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D’altronde, recenti ricerche dimostrano come le aziende che presentano i
migliori risultati reddituali siano quelle che dedicano maggiore attenzione
alla gestione della conoscenza, mediante politiche che incentivano la
comunicazione, l’apprendimento interno, la circolazione delle esperienze
maturate.
È un dato di fatto che tutte le aziende, prima o poi, si
interrogano su quanto sanno e quanto del loro sapere sono in grado di
“catturare”: per primo ha iniziato il terziario avanzato, poi lo hanno fatto
le società di servizi in genere ed oggi tocca alle società di produzione.
Insomma ci si sta rendendo conto che ciò che le aziende sono e
rappresentano nel mercato locale e globale, quindi la forza dei loro
prodotti e del loro brand, dipendono da ciò che sanno e da quanto si
conoscono. Infatti, in sintonia con la filosofia della Resource-Based Theory
(RBT), il vantaggio competitivo di un’azienda dipende principalmente
dalle risorse disponibili per l’azienda, più che dal concetto porteriano di
posizionamento in certi settori o dalla ricerca di strategie standardizzate.
Tra tutte le risorse poi, quelle caratterizzate da maggior
potenziale competitivo e rilevanza strategica sono le risorse immateriali,
fonte di rendite differenziali rispetto ai concorrenti per la loro scarsità.
Da ciò consegue che “conoscersi” significa essere più
competitivi sul mercato, almeno per due motivi: perché si è più efficienti e
perché si innova e si abbatte il “time to market” (ossia l’intervallo di
tempo che va dalla ricezione della domanda del mercato al momento
dell’offerta del prodotto al mercato medesimo).
Lo stesso mercato del lavoro, sempre più dinamico e aggressivo,
sembra lanciare il monito che non si possa contare per sempre sulla
disponibilità del capitale intellettuale di determinati individui, bensì il
turnover obbliga le aziende ad esigere dai propri collaboratori la massima
condivisione, addirittura spinge esse a premiarli in base a quanto sanno,
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instaurando meccanismi di valutazione delle conoscenze oggettivi e
misurabili.
Infatti, da una parte le aziende catturano preventivamente, a
beneficio dell’azienda, la conoscenza individuale dei singoli che se ne
vanno, dall’altra diffondono e trasmettono quanto catturato e ormai
considerato conoscenza aziendale ai neo assunti, col fine di accrescere la
loro conoscenza individuale con tutti i benefici per l’azienda che ne
derivano.
Gli stessi processi di valutazione, incentivazione e premiazione
delle risorse aziendali si basano sempre di più sulla misurazione del
capitale intellettuale che il singolo possiede e che ha dimostrato di saper
condividere.
Infatti, l’aspetto sicuramente più importante e la dimensione più
interessante di tutto quanto è stato asserito fin ora, è la componente
umana e culturale, che alla fine permette alle aziende di vincere veramente
la sfida. Inizialmente il compito di creare e diffondere questa nuova
cultura aziendale di condivisione totale viene affidato a ruoli creati ad hoc
nell’organizzazione (chief knowledge officer, knowledge manager ecc.) che
fungono da paladini della conoscenza, visionari della nuova cultura,
strateghi della conoscenza aziendale, agenti di cambiamento. In seguito,
questo nucleo ristretto si diffonde a macchia d’olio, e ciascun dipendente
dell’azienda diventa un knowledge worker: a questo punto ciascuno si sente
liberamente e consapevolmente parte integrante del capitale intellettuale
della propria azienda e diventa un punto di raccolta e diffusione della
conoscenza individuale e aziendale.
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Il concetto di conoscenza risulta comunque molto vasto e darne
una interpretazione ben definita e contenuta entro confini ristretti è
impresa assai difficile. La conoscenza, infatti, è in continua evoluzione e
ciò porta costantemente ad una revisione e ad un aggiornamento della sua
natura e delle sue applicazioni.
Il presente lavoro ha come obiettivo quello di mostrare, o
quantomeno fornire un’idea, di quale importanza sia arrivato a rivestire
oggi il sapere in ambito economico ed informatico, con particolare e
doveroso riferimento all’importanza della tecnologia, come forma di
supporto all’attività di gestione e diffusione del patrimonio conoscitivo
all’interno di un’organizzazione.
Il lavoro che segue è così strutturato:
il primo capitolo compie un’analisi dettagliata su
quattro tipologie di progetti per implementare il
Knowledge Management, diversi tra loro per
contenuti e struttura, mettendo in evidenza le
peculiarità e le problematiche tipiche del loro
sviluppo. Vengono inoltre menzionati alcuni casi
aziendali che vogliono costituire concrete applicazioni
dei contenuti teorici caratteristici dei progetti descritti;
nel secondo capitolo viene analizzata la fase di
sviluppo dei progetti di knowledge management
trattati nel capitolo 1, mediante un processo
esplicativo che prende le mosse dall’innesco del
progetto, passa attraverso la definizione dell’obiettivo
e si conclude con lo studio dei riflessi economici
associati ai progetti;
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nel terzo capitolo viene analizzato il caso della società
internazionale di consulenza Capgemini S.p.a., con
fuoco di interesse sulle esperienze compiute dalla
consociata italiana ad essa, Capgemini Italia S.p.a.,
che rappresenta un esempio di eccellenza, nel
contesto nazionale ed internazionale, per quanto
concerne l’implementazione al proprio interno e
l’offerta ai propri clienti, di pratiche di Knowledge
Management. Nel redigere questo caso di studio,
sottolineo l’importante ausilio pervenutomi dalle
informazioni che mi ha gentilmente rilasciato il Dott.
Giorgio Grasso, Knowledge Manager presso la sede
romana di Capgemini Italia.
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CAPITOLO 1
I Progetti di Knowledge Management.
La pratica del knowledge management nelle aziende prevede
l’attuazione di progetti fortemente strutturati che differiscono tra di essi
per contenuti e tipologia. Un esame comparato sarà pertanto utile per
individuare elementi comuni e per osservare in chiave normativa quali
possano essere le fasi e le problematiche tipiche del loro sviluppo.
I progetti realizzati dalle aziende possono essere classificati in
base a varie dimensioni. Prendendo spunto da una delle tassonomie più
diffuse e indubbiamente meglio elaborate (Davenport, De Long, Beers,
1997), mi soffermerò ad analizzare quattro tipologie che ritengo
rappresentare al meglio i principali caratteri del Knowledge Management:
ξ progetti di lessons learned;
ξ progetti di knowledge mapping;
ξ progetti di improving knowledge environment;
ξ progetti di misurazione delle conoscenze.
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1.1 Progetti di “Lessons Learned”.
Questi progetti consistono, in genere, nella codificazione e nella
raccolta di conoscenze derivanti da esperienze precedenti, con lo scopo di
promuoverne la diffusione all’interno dell’azienda.
Tale processo avviene in modo formalizzato, anche avvalendosi
di adeguati supporti informatici che possano agevolare il recupero
successivo. Spesso tali progetti si concretizzano nella costituzione di un
archivio di casi consultabili dal resto dell’organizzazione: sostanzialmente,
l’operatore coinvolto in un’esperienza interessante descrive il problema
affrontato, la soluzione adottata, il risultato ottenuto e l’apprendimento che
ne ha ricavato.
All’interno di questa tipologia di progetti si possono operare
ulteriori distinzioni in base alla strutturazione delle informazioni
contenute e degli scopi perseguiti.
1.1.1 Best practice “di replicazione”.
Lo scopo dei progetti di best practices “di replicazione” è quello di
conservare le esperienze che si sono dimostrate utili nella risoluzione di
determinati problemi e di diffondere le medesime al resto
dell’organizzazione, confidando proprio nella loro “replicazione”, con
ridotti adattamenti tenuto conto del contesto operativo nel quale
potrebbero trovare applicazione.
Questi progetti sono stati definiti come attività di near transfer
(Dixon, 2000), basandosi proprio sulla similitudine tra mittente e
destinatario potenziale in termini di contesto applicativo. Le conoscenze
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trattate sono in genere codificate e riguardano attività di routine
nell’azienda.
Questa tipologia di progetto prevede un ampio utilizzo della
tecnologia informatica e l’approccio che la caratterizza è di tipo push, nel
senso che le best practices sono “spinte” dal mittente verso il destinatario
potenziale tramite procedure di avvisi automatici, sotto forma di report o
news (come nel caso di Ford e Texas Instruments citati di seguito).
In molti casi le best practices codificate e rese disponibili su
supporto informatico riguardano la risoluzione di problemi riscontrati
dalla clientela per consentire incrementi di efficienza nell’attività di
assistenza on-line ai consumatori, come nel caso Xerox, Chevron
(Davenport, 1998).
Lo scopo del management è proprio quello di favorire la
diffusione, nei vari settori aziendali, di esperienze di successo che sono
ritenute agevolmente replicabili in altre unità organizzative.
Nella categoria delle best practices di replicazione rientrano
anche le cosiddette pratiche di after action review, ossia delle pratiche
operative, sempre ispirate dal principio dell’apprendimento innescato
dalle esperienze compiute, secondo le quali un team, dopo aver compiuto
una determinata operazione, esamina i comportamenti adottati
discutendone apertamente gli errori e i successi derivati, per capire come
migliorare le attività future (come nel caso di Harley Davidson).