dell’interlocutore (Barbieri &
Devescovi 1989: 143).
La spiegazione, inoltre, può nascere oltre che in contesti quale la
richiesta esplicita (di spiegazioni), anche da una situazione di disaccordo,
poiché, come sostengono Orsolini & Pontecorvo (1989: 162-163), “vi è una
certa evidenza empirica che il ‘non essere d’accordo’ è un contesto socio-
comunicativo in cui, fin dalle prime interazioni bambino-adulto, i
partecipanti si sentono ‘obbligati’ a rispettare la norma del dare ragioni e
offrire giustificazioni”.
14
1.3 L’evento esplicativo in classe
Prendiamo, a questo punto, in esame la spiegazione all’interno del
contesto scolastico che in questa sede è quello che più ci interessa.
Il testo esplicativo occupa uno spazio rilevante nel discorso
dell’insegnante che interessa in media il 70 % del tempo (Pontecorvo,
Ajello & Zucchermaglio 1997: 63). Il fatto che esso costituisca il genere
testuale per eccellenza in questa istituzione formale, dipende dal concetto
stesso di scuola, un contesto naturale nel quale ci si trova proprio per
apprendere qualcosa di nuovo da qualcuno che ne sa di più (l’insegnante).
Molte ricerche (Sinclair & Coulthard 1975; Berruto, Finelli &
Miletto 1983; Orletti 2000) hanno, in effetti, rivelato, che il rapporto
insegnante-alunno è per lo più unidirezionale, tranne che nei momenti in
cui l’intervento dello studente è permesso dall’insegnante stesso. E’,
comunque, sempre asimmetrico poiché è quest’ultimo il “regista” (Orletti
2000), il “capo” o “direttore” che guida gli interlocutori, ossia gli alunni,
che sono nella maggior parte dei casi “passivi” (Berruto, Finelli & Miletto
1983: 178). Inoltre, come affermano Sinclair & Coulthard (1975: 37):
“All’interno della classe l’insegnante ha il diritto di parlare quando vuole, e
i bambini contribuiscono al discorso quando egli lo permette loro”.
8
Sebbene il discorso esplicativo sia il genere predominante in ambito
scolastico, paradossalmente, sono stati condotti ancora pochi studi su
quest’argomento (Tsui, 1995: 30), poiché come spiega Barbieri (1989: 11),
vi sono due tipi di problemi: anzitutto, la difficoltà di riconoscere e
circoscrivere questo particolare oggetto di studio, dato che esso si presenta
in svariate forme e contenuti. In secondo luogo, per decenni, i filosofi e gli
epistemologi si sono occupati della sola spiegazione scientifica, mettendo
da parte e addirittura considerando come non vere e proprie spiegazioni,
quelle che avvengono nel parlato quotidiano, e quindi, anche a scuola.
8
“Within the classroom the teacher has the right to speak whenever he wants to, and
children contribute to the discourse when he allows them to” (Sinclair & Coulthard 1975: 37).
15
In ogni modo, in questi ultimi anni, stiamo assistendo all’aumento
di interesse per la spiegazione nell’ambito scolastico, e vari studi sono stati
realizzati in maniera più, o meno, dettagliata.
1.3.1 I tipi di spiegazione nel contesto scolastico
Come già abbiamo fatto notare nei paragrafi precedenti, più che
parlare di spiegazione bisognerebbe parlare di tipi di spiegazione, poiché
tantissime sono le forme in cui l’evento esplicativo appare e tanti i
contenuti che esso veicola. Questo vale sia per quelle spiegazioni che
avvengono nella vita di tutti i giorni, sia per quelle che hanno luogo a
scuola.
Iniziamo con il dire che in quanto genere testuale peculiare della
situazione scolastica, la spiegazione è da intendersi, innanzitutto, come stile
educativo adottato dall’insegnante. Vediamo, allora, quanti stili di
spiegazione esistono e quali sono le relative caratteristiche.
Pozzo (c.s.) individua, principalmente, due stili basilari di
spiegazione.
Il primo riguarda l’attività esplicativa intesa in senso tradizionale,
dove l’insegnante è la fonte principale di ogni conoscenza, e cioè, quella del
monologo espositivo o spiegazione frontale. In questo caso specifico, Pozzo
(ibidem) sostiene che l’attività esplicativa è un fenomeno centrato su che
cosa si spiega e sull’atto dello spiegare. Pozzo (ibidem) critica, però questo
stile di spiegazione poiché non permette al suo destinatario di partecipare
attivamente alla realizzazione del ragionamento. Essa è indubbiamente
“limitata e limitante” (Pozzo, ibidem), poiché essendo la spiegazione
frontale più simile ad un testo scritto è “l’alunno a dover entrare nella
prospettiva dell’insegnante e adattarsi alla sua spiegazione” (ibidem).