II
Le due missioni successive, ognuna con uno specifico mandato, sono
guidate dagli Stati Uniti e portate avanti insieme ai contingenti francese ed
italiano, con l’aggiunta di uno inglese di supporto nella seconda versione della
Forza Multinazionale. L’interazione col sistema multiconfessionale è
inevitabile e sarà determinante per l’esito di ogni missione. Viene naturale
porsi delle domande: innanzitutto, si tratta di una struttura inter-settaria statica
o dinamica? Quali i legami impliciti ed espliciti tenuti da ogni comunità con
attori significativi in ambito regionale e globale? Quanto hanno pesato?
L’impasse venutasi a creare a livello istituzionale aveva una natura cronica o è
scaturita dalla sinergia congiunturale di vari fattori? Infine, una forza di pace
sotto l’egida delle Nazioni Unite sarebbe stata più efficace? Per lo meno
nell’evitare l’accusa di “intervento”, laddove l’obiettivo “pace” passa in
secondo piano. Di conseguenza, quali gli svantaggi ed i vantaggi connessi ad
una non-United Nations peacekeeping operation?
Sulla base di tali quesiti sarà alla fine possibile valutare l’impatto
socio-politico avuto dalla Forza Multinazionale relativamente alla situazione
di conflitto (con particolare riferimento al 1982), argomento che costituisce lo
scopo centrale della ricerca, per capire se l’intervento è stato in qualche modo
efficace nel ripristinare o addirittura nel creare, delle condizioni congeniali a
garantire un’esistenza il più possibile pacifica alla Repubblica Libanese ed ai
suoi cittadini, indipendentemente da qualsiasi affiliazione confessionale,
almeno entro gli schemi del normale gioco politico.
È opportuno sottolineare come alla base dell’instabilità del Libano ci
sia il conflitto arabo-israeliano e la relativa questione palestinese, come
variabili intervenenti nella già complessa realtà socio-politica ed economica
del paese dei cedri: a partire dal 1970, privati della “patria” giordana in
seguito agli eventi del cosiddetto settembre nero, i pur sempre rifugiati
palestinesi (in parte presenti in Libano già dal 1948 in conseguenza del
proclamato Stato di Israele) trovano nella formula tipicamente libanese della
“libertà nella convivenza” l’insperata opportunità di trasferire le fondamenta
politiche del movimento di liberazione, e partecipare della prosperità
economica della Repubblica fino a costituire un vero e proprio “Stato nello
Stato”.
III
Divenuto quindi la base della guerriglia palestinese, sempre più forte e
determinata nel promuovere la “causa rivoluzionaria”, il Libano si evolve in
teatro del conflitto arabo-israeliano, costretto a subire le conseguenze della
rappresaglia israeliana e le pressioni della “politica di sicurezza” dello Stato
ebraico. La Siria, altro importante attore regionale, ne approfitta per inserirsi
negli inevitabili antagonismi interni, sorti tra i leaders comunitari in merito
allo status della presenza palestinese in Libano, ed affermare così una
“fastidiosa” e prolungata influenza, su un territorio da sempre considerato
parte integrante della Grande Siria.
In particolare l’elaborato consta di tre capitoli, con l’intento di
proiettare il lettore nella realtà libanese, e consentirgli di familiarizzare con
specifici “legami di sangue”, una struttura sociale tessuta attorno alla
“comunità”, singolari dinamiche di conflitto stimolate dall’asabiya e da
cruciali distribuzioni di autorità; quindi farlo procedere progressivamente
verso l’intervento della Forza Multinazionale, passando attraverso la costante
interazione tra le dimensioni interna ed esterna (regionale/internazionale) della
guerra civile scoppiata nel 1975. In ultima istanza, l’obiettivo è di fornire una
visione chiara e dettagliata di ciò che l’operazione di mantenimento della pace
ha significato per l’assetto socio-politico del paese dei cedri, proponendo tra
l’altro ipotetiche soluzioni ai problemi strutturali del Libano, e modesti
suggerimenti per un peacekeeping più efficace.
Il primo capitolo si concentra sostanzialmente sulla società e sulla
politica libanese. A caratterizzare la prima è il principio multiconfessionale,
ovvero il riconoscimento della comunità quale attore principale e punto di
riferimento assoluto dell’individuo: la società libanese è una società plurale in
cui convivono comunità con un retaggio storico economico-culturale
profondamente diversificato; di conseguenza, parallelamente alla staticità del
sistema inter-settario sussiste l’estrema dinamicità delle relazioni inter-
comunitarie, tendenzialmente conflittuali quando si tratta di vedere
riconosciuti i propri interessi, ed equamente rappresentato il proprio status
sociale. L’asabiya intesa come processo costitutivo di una coscienza di
gruppo, e la mobilitazione stimolata da un leader autoritario, sono i concetti
impiegati per spiegare le dinamiche sottostanti il sistema multiconfessionale.
IV
Quanto alla politica, si può giustamente definire “delle personalità” per
il ruolo chiave giocato dai leader di ogni “setta” nel promuovere gli interessi
della comunità stessa, e consolidare contemporaneamente il proprio potere
tramite gli apparati comunitari; difatti, il termine “setta” acquista nel contesto
mediorientale il significato peculiare di gruppo geograficamente compatto,
generalmente dotato di strumenti di controllo sociale separati rispetto alla
sfera d’influenza dell’autorità centrale, e i cui leader antepongono gli interessi
della “setta” a quelli dello Stato. Il Patto Nazionale del 1943 segna una
sintesi importante per la Repubblica Libanese in quanto il confessionalismo si
erge a principio regolatore anche dell’assetto istituzionale; tramite il metodo
consociativo, allo Stato si affida l’arduo compito di distribuire il potere tra le
comunità in base al peso demografico di ognuna, e promuovere quindi la
ricomposizione degli antagonismi attraverso il gioco politico e il
riconoscimento di una comune autorità legittima. Tuttavia, nel corso del
capitolo emerge chiaramente come il cortocircuito nel sistema scaturisca
progressivamente dalla “minaccia” che ogni comunità viene a rappresentare
per l’altra: l’iniziale vantaggio demografico sancisce a livello amministrativo
la supremazia culturale della comunità maronita, la quale diventa però un
problema per le comunità musulmane (dotate invece del potere economico)
nel momento in cui il processo di politicizzazione vissuto in particolare dagli
sciiti, il nazionalismo stimolato dal risveglio della cultura araba, e un
superiore peso demografico garantito dalla presenza palestinese, spingono a
rivendicare una distribuzione del potere più consona alla realtà. La frattura è
confermata dal tentativo cristiano-maronita di conservare il proprio potere,
considerato l’imprescindibile fondamento dell’esistenza/sopravvivenza della
comunità stessa. È importante notare come il conflitto del 1975 non si risolve
in una “lotta di classe”, ma verte sostanzialmente sulla competizione per la
“conquista delle istituzioni”. Infine, il capitolo si chiude considerando
l’interazione tra interno ed esterno, ovvero il modo in cui attori regionali ed
internazionali influenti decidono di perseguire determinate strategie personali
attraverso una “guerra per procura” combattuta sul suolo libanese:
precisamente, il regime di Asad insegue il “sogno di una Grande Siria”,
Israele è ossessionato dal “dilemma della sicurezza”, Stati Uniti ed Unione
V
Sovietica si contendono la regione mediorientale, fattore geo-strategico chiave
nell’ambito del confronto globale sulle zone di influenza.
Il secondo capitolo si addentra nell’esperienza della Forza
Multinazionale, trattata a partire dalle circostanze dirette sottostanti il
coinvolgimento della comunità internazionale. Contrariamente alle premesse,
l’Operazione pace per la Galilea spinge l’invasione israeliana del giugno
1982 fino al cuore del paese; l’impasse di un lungo ed insostenibile assedio
prospetta l’accordo sul ritiro delle truppe israeliane da una parte, e
l’evacuazione dalla capitale di dirigenti OLP (Organizzazione per la
Liberazione della Palestina) e combattenti palestinesi dall’altra. La prima
Forza Multinazionale di Pace è chiamata a supervisionare la sicurezza del
personale in partenza, mentre gli Stati Uniti in particolare si preoccupano di
ottenere da Israele e dai leaders cristiani le garanzie per la sicurezza dei civili
che rimangono. La situazione è evidentemente delicata, per cui la descrizione
dettagliata dei negoziati (il cosiddetto Piano Habib) e le considerazioni sulle
aspettative di ogni attore coinvolto, servono per comprendere appieno gli
eventi di metà settembre, e quindi il precipitoso ritorno dei contingenti
americano, italiano e francese. Successivamente si vuole invece mostrare
come anche una diplomazia guidata dai migliori propositi (quella americana
appunto), se l’obiettivo di fondo procede svincolato da questioni decisive per
la stabilità del paese che si intende sostenere, in realtà l’effetto è di alimentare
la tensione e il degenerare di un assetto istituzionale di per sé precario: difatti,
l’Accordo del 17 Maggio antepone il ritiro delle forze straniere all’imperativo
della riconciliazione nazionale, mentre il Piano Reagan per la pace in Medio
Oriente contribuisce a polarizzare sia il movimento palestinese, sia le
comunità libanesi; entrambi offrono alla Siria importanti occasioni per
consolidare la sua presenza in Libano. Dopo circa un anno dalla prima
operazione di pacificazione, il paese dei cedri è nuovamente teatro di una
violenta guerra civile, con l’esperienza inedita degli attacchi terroristici: a
questo punto, è interessante constatare come nel sostenere un governo
libanese progressivamente delegittimato, la seconda Forza Multinazionale
diventa parte belligerante e perde credibilità; terminata la missione agli esordi
VI
del 1984, resta tuttavia da conseguire la liberazione dalle forze di occupazione
e la convivenza pacifica tra le comunità.
L’obiettivo del terzo capitolo è quindi quello di valutare tanto
complessivamente quanto particolarmente, il successo o viceversa il
fallimento della Forza Multinazionale nella sua duplice manifestazione. Serve
necessariamente un supporto teorico specifico delle operazioni di
mantenimento della pace: difatti, attraverso nozioni chiave della Teoria del
Peacekeeping (modalità di organizzazione e implementazione
dell’operazione, potere, autorità, uso della forza, per citarne alcuni) è possibile
individuare i presupposti favorevoli al buon esito di simili interventi, e
stabilire quindi la misura in cui in entrambe le occasioni, la Forza
Multinazionale è stata messa nelle condizioni adatte per un intervento
efficace; in particolare, è opportuno sottolineare il fatto che la Forza
Multinazionale in Libano agisce al di fuori del quadro politico-giuridico delle
Nazioni Unite, con tutte le conseguenze che possono derivarne soprattutto in
termini di credibilità ed imparzialità. Dopodiché si procede alla valutazione
dell’impatto socio-politico scaturito da ogni singolo intervento: in particolare,
volendo tenere conto dell’evoluzione subita nel corso della seconda missione
circa l’immagine che i contingenti proiettano di sé, il giudizio si intende
distribuito su due presunte fasi (il bombardamento del settembre 1983 sui
villaggi dello Shuf segna concretamente la svolta). Un’analisi rigorosa non
può a questo punto trascurare gli effetti di lungo periodo riconducibili
all’esperienza di peacekeeping del biennio 1982-1984: si intende verificare il
consolidamento o meno di certe tendenze innescate dal binomio Forza
Multinazionale-diplomazia statunitense. Storicamente decisivo per la
Repubblica è l’Accordo di Taif del 1989, capace di sedare quattordici anni di
guerra civile, e soprattutto di accogliere le istanze di protesta contro il Patto
Nazionale: quest’ultimo è infatti ritenuto obsoleto, ma si può veramente
affermare l’avvento di una nuova struttura socio-politica?
1
Capitolo 1
IL LIBANO TRA SOCIETÀ E POLITICA: CONFLITTUALITÀ
LATENTE, UNA CARATTERISTICA DEL SISTEMA
MULTICONFESSIONALE E DELLE SUE PROIEZIONI ESTERNE
1.1 L’emergere dell’Inter-Sect System e la “politica delle personalità”
La realtà di oggi è sempre il risultato di scelte passate. Può sembrare
scontato, tuttavia è quanto di più vero si possa affermare relativamente al
Libano: le sue difficoltà, una costante scomoda quando desideri e false
convinzioni si risvegliano, alimentate da una demagogia politica avversaria
della convivenza, scaturiscono da soluzioni di compromesso spesso
contingente ed evidentemente poco lungimirante. In questo senso la storia
libanese è maestra di verità imprescindibili, tenuto conto delle quali anche
l’antagonismo pace-guerra tipico di un paese chiave acquista maggior
chiarezza e plausibilità.
Sin dalla sua condizione di provincia semi-autonoma dell’Impero
Ottomano (XVI sec.), la religione rappresenta per il Monte Libano
1
un
framework all’interno del quale si sviluppano ordinari rapporti tra individui.
Attraverso il sistema dei millet la fede viene in effetti istituzionalizzata e
rafforzata fino ad evolversi in un vero e proprio nucleo sociale, la comunità
o “setta”
2
, con specifiche funzioni politiche ed amministrative e soprattutto
con la garanzia di una giurisdizione indipendente in materia di status
1
Il Libano assume i confini geografici attuali a partire dal 1920 quando, a seguito della
dissoluzione dell’Impero Ottomano, diventa protettorato francese insieme alla Siria. Al
Monte Libano vengono aggiunte la valle della Beqaa, Jebel Amil, la pianura dell’Akkar e le
città costiere di Beirut, Tripoli, Sidone e Tiro, costituendo così il “Grande Libano”.
2
È bene precisare che il termine acquista nel contesto mediorientale un significato
particolare. Distinguendo tra setta e minoranza, l’antropologo Fuad Khuri (Helena
Cobban, The Making of Modern Lebanon, London, Hutchinson and Co. (Publishers) Ltd,
1985, pag. 15) sostiene che una “setta” consista in un gruppo geograficamente compatto,
generalmente dotato di strumenti di controllo sociale separati rispetto alla sfera d’influenza
dell’autorità centrale, e i cui leader antepongono gli interessi della setta a quelli dello Stato.
In effetti, il nord così come le aree centrali del Monte Libano erano abitati prevalentemente
dai cristiani maroniti, mentre lo Shuf ospitava soprattutto i drusi musulmani insieme ad
alcuni villaggi di greci ortodossi e di greci cattolici.
2
personale
3
. Punto di riferimento della comunità è il leader religioso (mufti,
patriarca…), responsabile di rappresentare gli interessi della “setta” in
generale così come di assicurare un comportamento conforme alla legge da
parte della stessa. Ne consegue facilmente che la fedeltà verso la propria
religione e quindi verso la propria comunità, ha rappresentato da sempre per
il cittadino una fonte di identità, la cui percezione è rafforzata in senso
visibilmente religioso
4
.
Ma l’appartenenza religiosa non rappresenta l’unico legame di
fedeltà tipico della vita nella Montagna; rilevante per comprendere gli
sviluppi storici del paese è infatti anche l’identificazione familiare, il legame
dettato dalla nascita che domina tuttora la sfera sociale, politica ed
economica della vita quotidiana, al di sopra di ogni considerazione sullo
status sociale, educativo o di benessere all’esterno della famiglia, e che è la
garanzia prima della sicurezza di un individuo
5
. La tendenza di più famiglie
ad unirsi volontariamente in raggruppamenti più estesi si basava sulla
fedeltà riposta nella comunità di villaggio o nel signore locale
6
. Nella sua
astrazione dal resto delle province ottomane, il Monte Libano trovava il
proprio modus vivendi nel riconoscimento di un unico leader, al di sopra di
tutti i lords, che attraverso il proprio sistema locale di controllo feudale
diveniva il Principe della Montagna.
Si pongono così le basi del sistema di convivenza inter-settaria
tipicamente libanese
7
. Tuttavia, non bisogna dimenticare che gli interessi e
l’onore della famiglia sono predominanti e per questo sono da sempre fonte
di tensione, soprattutto a livello politico, tra famiglie rivali in generale e tra
le personalità rappresentanti la famiglia in particolare. Una volta sancito il
3
Latif Abul-Husn, The Lebanese Conflict, Looking Inward, Boulder, Colorado, Lynne
Rienner Publishers, Inc., 1998, pag. 29
4
David McDowall, Lebanon: a conflict of minorities, London, The Minority Rights Group,
1996, pag. 7
5
Ibidem
6
Si tratta del cosiddetto lordship system in cui la “lordship” di ogni famiglia estesa veniva
generalmente tramandata di padre in figlio all’interno di una singola famiglia.
7
Il desiderio di indipendenza dall’interferenza sia dei vicini che del governo centrale turco
trova ulteriore soddisfazione nel 1842, con l’introduzione da parte di quest’ultimo della
cosiddetta double district presidency, sulla base della quale il Monte Libano veniva diviso
in due distretti, rispettivamente a nord (qa’immaqam o presidente cristiano) ed a sud
(qa’immaqam druso) della autostrada Beirut-Damasco.
3
“principio inter-settario” la fedeltà alla comunità costituirà l’elemento
catalizzatore di un equilibrio di per sé fragile, in cui saranno proprio i giochi
di potere tra clan a sfruttare la religione come “risorsa mobilizzatrice”. A
conferma di ciò, persino la prima vera rottura della simbiosi comunitaria
che per secoli ha fatto da sfondo all’imperturbabilità della Montagna, viene
fatta rientrare nello schema della lotta secolare tra Islam e Cristianità
8
,
nonostante alla base ci fosse anche un “conflitto di classe” legato
all’evolversi della struttura economica della Montagna
9
.
Ristabilita la pace nel 1861, il Monte Libano riceve un nuovo
ordinamento politico, la cosiddetta mutasarrifiyya o “governatorato
provinciale”: è questa a conferire al modus operandi della politica libanese
una configurazione confessionale. Il governatore di provincia (un cristiano
cattolico di origini non libanesi, direttamente responsabile verso il sultano)
era infatti assistito da un consiglio amministrativo locale composto da un
numero fisso di quattro maroniti, tre drusi, due greci ortodossi ed un solo
membro per le comunità di greci cattolici, sunniti e sciiti. Pur abolendo il
lordship system, la logica familiare sottostante alla politica veniva garantita
attraverso l’assegnazione dei posti chiave nell’amministrazione ai membri
delle famiglie tradizionali
10
. Allo stesso tempo è importante notare come il
sistema cerchi di assicurare un equilibrio di potere tra i principali gruppi
confessionali.
Il sistema inter-settario sarà elemento costitutivo persistente nella
struttura sociale ed istituzionale
11
del paese dei cedri: espressione
sostanziale di una pluralità intrinseca e composita di comunità, finirà col
rappresentare il punto debole del Libano come sistema socio-politico ed
economico. In quanto fomentatore naturale di forti tensioni, in un tale
sistema vi è infatti una conflittualità endemica, frutto delle stesse
caratteristiche strutturali, delle singole motivazioni politiche e della
8
Georges Corm, Géopolitique du conflit libanais, Paris, Éditions la Découverte, 1986, pag.
71
9
Helena Cobban, op.cit., pag. 9
10
Ibidem
11
Sia la Costituzione del 1926 sia il Patto Nazionale del 1943 manterranno il principio
confessionale come caposaldo della struttura istituzionale del Libano moderno.
4
permeabilità alle influenze esterne. Il conflitto così alimentato può
assumere forme e direzioni variabili nel tempo, mentre la struttura sociale
tende a rimanere stabile, pur essendo costantemente soggetta ad un
potenziale ed eventuale indebolimento proprio in virtù del “principio del
rafforzamento reciproco” che sottostà alla relazione struttura sociale-
conflitto
12
. Le ostilità raggiungeranno il culmine nella guerra civile del
1975, quando saranno messe in discussione la politica pubblica e
l’ingegneria sociale ovvero il nucleo duro dell’ormai Repubblica Libanese.
1.2 Struttura sociale e conflitto endemico: un approccio teorico
Per comprendere appieno l’impasse che ha letteralmente travolto il
Libano a partire dal 1975 è innanzitutto importante capire come varia
l’equilibrio di potere tra le comunità così come la generale distribuzione di
potere nell’ambito della società. In questo senso si rende necessario l’uso di
concetti propri della Teoria dei Conflitti, in particolare il concetto di
authority, definito da Ralf Dahrendorf, e quello di asabiya, precisato da Ibn
Khaldun.
Quando il conflitto è strutturato in termini di “lotta di potere”
(politico-economica), sono le specifiche posizioni di autorità a creare
disarmonia e quindi tensione nella società: l’equilibrio di potere che fino ad
un certo momento assicura delle relazioni pacifiche tra i gruppi, trasforma
questi ultimi in entità conflittuali nel momento in cui eventi di natura socio-
economica portano ad un nuovo disequilibrio tra le comunità private del
potere e quelle in possesso di autorità; è evidente che in questa relazione di
dominazione-sottomissione, i gruppi su cui la “solidarietà” verso l’autorità
centrale può essere imposta tramite coercizione
13
, percepiscono la
distribuzione di potere prevalente come inadeguata alla nuova situazione
14
.
Interessi ed esigenze non soddisfatti stimolano tra i membri di una
stessa comunità un sentimento crescente di coesione, una vera e propria
12
Latif Abul-Husn, op.cit., pag. 2
13
Ogni società regolata da gerarchie di potere possiede specifiche misure di restrizione e
controllo, a favore del rispetto per l’autorità.
14
Latif Abul-Husn, op.cit., pp. 9-11
5
solidarietà reciproca che, basandosi sulla condivisione di norme e valori
comuni e trovando espressione nella leadership del gruppo, porta
quest’ultimo ad emerge col chiaro intento di affermare la propria identità. È
il fenomeno dell’asabiya che spinge a rinnegare la posizione di inferiorità
derivata dal sistema di potere, ad assumere un atteggiamento difensivo verso
il proprio “senso di appartenenza al gruppo” e ad agire: unità e dinamismo
sono una fonte di potere chiave per il leader del gruppo, affinché conquisti
un ruolo dominante rispetto agli altri gruppi. A differenza di ciò che il
concetto di authority presuppone, il sentimento di solidarietà e la profonda
integrazione che ne deriva sono processi spontanei per natura, caratterizzati
da fedeltà all’interno del gruppo e soprattutto da consenso. Tuttavia, come
gruppo dominante, la comunità necessita di un “leader autoritario” che in
virtù di un uso potenziale ed implicito di strumenti coercitivi possa
garantirsi il rispetto della stessa comunità e, attraverso questo, possa
reiterare il consenso e la disponibilità alla coesione di gruppo
15
. Il contesto
in cui tutto ciò si realizza è necessariamente conflittuale: il potere
rappresenta in effetti il motore della società, il quid imprescindibile a cui
ogni collettività ambisce con il chiaro intento di essere giustamente
rappresentata. Ne consegue che una volta ottenuta l’autorità sugli altri
gruppi per mezzo di un’asabiya relativamente più forte, quest’ultima
tenderà a affievolirsi parallelamente al consolidamento del proprio potere
politico-economico. Il risultato sarà una nuova “struttura di autorità”, nel
momento in cui un altro gruppo in posizione di inferiorità sarà capace di
emergere a difesa della propria identità e di sostituirsi al gruppo
dominante
16
.
È nondimeno importante capire che l’asabiya non costituisce la
causa prima del conflitto. Ogni conflitto ha alla base delle logiche
specifiche, legate al particolare contesto socio-politico ed economico in cui
si trovano ad agire i vari elementi di una società: più complessa è la società,
più la rivalità avrà origini multiple ed inestricabilmente complicate.
15
Ibidem
16
Ibidem
6
L’asabiya indica essenzialmente come variano le relazioni tra le comunità,
in maniera tipicamente conflittuale quando il fine ultimo è il potere,
influenzate dalla singolare vitalità di un gruppo coeso e determinato.
La connessione tra teoria e manifestarsi del conflitto libanese risiede
nelle caratteristiche che l’asabiya assume nel contesto multiconfessionale
del paese: tutte mutuamente rinforzanti nel senso stesso della coesione di
gruppo, rapporti di tipo generazionale (lineage affiliation), famiglia
(“relazioni di sangue” o kinship)
17
, religione e struttura socio-politica
18
,
sono particolarmente efficaci nello spiegare le relazioni tra comunità così
come quelle intra-comunitarie, e quindi l’emergere di tensioni da una parte e
di solidarietà dall’altra (insieme alle cause propriamente interne ed esterne
del conflitto). Si tratta comunque di un framework relazionale generale
poiché alcuni gruppi formeranno “alleanze” mentre è possibile che altri
presentino rivalità interna .
Avendo chiarito in precedenza l’importanza che nella complessa
società libanese acquisisce la fedeltà verso il proprio gruppo, è utile
precisare che l’unione è innanzitutto rafforzata dalla gerarchia, intesa non
necessariamente come effettivi legami ancestrali di sangue, ma piuttosto
come centralizzazione dell’autorità. Questo vuol dire che l’asabiya come
processo integrativo opera in più contesti di “identificazione personale” che
si intersecano a vicenda all’interno di una comunità (civico, religioso,
militare, politico…), secondo rapporti concentrici di fedeltà in cui i legami
di sangue sono senza dubbio il cosiddetto nucleo duro del sistema, seguiti e
rinforzati da religione, ideologia e comunanza geografica. In termini
generazionali invece la fedeltà è prima di tutto verso la famiglia, poi
successivamente verso la propria origine ancestrale, il proprio ramo, il
proprio clan ed infine, ma non meno importante, la propria “setta”. In
questo contesto, la famiglia è un importante fattore di coordinamento
dell’asabiya in quanto fornisce al leader una posizione sicura dal punto di
17
Concettualmente, le espressioni lineage affiliation e kinship permettono di distinguere
con più precisione gli aspetti del legame di fedeltà sottostante all’identificazione familiare
in generale, di cui si è parlato nel paragrafo 1.1.
18
Latif Abul-Husn, op.cit., pag. 12
7
vista della solidarietà, da cui poter sfruttare e dirigere gli impulsi dinamici
della comunità nel suo complesso. Ovviamente, il ruolo del leader è tanto
più efficace quanto più la sua leadership è effettiva: questo significa non
solo che deve essere dotata di “autorità”, ma anche che deve essere
legittima, ovvero accettata e rispettata
19
.
Come si è detto, anche la struttura socio-politica interna della
comunità stimola una certa “coscienza di gruppo” e spiega la formazione di
“entità conflittuali” sulla base del movimento verso l’alto della scala sociale
per quei membri dotati di una forte asabiya, mentre quelli la cui asabiya è
più debole restano immobili. Tuttavia, relativamente alla società libanese
non si può ancora effettivamente parlare di comunità strutturate in termini di
ricchezza, potere e prestigio, per cui il contributo di tale caratteristica è
limitato: disuguaglianze economiche hanno prodotto fratture nel sistema
sociale, alimentando il dissenso delle comunità sottorappresentate e
fornendo opportunità di contestazione del sistema politico, ma non sono
sufficienti per spiegare la macchinosità del conflitto. Invece, è
importantissima l’asabiya costruita attorno al sentimento religioso:
l’autorità legittima così conseguita può servire per rafforzare l’influenza
della religione nella competizione del gruppo per il potere politico e
militare. In questo senso, la religione risulta una “risorsa mobilizzatrice”
più forte dell’asabiya stessa: come elemento sostanziale del contesto
sociale, incarna perfettamente gli interessi del gruppo e contribuisce di
conseguenza a preservarne l’identità “settaria” vis-à-vis le altre comunità
religiose
20
.
Sebbene il concetto di asabiya (insieme a quello di authority) così
delineato costituisca un valido schema interpretativo del conflitto libanese, è
fondamentale non trascurare il ruolo svolto da attributi chiave come la
leadership (se generalmente un leader forte conferisce all’asabiya potere e
determinazione, l’intensità delle violenze ha prodotto una vera e propria
solidarietà tra leader e collettività, accompagnata da devozione da parte del
primo e venerazione da parte della seconda, quest’ultima derivata in
19
Ibidem
20
Ibidem
8
sostanza dal considerare il leader come la personificazione della solidarietà
di gruppo, dei suoi interessi e delle speranze di vittoria), l’ideologia
(conferisce all’asabiya efficacia e chiarezza negli obiettivi, importanti per
l’emergere di “entità conflittuali”; nel contesto libanese assume tratti
essenzialmente religiosi) e le minacce esterne (rappresentano uno stimolo
forte alla coesione in chiave primariamente difensiva, in seguito altresì
offensiva)
21
. Per chiarezza esplicativa ho ritenuto tuttavia opportuno
trattarli più approfonditamente in seguito, nell’ambito di un discorso mirato
a cogliere le effettive logiche conflittuali in cui sono stati determinanti
processi socio-politici ed economici, fatti contingenti e cortocircuiti nel
sistema multiconfessionale. Immediata è invece la necessità di capire come
al “sistema inter-settario” sia stato dato un framework istituzionale,
tendenzialmente di compromesso ed infine rivelatosi drammaticamente
fragile. Se questo potesse essere evitato o almeno attenuato continua a far
parte di pura dissertazione retorica, così come trovano limitata attuazione i
tentativi di modificare in maniera sostanziale il sistema, ancora
confessionale.
1.3 Il “sistema multiconfessionale” come principio istituzionale:
repubblica libanese o predominio maronita?
1.3.1 Origini del potere maronita e risveglio della cultura araba
A riconferma dell’importanza della storia, è il Règlement
Organique
22
del 1861 a porre le basi del primato della comunità maronita
attraverso una soluzione politica, espressione della distribuzione geografica
e confessionale della popolazione
23
; chiaramente inaccettabile per i drusi
senza un sistema di checks and balances, la garanzia era data dalla figura
del mutasarrif, ufficiale dell’Impero Ottomano, cattolico e non maronita, i
21
Ibidem
22
Redatto da una Commissione rappresentativa di Francia, Inghilterra, Russia, Austria e
Prussia, presieduta dal ministro ottomano responsabile per la provincia del Monte Libano,
testimonia tra l’altro l’influenza di forze esterne come elemento costante nella realtà socio-
politica del Libano. Tra il XIX ed il XX sec. è la Francia ha ricoprire un ruolo centrale in
virtù dei legami economici e culturali instaurati con la comunità maronita.
23
Latif Abul-Husn, op.cit., pag. 21
9
cui atti dovevano essere ratificati in ultima istanza dalle potenze europee
24
.
Ma da cosa dipendeva concretamente il potere maronita? Le fonti di
tale affermazione aiutano in effetti a verificare la solidità del sistema
istituzionale “repubblicano” affermatosi nella prima metà del ‘900, ed a
comprendere appieno le ragioni del suo evidente immobilismo dagli anni
settanta in poi. Vale quindi la pena di mettere subito in risalto il fatto che si
sia trattato sostanzialmente di un’egemonia amministrativa e culturale
25
.
Nonostante l’accusa di predominio politico-economico a sfavore di
classi sociali svantaggiate, in maggioranza appartenenti alle comunità
musulmane, non c’è stato in realtà in precedenza nessuno sfruttamento da
parte maronita che confermi la tesi di una lotta sociale mascherata da tratti
confessionali: enormi differenze sociali e conseguenti rivalità esistevano
anche e soprattutto all’interno delle stesse comunità musulmane,
storicamente detentrici del potere economico tradizionale, la proprietà
terriera. Al contrario, la comunità maronita (poveri contadini in parte legati
agli ordini monastici) aveva originariamente fatto della risorsa agricola la
propria fonte di sostentamento: la coltura del baco da seta era divenuta
infatti nel XVI sec. il motore dello sviluppo locale presso i potenti feudi, in
maggioranza sciiti e drusi, incoraggiata dalla politica d’apertura verso
l’Europa adottata da questi ultimi e dai continui contatti tra clero maronita e
cultura europea. La reazione dei contadini maroniti contro i lords (sia
maroniti che drusi), nonostante l’obiettivo dichiarato di re-distribuzione
delle terre, aveva avuto come conseguenze i massacri tra drusi
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e maroniti
nel periodo 1840-1860 (culminati in una vera guerra civile nel biennio
1858-60), l’emigrazione verso Stati Uniti ed America Latina di molti
contadini maroniti la cui industria rurale della seta era stata pregiudicata
dagli scontri, infine l’avvio del processo di urbanizzazione della classe dei
notabili che, spossessati delle terre a vantaggio dei monasteri, avevano finito
per ricoprire (in parte come garanzia del proprio status) le principali cariche
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Helena Cobban, op.cit., pag. 58
25
Georges Corm, op.cit., pag. 172
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Si tratta della comunità drusa nel suo complesso poiché i lords drusi avvertono i propri
contadini del pericolo che il movimento reazionario maronita rappresenta per tutta la
“setta”.