militari. Ed è da qui che si genera crisi in quanto le imprese si ritrovarono ad
affrontare il libero mercato senza la protezione di una domanda pubblica. Negli anni
’20, quindi, quasi tutti i paesi europei si avviano ad una ripresa lenta e difficile,
mentre gli Stati Uniti rappresentano il nuovo centro economico mondiale. Questo
periodo di crisi raggiunge il suo acme nel 1929 quando si verifica una seria crisi
economica proprio negli USA, e dagli USA si propaga in tutta Europa2.
Successivamente, si registra un miglioramento economico. Soprattutto negli Stati
Uniti, negli anni ’30, si verifica un aumento della domanda che spinge di nuovo in
alto i livelli di produzione. Il mercato americano fu inondato da prodotti industriali
che migliorano la qualità della vita: automobili, elettrodomestici...
In questo quadro, l’Italia si presenta come uno dei paesi dell’ Europa Occidentale più
deboli dal punto di vista economico. Ricordiamo, poi, che l’Italia subì dei
cambiamenti politici e sociali importanti. Furono proprio i disordini sociali creati
dalla guerra e la crisi dell’industria che portano all’ascesa del Partito Fascista guidato
da Benito Mussolini. Nel 1925, l’ascesa di questo partito si trasforma in una vera e
propria dittatura. La crisi economica tocca anche l’Italia. Mussolini decide di
rispondere alla crisi con lo sviluppo dei lavori pubblici e l’intervento dello Stato a
sostegno dei settori di crisi. Infatti, mussolini decide di istituire nel 1933 l’ IRI
(Istituto per la Ricostruzione Industriale) che aveva come compito il salvataggio delle
industrie e il controllo delle principali banche. Questo però non riuscì a risollevare le
sorti dell’economia. Intorno alla metà degli anni ’30, l’Italia era uscita dalla fase più
acuta della crisi, sia pure a prezzo di sacrifici non lievi a spese soprattutto delle classi
popolari. Ma Mussolini non seppe sfruttare al meglio questa ripresa e a partire dal
1935 si lanciò in una politica di dispendiose imprese militari. Poi, subentrò la seconda
guerra mondiale che contribuì in alcuni casi a rallentare ed in altri a bloccare i passi
in avanti fatti3.
2
DEREK H. Aldcroft, L’economia europea dal 1914 al 1990, Editori Laterza.
3
A. GIARDINA, G. SABATUCCI, V. VIDOTTO, Storia 1900-1993, Editori Laterza, 1997.
1.2 CONSUMI E PUBBLICITÁ
La comunicazione pubblicitaria agli inizi del ‘900 aveva una particolarità: il
target cui si rivolgeva. Il target al quale si rivolgeva il comunicatore pubblicitario
del periodo era ristrettissimo: riguardava il nucleo borghese. In questo periodo, la
pubblicità era “rèclame”, cioè “annunci elementari e puramente informativi che
parlano a pochi privilegiati4”.
La particolarità di questo tipo di pubblicità risiede nel fatto che esiste una vicinanza
di mondi, di interessi, di cultura, tra chi fa comunicazione e chi la riceve:
sostanzialmente non c’è differenza culturale tra mittente e ricevente della
comunicazione pubblicitaria. Non dimentichiamo, infatti, che la pubblicità poteva
essere compresa da pochi perchè altissimo era il livello di analfabetismo.
Per quanto riguarda i mezzi utilizzati dalla pubblciità in questo periodo, la fa da
padrone il manifesto. Inizialmente, i manifesti pubblicitari venivano realizzati con un
formato standard verticale, che li manteneva ancora legati alla tradizione propria
della pittura nella società borghese. Ma il processo di urbanizzazione trasformò ben
presto la strada nel principale luogo di espressione per la comunicazione
pubblicitaria. Il manifesto pubblicitario cambiò dimensioni e divenne più grande:
nacque così il poster, manifesto pubblicitario di grandi dimensioni, realizzato anche
in forma orizzontale. I nuovi manifesti venivano affissi nei punti strategici della città
di maggiore transito. Anche il tram divenne uno strumento per l’esposizione dei
manifesti, allo stesso modo degli “uomini sandwich”, ossia persone che giravano per
le strade portando sul davanti e sul retro del corpo dei cartelloni pubblicitari. Il padre
del manifesto viene considerato Cheret, il quale vi introdusse stilizzazione,
suggestione e armonia tra immagine e testo verbale. In Italia, il manifesto d’autore
ebbe sviluppo grazie alle Officine Ricordi di Milano, le quali diedero notorietà a
molti artisti, tra cui anche a Cappiello il quale viene considerato l’inventore del
4
CODELUPPI Vanni, Che cos’è la pubblicità?, Roma, Carocci Editore, 2001, pg 78.
“manifesto- marchio”: un’opera che fulmineamente comunica l’essenza del prodotto
e lo rende memorabile.
Un passaggio fondamentale nel campo della comunicazione pubblicitaria avviene
negli anni ’30, quando diventa una vera e propria industria, tant’è che il mezzo di
comunicazione allora più diffuso, ossia il manifesto, diventa parte integrante
dell’arredo urbano. La comunicaizone, in sostanza, finisce con l’invadere ogni angolo
della città. Negli Stati Uniti, la pubblicità si serve già delle leve del marketing. In
questo paese, il marketing cambia la concezione della comunicazione pubblicitaria e
in particolar modo del manifesto. Questi passa da elemento puramente decorativo,
tendente a far ricordare la marca o il prodotto reclamizzato, ad elemento che esalta le
qualità del prodotto e che ha il prodotto al centro della comunicazione. Inoltre,
sempre negli Stati Uniti, e in modo particolare a New York, nacquero a partire dagli
anni ’20, le grandi agenzie pubblicitarie. In Italia, la prima vera e propria agenzia
pubblicitaria organizzata secondo criteri moderni fu la ACME- Dal Monte, fondata
nel 1922.
La comunicazione pubblicitaria trovò un altro linguaggio interessante con l’arrivo
degli apparecchi radiofonici negli anni ’30. Precedentemente la radio, la pubblicità
aveva, nella maggior parte dei casi, una fruizione esterna alla propria abitazione, al
proprio nucleo familiare: i muri delle città, il cinema... Con l’arrivo della radio, la
pubblicità entra nell’ambiente domestico. L’apparecchio radiofonico va ora ad
occupare i luoghi tipici delle runioni familiari: il salotto della famiglia borghese, la
cucina delle abitazioni più modeste... In Italia, la radio nasce ufficialmente il 6
ottobre del 1924, con l’inizio delle trasmissioni radiofoniche. La società cui era stato
concesso in esclusiva l’esercizio della radiodiffusione si chiamava URI ( Unione
Radiofonica Italiana). Nel 1927 cambierà denominazione in EIAR ( Ente Italiano
Audizioni Radiofoniche). Sarà soltanto nel corso degli anni ’30 che la radio evolverà
in un vero e proprio mezzo di comunicazione di massa. Durante il fascismo, la radio
serviva al ragime per garantire una “società fascista”. Mussolini, infatti, si servì della
radio e nel 1933 costruisce l’ERR ( Ente Radio Rurale) il cui obiettivo era quello di
portare la radio nelle campagne e nei ceti più popolari.
La storia della comunicazione è parallela alla storia economica, dei movimenti
politici. Ne è, anzi, la stilizzazione, il simbolo evidente. L’Italia fu influenzata, nello
sviluppo della comunicazione pubblicitaria, dal regime di Mussolini. Trattandosi di
una dittatura, la pubblicità doveva rispettare determinati codici nel linguaggio, sia
visivo che verbale, negli argomenti da trattare... Famosi sono gli slogan
propagandistici di Mussolini ripetuti fino alla nausea per creare consenso sociale: “o
con noi o contro di noi”, “credere, obbedire, combattere”. Ad esempio, Mussolini, in
visita ad uno stabilimento della Perugina, pronunciò la frase : “vi dico e vi autorizzo a
ripeterlo, che il vostro cioccolato è veramente squisito!”. Tale frase divenne subito lo
slogan pubblicitario dell’azienda.
Ma la comunicazione pubblicitaria è lontanissima da ciò che oggi è. In questo
periodo, infatti, la pubblicità delle aziende che dovevano vendere i propri
prodotti non si rivolgeva “direttamente” al consumatore. La pubblicità, ad
esempio quella fatta attraverso i manifesti, doveva testimoniare l’esistenza di un
prodotto, diffondere la sua conoscenza e, nella maggior parte dei casi, serviva per far
conoscere il marchio di un’azienda. Non aveva certo il compito di “persuadere” il
consumatore a comprare un prodotto. Quest’approccio diverso alla comunicazione,
che poi cambierà totalmente negli anni ’50, dipendeva dalle caratteristiche della
distribuzione.
1.3 DISTRIBUZIONE
Per quasi tutto l’ 800, il cuore del commercio e della vendita al dettaglio era costituito
dagli empori e dalle piccole botteghe di drogheria. Non esistevano negozi
specializzati nella vendita di un prodotto specifico, ma ogni negozio vendeva un pò di
tutto: dai saponi alla farina, dal sale al borotalco, dai tessuti ad ogni genere
alimentare. Tra il proprietario della bottega e il cliente si stabiliva un rapporto di tipo
confidenziale e, soprattutto, di fiducia in quanto non era la marca a garantire la
qualità dei prodotti venduti, ma era il negoziante a garantire sulla qualità del
prodotto. I prodotti venivano venduti sfusi, conservati in enormi sacchi o barili. Non
esisteva il packaging: solo alcuni prodotti portavano sull’involucro il nome del
fabbricante. Il consumatore finale non acquistava la farina, ad esempio, prodotta da
un certo produttore piuttosto che da un altro, ma acquistava un chilo di farina, senza
preoccuparsi dell’identità del produttore.
tra la fine dell ‘800 e gli inizi del ‘900, la marca attraversa una sorta di periodo di
incubazione. In questa fase, compaiono imprese destinate ad un glorioso futuro,
ancora presenti sui nostri mercati: imprese straniere come Coca Cola, Camel,
Kellog’s... ma anche imprese tutte italiane come Pirelli, Campari, Barilla... Ma la
marca resta una semplice etichetta e il marketing è ancora lontano. Si parla, però di
pubblicità, come detto prima, ma di pubblicità molto pionieristica, tesa soprattutto a
far conoscere i prodotti, a sancirne l’esistenza, anzichè a costruire l’identità di
un’azienda.
Soprattutto durante gli anni ’20 e ’30, comincia a nascere un nuovo tipo di negozio
accanto a quelli già esitenti che vendevano un pò di tutto, il negozio monomarca.
Questi tipi di negozi vendevano i prodotti fabbricati da un solo produttore. Ad
esempio, l’esigenza nacque soprattutto per i l’industria alimentare, per via dei
prodotti venduti sfusi. Un negozio monomarca vendeva la pasta di un solo produttore.
Il produttore di pasta non doveva conquistare direttamente il consumatore finale in
quanto, come già detto, per questi non c’era differenza tra diversi tipi di pasta.
Diciamo pure che i consumatori si fidavano del loro negoziante per cui era il
negoziante che bisognava conquistare. Il produttore di pasta doveva persuadere non il
consumatore ma il negoziante ad acquistare la pasta da lui fabbricata piuttosto che la
pasta di un altro produttore. La situazione, quindi ,si presenta completamente diversa
da quella odierna. È il negozio a rappresentare il centro della comunicazione e per
ottenere un risultato commerciale era essenziale conquistare il punto vendita. Come
faceva il consumatore a capire che quel determinato negozio vendeva la pasta di quel
produttore piuttosto che di un altro? Era necessario fare uso di una serie di mezzi che
rendessero riconoscibile il negozio. Da parte dell’azienda produttrice, veniva messo
in atto un vero e proprio sistema di merchandising che, prima di tutto, doveva essere
rivolto al titolare del negozio e, in secondo luogo, al cliente del negozio che,
attraverso il negozio stesso, riceveva le promozioni create dall’azienda. I mezzi usati
all’esterno e all’interno del negozio erano vari: dall’esposizione del marchio, ai
calendarietti da muro, cataloghi, cartoline...
1.4 LA STORIA DELLA PASTA
La storia della pasta ha inizio circa 7000 anni fa. L’uomo abbandona la vita nomade e
diventa agricoltore, impara a seminare e a raccogliere. Alcune ricerche fanno risalire
la coltivazione el grano a circa 7000-10000 anni fa tra la valle del Giordano e la
Mesopotamia. Affinchè fosse possibile coltivare il terreno, c’era bisogno di stabilità.
Infatti, l’uomo si stabilizza, si organizza in villaggi e passa da un’alimentazione
prevalentemente carnea, nel periodo in cui era cacciatore, ad una prevalentemente
vegetale. È in quel tempo che la storia dell’uomo si sposa e si incrocia con quella del
grano e con il grano ha inizio la storia della pasta. Di raccolto in raccolto, di
generazione in generazione, l’uomo ha imparato a lavorare sempre meglio il grano,
macinandolo, impastandolo con acqua, spianandolo in impasti sottili, cuocendolo su
pietra rovente. Il grano si diffonde dalla Palestina all’Asia Minore, di qui alla Grecia
e poi all’ Europa.
Molti secoli prima della nascita di Gesù, i Greci e gli Etruschi erano già abituati a
produrre e a consumare i primi tipi di pasta. La prima indicazione dell’esistenza di
qualcosa di simile alla pasta risale al primo millennio a. C., alla civiltà greca. La
parola laganon era usata per indicare un foglio grande e piatto di pasta tagliato a
strisce. Da laganon deriva laganum latino, che Cicerone cita nei suoi scritti. Lagane e
sfoglie di pasta conquistarono l’impero e, come spesso accade, ogni popolo adattò le
novità alle proprie esperienze.
Le prime due date certe nella storia della pasta in Italia sono : 1154, quando in una
sorta di guida turistica ante litteram il geografo arabo Al-Idrin menziona “un cibo di
farina in forma di fili”, chiamato triyah (dall’arabo itrija, che sopravvive nella lingua
moderna e deriva dalla radice tari= umido, fresco), che si confezionava a Palermo e
si esportava in botti in tutta la penisola (in Sicilia oggi si trovano ancora la tria
bastarda e i vermiceddi di tria; nel Salento la massa e i ciceri e tria; nell’area barese
c’è la tridde diminutivo di tria); e 1279, quando il notaio genovese Ugolino Scarpa
redige l’inventario degli oggetti lasciati da un marinaio defunto, tra i quali figura
anche una “bariscela plena de macaronis”. Sappiamo che Marco Polo tornò dalla
Cina nel 1295: viene così sfatata la legenda che sia stato lui ad introdurre la pasta in
Italia.
Furono gli arabi del deserto ad essiccare per primi le paste per destinarle ad una lunga
conservazione, poichè, nelle loro peregrinazioni, non avevano sufficiente acqua per
confezionare ogni giorno la pasta fresca. Nacquero così dei cilindretti di pasta forati
in mezzo per permettere una rapida essiccazione.
La pasta rappresenta un elemento che riveste grande importanza e questo lo
testimonia la presenza nel XV secolo tra i generi sottoposti al calmiere. Interessante
anche un decreto del vicerè di Napoli del 1509 che stabilisce come, in caso di
carestia, guerra e altre calamità, quando il prezzo della farina supera un certo limite,
sia proibito fare pasta, salvo per i malati.
Nel ‘600, in Italia, si ha l’esistenza di tre grandi centri per la produzione di pasta di
semola: Palermo, Napoli e la Liguria. Nel centro e nel nord Italia sono più diffuse le
paste all’uovo.
Certamente nel 1800 le due capitali della pasta per produzione ed esportazione sono
Genova e Napoli. La grande tradizione napoletana della pasta data a partire dal 1600-
1700, attuandosi solo ai primi del XVIII secolo la trasformazione della dieta dei
napoletani da “mangiafoglie”, cioè consumatori di cavoli, a “mangiamaccheroni”.
Tra la fine del 1700 e gli inizi del 1800 arriva il pomodoro del Nuovo Mondo ad
arricchire le ricette napoletane della pasta.
Tra la fine del 1800 e i primi del ‘900 arriva la tecnologia nel mondo della pasta. La
qualità della pasta non cambia, sostenuta dall’impiego esclusivo del grano duro; ciò
che cambia è il modo di produrre la pasta: si passa dalla produzione artigianale,
basata sull’impasto con granula manuale ed essiccamento al sole, ad una produzione
più tecnologica, basata sull’utilizzo di vari macchinari, tra cui la pressa idraulica
usata per la trafilazione; anche l’essiccamento comincia a svolgersi in celle riscaldate.
I primi rudimentali macchinari per la produzione industriale della pasta naquero a
Napoli. Perchè proprio a Napoli? Dato che il processo di essiccamento della pasta
rappresenta il momento della verità per poter ottenere un prodotto di ottima qualità, la
zona di Napoli e tutto il suo entroterra, favoriti da condizioni climatiche eccezionali,
offrivano l’ambiente ideale per questa produzione.
Sebbene il processo di fabbricazione sia enormemente mutato attraverso gli anni, il
prodotto è rimasto sempre la stessa miscela di semola di grano duro e acqua. Mentre
la pasta fresca viene preparata anche con farina di grano tenero, per la pasta secca in
Italia si utilizza solo semola di grano duro.
Nella storia della pasta citiamo anche una curiosità. Un fatto piuttosto curioso risale
al 1930 quando, sulla Gazzetta del Popolo di Torino, Filippo Marinetti, fondatore del
movimento futurista, scriveva: “...crediamo anzitutto necessaria l’abolizione della
pastasciutta, assurda religione gastronomica italiana...”; “...la pastasciutta, ... lega con
i suoi grovigli gli italiani di oggi ai lenti telai di Penelope e ai sonnolenti velieri in
cerca di vento...” . Queste parole seguivano la politica del tempo, orientate a
promuovere il consumo di riso in sostituzione della pasta per la quale occorreva
importare grandi quantità di grano duro. Marinetti sparò simbolicamente un colpo di
rivoltella contro un vassoio di spaghetti. La polemica, che tra l’altro rimbalzò da una
testata all’altra, si placò quando Vincenzo Agnesi rispose con grande senso
dell’humor esponendo nel suo museo una foto dello stesso Marinetti intento a
divorare un enorme piatto di spaghetti in un noto ristorante milanese.
Oggi, che le moderne tecnologie permettono di standardizzare i processi produttivi e
di sopperire artificialmente alle condizioni climatiche ideali, la produzione della pasta
si è diffusa in moltissimi paesi. Questa diffusione globale fa si che la pasta sia il
piatto italiano più conosciuto al mondo. Addirittura, esiste una giornata mondiale
della pasta. Infatti, il 25 ottobre 1998 è stato organizzato il primo WPD, ossia Word
Pasta Day. Oggi, Il mercato della pasta è di grandi dimensioni, con un consumo
procapite annuo che supera i 28 chilogrammi ed un consumo annuo per nucleo
familiare che supera mediamente i 64 chilogrammi.
1.5 NASCITA DI UN GRANDE FORNO: IL FORNO BARILLA.
In questo contesto si inserisce la nascita di un grande forno: il forno Barilla.
La Barilla è stata costituita a Parma nel 1887, più di 125 anni fa, da una bottega di
pane e pasta. All’epoca non esisteva una suddivisione netta tra chi produceva pane e
chi produceva pasta. Infatti, il lavoro nei forni non si limitava solo alla produzione
della pasta. Fin dalle origini, furono i panettieri a dedicarsi alla produzione della
pasta. Ma la pasta prodotta nei forni veniva acquistata solo dai ceti più abbienti, come
i nobili, mentre, soprattutto nelle campagne, la rezdòra, ossia la massaia, la
produceva in casa. Inoltre, in questo periodo, la produzione della pasta era ancora
molto artigianale. I macchinari usati erano per lo più di legno, mossi manualmente e
solo successivamente collegati ad impianti idraulici , poi a vapore ed, infine, elettrici.
Inoltre, l’essiccazione veniva effettuata al sole: la pasta veniva stesa su tralicci in
legno girevoli, detti giostri.
Dunque, una tradizione, quella della Barilla, che risale al 1887, con il piccolo negozio
di pane e pasta che Pietro Barilla apriva a Parma, in via Vittorio Emanuele. A quei
tempi, il lavoro di fornaio obbligava all’osservanza di norme precise ed anche a costi
elevati dovuti a fattori di varia natura, in primo luogo al mantenimento del forno e del
magazziono di farina, al salario delgi operai e all’acquisto di attrezzature. Si capisce,
quindi, come l’avviamento di un forno e dell’annessa bottega comportasse spese
notevoli che incidevano enormemente sul bilancio familiare. Ma Pietro Barilla era un
uomo che possedeva capacità organizzativa e tenacia nel conseguire i risultati che si
prefiggeva, tant’è che dopo soli quattro anni dall’apertura del suo forno, figura tra i
primi capi fornai della città. In questa fase, la lavorazione della pasta era molto
artigianale. Nel forno Barilla la produzione arrivava a 50 kg di pasta al giorno:
inoltre, anche con l’arrivo di nuovi macchinari, la forza lavorativa non superò mai le
5-6 persone. Possiamo raccontare l’inizio di quest’avventura riportando le parole di
Riccardo Barilla: “io e mio padre si lavorava 18 ore di continuo; si cominciò a
vedere qualche buon risultato e infatti si comprò un torchietto di legno per
fabbricare la pasta e venderla nel negozio, che se ne fabbricava kg. 50 al giorno – la
pasta a quei tempi era tutta lavorata a mano5”.
I locali in via Vittorio Emanuele risultavano ogni giorno più angusti per soddisfare le
crescenti richieste di mercato. Così, Gualtiero e Riccardo il 6 ottobre del 1909
presentarono al Comune una richiesta di ampliamento dello stabile. L’opportunità di
usare locali più ampi permise ai Barilla di compiere quel salto di qualità
indispensabile: nel 1910 si ha la nascita del primo stabilimento Barilla. Tale
stabilimento nasce nel suburbio Vittorio Emanuele e sarà il primo stabilimento
esistente a Parma ad essere dotato di un “forno continuo”. Questo stabilimento ha una
5
BARILLA Riccardo, Storia della mia vita da quando sono nato. ASB, O, Cartella Memorie.
particolare importanza in quanto segna il passaggio da una lavorazione di tipo
artigianale ad un’organizzazione produttiva a carattere prettamente industriale.
L’inaugurazione del nuovo pastificio di via Veneto avvenne il 2 Aprile del 1911.
Questo fu un momento particolarmente delicato in cui Barilla comincia a misurarsi
con la città. Le attese erano enormi nei confronti del pastificio. Questi veniva visto
come una speranza in un perido di acuta povertà: ci si aspettava pane e lavoro per
un’intera città.
Per la conoscenza dei primi risulatati ottenuti è interessante riportare quanto
contenuto in una relazione pubblicata nel 1911 dalla locale Camera di Commercio:
“con l’apertura a Parma di un grandioso stabilimento, dovuto all’iniziativa e
all’intraprendenza della ditta «G. ed R. Fratelli Barilla» la fabbricaizone delle paste
alimentari è assurta, nel 1910, a dignità di importante industria. La ditta produce
paste all’uovo ed ha varie specialità, di già così apprezzate che il lavoro di
asportazione per la Liguria, la Lombardia, la Romagna, il Veneto e la Sardegna è
rimarchevolissimo e quasi gli impianti non sono sufficienti a far fronte alle richieste.
Lo stabilimento occupa 100 operai ed ha una potenzialità produttiva di 80 q.
giornalieri6”.
All’alba degli anni ’20, in seguito alla morte del fratello Gualtiero, Riccardo Barilla
assunse la responsabilità di tutta l’azienda. Riccardo, nonostante dirigesse l’azienda,
aveva l’abitudine di controllare direttamente il lavoro svolto dagli operai. Pietro
Barilla, figlio di Riccardo, ricorda di essere cresciuto fin da piccolo respirando l’aria
dello stabilimento e familiarizzando con quel mondo. Nelle memorie di Pietro
Barilla, libro prezioso per ricostruire la storia del pastificio, Pietro ricorda: “Ho visto
fin da ragazzo lo spettacolo della gente sudata. Si vedeva proprio la fatica perchè
allora si entrava fisicamente nelle stanze degli essiccatoi e tutto era trasportato a
mano, i pesi, i corbelli. Anche le donne, le ragazze prendevano i telai a mano. Si
6
SAGUATTI Alessandro, Economia e società a Parma dal 1890 alla Grande Guerra, pg 71; in GANAPINI A.I. e
GONIZZI G. ( a cura di) Barilla cento anni di pubblicità e comunicazione, Silvana Editoriale.
lavorava dalle cinque di mattina alle otto di sera... si faceva tutto a mano, l’etichetta,
la colla, tutto...7”
Anche l’azienda Barilla, come moltissime altre, risentì della recessione economica
del 1929. Tuttavia, Barilla seppe sfruttare la crisi. Riccardo proseguì nella sua
strategia aziendale, basata sugli appalti ministeriali e sulle forniture militari. Una
strategia imprenditoriale rimasta tale fino all’arrivo di Pietro in azienda, il quale
preferì aprirsi maggiormente al mercato borghese.
Un riconoscimento al buo funzionamento del pastificio arriva anche da Mussolini, il
quale si sofferma davanti ad uno stand dell’azienda durante una fiera espositiva.
Nel 1936, Pietro Barilla entra in azienda nel settore commerciale.
Tracciando un bilancio dell’andamento delle vendite del pastificio Barilla verso la
fine degli anni ’30, sottolineamo che la Barilla era leader nella produzione della pasta
all’uovo a Parma e nella provincia parmense, ma per quel che riguarda le altre zone
italiane, la sua crescita avveniva lentamente.
1.6 LA COMUNICAZIONE DELL’AZIENDA
Con l’apertura di un nuovo stabilimento nel 1910, la Barilla sente l’esigenza di
definire la sua identità e il 17 giugno del 1910 presenta il suo marchio. È
l’interpretazione più moderna e giovane del garzone ottocentesco. Il marchio venne
realizzato non solo graficamente ma anche in terracotta.
7
BARILLA Pietro, Memorie Maggio 1991, ASB, O, Cartella Memorie.
Il marchio raffigura un ragazzo biondo, un
garzone, con calzoni colorati e giubba mentre
versa un grosso uovo in una madia piena di
farina; al suo fianco, c’è una conca piena di
farina. Il messaggio del marchio richiama alla
tradizione artigianale della pasta all’uovo. Il
garzone è una figura familiare nel mondo del
lavoro, è visto con affetto, come simbolo della
giovinezza che si affaccia con speranza alla vita,
ad una vita migliore. La Barilla riesce a dare,
attraverso l’immagine del suo marchio, un
messaggio preciso: la freschezza, la novità, lo
sguardo rivolto al futuro, che è quello del garzone, e l’energia e l’abondanza, che
sono caratteristiche dell’uovo. Il marchio ha, quindi, due attori principali: non solo il
garzone, ma anche l’uovo. L’uovo, insieme alla farina, rappresenta l’elemento che dà
origine alla pasta e nel marchio viene volutamente ingigantito per valorizzarne il
significato: genuinità, segno di abbondanza e di vita. Il marchio creato appare di
grande efficacia: è un marchio “parlante”. Il garzone del marchio “parla” senza
bisogno di alcuna scitta. Il problema del periodo era proprio quello di rendere
riconoscibile pasta Barilla attraverso un simbolo. La maggior parte degli abitanti del
nostro paese erano ancora nalfabeti. Nei primi anni del ‘900, l’alfabetizzazione era a
livelli critici. Da qui la scelta, non solo della Barilla ma di molte aziende, di un
marchio che potesse rendere riconoscibile l’azienda con la sola figura. La situazione
cambierà negli anni ’30, momento in cui troviamo il garzone accanto alla scritta.
Questo rispecchia una diversa situazione culturale in Italia: la diffusione, seppur
lenta, del proceso di alfabetizzazione. Nel 1936, il garzone scomparirà e resterà solo
la scritta, cioè il nome dell’azienda.
Autore del marchio è Ettore Vernizzi, pittore parmigiano. Il marchio viene utilizzato
in tutta la comunicazione dell’azienda. Lo ritroviamo in un grande pannello ripreso al
centro di una fotografia di gruppo del 1921: c’è Riccardo Barilla, ci sono gli operai e
gli impiegati dell’azienda. Il garzone è presente, poi, nella carta intestata, nei
cataloghi, nelle confezioni, nella réclame. Per quanto riguarda la réclame, la Barilla
non è estranea agli avvenimenti storici e nel 1914 crea un calendario per celebrare la
guerra in Libia. Nel calendario vengono ritratte alcune scene della guerra d’Africa e
si trova la presenza del solito marchio. L’accostamento del marchio alle scene di
guerra ha il preciso sscopo di coinvolgere emotivamente il pubblico e di legare il
proprio marchio alla memoria storica collettiva.
La comunicazione della Barilla nel ventennio fascista si avvale sia degli elementi
tradizionali, ossia mezzi e strategie generalmente in uso nel periodo (calendari,
manifesti...), sia di un elemento altamente innovativo che anticipa una tendenza più
moderna: il lancio della pasta Fosfina.
Analizziamo:
1. La comunicazione tradizionale
2. il lancio di pasta Fosfina
1. L’immagine più veicolata dalla Barilla anche nel ventennio fascista
è quella del solito marchio: il putèn
che versa un gigantesco uovo in una madia colma di farina. Questo marchio viene
usato nei manifesti, negli annunci stampa, nelle cartoline postali. Un mezzo molto
usato da Barilla è il calendario.