- 6 -
il campo percettivo e trovare nuove soluzioni al problema che le affligge,
salvaguardando così la propria autonomia.
Il capitolo 2, intitolato "Nuove tecnologie e counseling mediato", si occupa delle nuove
tecnologie e della loro possibile relazione con il counseling e con la relazione d'aiuto.
Nella prima parte mi sono occupata dei principi della comunicazione mediata da
computer, in quanto cornice teorica e filone di studio della comunicazione mediata non
solo dal computer, ma anche da tutte nuove tecnologie in genere. Successivamente mi
sono occupata della telefonia mobile e in particolare degli sms, mettendo in risalto la
profondità con cui sono riusciti a penetrare nel mondo giovanile e in particolare in
quello adolescenziale. Infine ho affrontato il tema del counseling mediato e quindi dei
limiti e delle potenzialità che le nuove tecnologie offrono alla psicologia.
Il capitolo terzo, intitolato "Gli strumenti di analisi", è un capitolo metodologico in cui
sono trattati i temi della ricerca qualitativa, occupandomi in particolare dell'analisi di
contenuto, della pragmatica, dell'analisi del discorso, dell'analisi della conversazione e
dell'analisi delle conversazioni.
Il quarto ed ultimo capitolo, intitolato "Il caso di @gile, un servizio d'ascolto", presenta
il caso di @gile ed espone la ricerca effettuata sugli sms ricevuti da questo servizio. Il
principale strumento utilizzato è l'analisi del contenuto, effettuato attraverso il software
Atlas, e grazie al quale sono sorti alcuni interrogativi e alcune indicazioni per un
approfondimento attraverso l'analisi delle conversazioni. Nell'ultima parte di questo
capitolo si utilizza proprio questo strumento in maniera inedita, dando prova di tutte le
sue potenzialità come strumento di analisi anche di testi molto diversi da quelli orali per
cui è nata.
- 7 -
Capitolo primo
COUNSELING E RELAZIONE D'AIUTO
1 - IL COUNSELING
1.1 - Quadro storico
L’attività di counseling nasce negli Stati Uniti negli anni ’40 grazie ai contributi di Carl
Rogers, con la sua elaborazione delle tecniche non direttive, e di Rollo May, che ha
composto e pubblicato il primo volume sul counseling (May, 1939, in Di Fabio, 2003,
p. 26). Al suo esordio il counseling ha una connotazione di intervento specifico di aiuto
in ambito sociale e sanitario con caratteristiche diverse però sia dalla psicoterapia, sia
dal lavoro sociale. Il counseling nasce in seguito al passaggio da un’ottica centrata sulla
malattia ad un’ottica centrata sulla salute; questo cambiamento ha portato ad una
maggiore sensibilità alla qualità della vita ed alla concezione di una prevenzione non
più basata sull’evitamento del disagio, ma sulla promozione del benessere fisico e
psicologico della persona.
Verso la fine degli anni ’50 il counseling arriva in Europa e conosce un rapido sviluppo
soprattutto in Gran Bretagna. Qui il counseling trova terreno fertile in ambulatori,
consultori e centri giovanili, dove viene impiegato soprattutto per prevenire o
modificare comportamenti considerati a rischio, come fumo, droga, alcool, disturbi
dell’alimentazione. Poco alla volta si estende anche a diversi problemi esistenziali
relativi per esempio alla scuola, al lavoro, alla vita di coppia.
Negli anni ’60 il counseling acquista un carattere improntato più marcatamente alla
prevenzione medico-terapeutica basandosi soprattutto sull’educazione demografica. La
direzione è quella dello sviluppo personale, dell’autoconsapevolezza e
autorealizzazione.
A partire dagli anni ’70 l’attenzione si sposta sulla realtà giovanile in seguito alla
necessità sempre più forte di intervenire in questo ambito, soprattutto a sostegno delle
situazioni di emarginazione. In questo periodo inizia a prevalere un orientamento di
- 8 -
intervento finalizzato ad aumentare la sincronia tra la persona e il suo ambiente,
cercando di prendere in considerazione l’individuo nel suo contesto sociale.
Attualmente il counseling si sta sviluppando anche in Italia, dove prevale una politica di
individuazione delle situazioni a rischio e di prevenzione del disagio.
1.2 - Per una definizione di counseling
Secondo la British Association for Counselling (BAC, 1992, in Fuligni, 2002, p. 20) «il
counseling è un uso della relazione abile e strutturato che sviluppi
l’autoconsapevolezza, l’accettazione delle emozioni, la crescita e le risorse personali.
L’obiettivo principale è vivere in modo pieno e soddisfacente. Il counseling può essere
mirato alla definizione e soluzione di problemi specifici, alla presa di decisioni, ad
affrontare i momenti di crisi, a confrontarsi con i propri sentimenti e i propri conflitti
interiori o a migliorare le relazioni con gli altri».
Il counseling psicologico è un intervento atto ad operare più sulla salute che sulla
patologia ed è guidato da un’ottica più propositiva che di rimedio ad un danno
conclamato. Si va alla ricerca di ciò che funziona, delle risorse, non delle lacune e dei
punti deboli. Non si tenta di risalire alla cause dei problemi, ma ci si concentra sull’hic
et nunc alla scopo di mobilitare, riorganizzare e potenziare le risorse del cliente e di
favorirne un funzionamento adattivo; in questo modo diventa possibile fronteggiare e
superare delle situazioni di crisi (evolutive o accidentali) rispettando i valori e la
capacità di autodeterminazione della persona. Il counseling, quindi, è rivolto a persone
in difficoltà, ma che altrimenti sarebbero ben integrate ed adattate.
L’ambito del counseling psicologico è quello della psicologia clinica, così come è intesa
da Carli (1993): secondo questo autore infatti lo psicologo clinico è caratterizzato da
una specifica competenza nell’ambito della relazione sociale e dal fatto che utilizza la
relazione come “strumento” per esplicitare tale competenza. Il counselor ad esempio è
un esperto nelle relazioni umane, in particolare nella capacità di stabilire delle relazioni
personali basate su una collaborazione reciproca. Appare chiaro quindi come secondo
Carli non vi sia una corrispondenza tra psicologia clinica e psicoterapia o psichiatria.
Queste ultime fanno sicuramente parte della psicologia clinica, ma non tutta la
psicologia clinica è riconducibile a loro. Un esempio è appunto il counseling
psicologico.
- 9 -
Nell’ambito della definizione di counseling, è utile definire cosa il counseling non è:
▪ Consulenza. Il consulente è una figura professionale che attraverso le proprie
conoscenze dà consigli o esprime un proprio parere di competenza su un quesito
di ordine tecnico, mentre il counselor non suggerisce soluzioni né dà giudizi;
▪ Psicoterapia. Il counseling si differenzia dalla psicoterapia perché si occupa di
situazioni di crisi psicosociale di gruppi o soggetti non affetti da psicopatologia.
L’intervento infatti si rivolge ad individui abbastanza sani da non avere bisogno
di una psicoterapia, ma abbastanza problematici da aver bisogno di aiuto.
Particolare attenzione va posta sul fatto che il counseling non è una terapia in forma
ridotta, in quanto è caratterizzato da obiettivi e metodi diversi. Il counseling infatti non
mira ad una ristrutturazione della personalità come la psicoterapia, ma opera ad un
livello più superficiale. Il suo obiettivo è quello di aiutare il cliente nella risoluzione di
problemi concreti, sviluppando la sua capacità di coping (cioè la sua capacità di
affrontare la realtà con un comportamento adattivo), attraverso un intervento che si
conclude in tempi brevi. Il counselor non è lì per risolvere i problemi del cliente, ma
per accompagnarlo nel processo di risoluzione: il counseling è un'impresa
congiunta.
Counseling deriva da consulo, considerato nel suo valore di avere cura, di venire in
aiuto. Spesso in Italia viene erroneamente tradotto con il termine consulente, che
rimanda però alla dimensione del consigliare, mentre il counseling non ha nulla a che
vedere con questa attività. Alla base del counseling infatti c’è l’intuizione rogersiana
che il modo migliore per aiutare una persona in difficoltà non è dirgli cosa fare, ma
aiutarla a comprendere la situazione e a gestire il problema assumendo su di sé l’intera
responsabilità di eventuali scelte (Folgheraiter, 1987): il ruolo del counselor è allora
aiutare l'altro ad avere una visione più completa del problema e a trovare in prima
persona la soluzione. Di conseguenza le parole counseling e counselor non possono
essere tradotte perché entrerebbero in conflitto con altri ruoli professionali. Il counselor
è colui che attraverso le proprie conoscenze e competenze è in grado di favorire la
soluzione ad un quesito che crea disagio esistenziale e/o relazionale ad un individuo o
un gruppo di individui. E spesso questo risultato si raggiunge semplicemente offrendo al
cliente - perché di cliente si tratta e non di paziente - la possibilità di parlare
liberamente.
Le possibili forme di counseling individuate da Russel (1992, in Di Fabio, 2003) sono:
- 10 -
▪ Befriending – forma di counseling caratterizzata da un atteggiamento di simpatia
e disponibilità che si inquadra nell’aiuto amichevole supportato da una specifica
competenza e consapevolezza comunicativa;
▪ Advice – offerta di informazioni appropriate e accurate e di suggerimenti su
come utilizzare queste informazioni;
▪ Guidance – costituzione di una relazione di fiducia che contempla il passaggio al
cliente di informazioni inerenti al suo problema o di eventuali modalità per
reperirle. Questa è un’attività finalizzata all’aumento di consapevolezza della
persona.
1.3 - La non direttività
Esistono più modelli di counseling, da quelli meno direttivi a quelli più direttivi e
strutturanti. Secondo Rogers la modalità di intervento del counselor deriva direttamente
da quella che è la sua concezione della natura della persona umana (Giordani, 1977):
▪ Sfiducia nella persona umana. L’intervento si configura come autoritario e
direttivo, in cui il counselor è la figura dominante, presentandosi come
competente e protettivo. Si ha una visione pessimistica della persona, non si
prendono in considerazione le sue risorse e per questo si mettono in atto forme
di intervento come il consiglio, l’imposizione, la spiegazione e l’interpretazione,
le quali relegano il cliente in un ruolo passivo in cui non è artefice ma spettatore
dei cambiamenti nella sua vita.
▪ Fiducia nella persona umana. L’intervento non è direttivo, vengono chiamate in
causa le risorse personali del cliente, cercando di risvegliare la sua capacità di
adattamento. Si rispetta la sua libertà, si valorizza la sua autonomia; l’incontro
diventa una fonte di promozione della crescita personale, fornendo un aiuto per
vivere più pienamente.
- 11 -
I modelli più usati sono quelli non direttivi di tipo rogersiano. I counselor che adottano
tali modelli non guidano gli utenti, ma li aiutano a comprendere meglio i loro problemi
e quindi a prendere delle decisioni più adeguate per superare le loro difficoltà. Le basi
su cui nasce il counseling non-direttivo sono tre peculiari conquiste di Rogers
(Folgheraiter, 2002), cioè:
1. Spostamento dell’attenzione dal ruolo dell’operatore-esperto a quello del cliente,
della persona portatrice del problema. La stessa relazione d’aiuto esce dall’ottica
di rimozione degli ostacoli e diventa uno strumento di libertà che rende possibile
il dispiegarsi delle energie e delle potenzialità della persona;
2. Spostamento dell’enfasi dalle abilità tecniche del counselor alle cosiddette
qualità umane, le quali diventano la base indispensabile per ogni intervento di
aiuto;
3. Spostamento dell’attenzione verso il processo di aiuto in quanto tale, inteso
come oggetto epistemologico di per sé.
Particolare attenzione va posta al fatto che la non direttività non coincide con il lasciar
fare perché quest’ultimo è ispirato ad una tolleranza simile al disprezzo, mentre la non
direttività è ispirata ad un atteggiamento incondizionatamente positivo e fiducioso nei
confronti della persona umana: la non direttività è infatti una modalità di intervento
volta all’autonomizzazione ed alla responsabilizzazione del soggetto attraverso un
aumento della sua consapevolezza, quindi al raggiungimento di un livello superiore di
maturità (Kinget, 1970).
- 12 -
2 - LA RELAZIONE D’AIUTO
2.1 - Per una definizione di relazione d’aiuto
La relazione d’aiuto è una relazione specifica nella quale una persona è seguita affinché
possa raggiungere un adattamento personale ad una situazione a cui non si adatterebbe
senza sostegno o senza l’apporto di un terzo (Salomè, 1996). In pratica consiste nel
facilitare nel soggetto il processo di decisione responsabile attraverso risposte di
comprensione-facilitazione da parte del counselor, nel pieno rispetto dei sentimenti, del
vissuto, dei tempi e delle decisioni della persona. Appare chiaro quindi che traduce in
atto la caratteristica essenziale del counseling.
In una relazione d’aiuto il saper essere dell’helper (vale a dire colui che fornisce aiuto) è
l’elemento fondante dell’intervento ed è prioritario rispetto al saper fare. Rogers stesso
(in Kinget, 1970) sottolinea che ciò che conta veramente in una relazione d’aiuto, più
che essere l’assenza di direttività, è la presenza nell’helper di certi atteggiamenti verso il
l’helpee (cioè il cliente, colui che chiede e riceve aiuto) ed una certa concezione delle
relazioni umane. L’essenza non è quindi un modo di agire, ma un modo di essere. Nel
processo di aiuto (specie in quello rogersiano), l’uso del sé è un fattore fondamentale e
deve essere il focus principale di un’adeguata formazione.
La relazione d’aiuto è innanzitutto una relazione. Questo significa che è necessario
uscire da un’ottica di coincidenza del cliente con il suo bisogno: in una relazione si
conosce l’altro come una persona e questo apre le porte ad uno scambio fecondo. È
importante tener presente che «l’individuo deve essere trattato come un soggetto e non
un oggetto; che le relazioni umane sono relazioni da soggetto a soggetto, più che da
soggetto a oggetto; che ognuno è un tu, e non esso» (Rogers, in Giordani, 1977, p. 26).
La costruzione della relazione d’aiuto dipende dall’abilità dell’helper di creare un ponte
con chi sta vivendo il disagio ma che non è in grado di affrontarlo da solo.
Helper ed helpee sono due persone aventi pari dignità e che collaborano alla soluzione
di un problema. La differenza tra i due è che il cliente è portatore di un disagio, mentre
il counselor, per sua competenza e ruolo, possiede gli strumenti per costruire un
progetto di lavoro comune.
- 13 -
Il processo di cambiamento richiede il contributo attivo e partecipativo di entrambi: il
lavoro del counselor infatti non è “sulla” persona, ma “con” la persona. E’ anche per
questo motivo che preferisco parlare di cliente piuttosto che di utente: la parola
“cliente” sottolinea il ruolo attivo svolto dall’helpee, in maniera tale da dare importanza
alla sua autonomia e la sua libertà di iniziativa di cui l’individuo deve godere all’interno
di un intervento di counseling. Anche se si chiede aiuto non si abbandona mai la
responsabilità della soluzione delle proprie difficoltà (Folgheraiter, 1987; Giordani,
1977; Schein, 1992).
Per individuare la specificità, il propium di una relazione d’aiuto, è necessario stare
attenti a non confonderla con una relazione di altro genere: una relazione, anche se
intensa, non necessariamente è una relazione d’aiuto; allo stesso modo, non tutti gli aiuti
vengono prestati all’interno di una relazione d’aiuto. Infatti tutti quanti nella vita
quotidiana sperimentiamo diverse forme d’aiuto tipiche come dare consigli o
informazioni, offrire qualcosa (oggetti materiali), fare delle azioni dirette, insegnare.
Tutte queste attività sono accomunate dal fatto che l’aiuto viene considerato come un
prodotto finito che dipende completamente dalla competenza di chi aiuta. Se
nell’ambito di una relazione d’aiuto si utilizzassero queste modalità, si porrebbe
l’helpee in una posizione di fruizione passiva e dipendente e, quindi, in un ruolo di
utente più che di cliente.
In una relazione d’aiuto l’helper deve resistere alla tentazione della direttività e fare in
modo che le soluzioni nascano dalla persona che ha bisogno di aiuto per potersi
integrare armoniosamente con i suoi valori e schemi di riferimento.
L’autodeterminazione è infatti un principio di base della relazione d’aiuto, anche se non
sempre è facile da realizzare. L’helper quindi deve essere centrato sulla persona, non sul
problema; il suo aiuto non viene esercitato sul problema in sé, ma su qualcosa di più
elusivo, cioè sulle sue competenze della persona, al fine di farla crescere riattivando le
sue risorse interne, senza aggiungere nulla dall’esterno. «La crescita vera e propria
avviene quando il soggetto sperimenta di avere aumentato il controllo o, si potrebbe
dire, la percezione dello stesso sulla propria vita, le proprie scelte e decisioni» (Batini,
2001, p. 24).
- 14 -
2.2 - Aiutare ad aiutarsi
Schein (1992) individua tre diversi modelli di intervento di aiuto:
▪ Modello dell’esperto: il cliente si rivolge ad un esperto per acquisire
informazioni o competenze. Il cliente deve essere in grado di identificare
correttamente il problema e di comunicarlo all’helper, il cui compito quindi è
essenzialmente quello di arrivare alla soluzione;
▪ Modello medico-paziente: a differenza del modello precedente, l’helper ha il
compito di individuare il problema, di capire dove sta. In entrambi i casi il
cliente dipende dal counselor, il quale assume su di sé tutta la responsabilità
della soluzione del problema;
▪ Consulenza di processo: il cuore di questo modello sta in come il counselor
imposta la relazione col cliente, non ciò che il cliente fa. La premessa centrale
della consulenza di processo è che l’helpee possiede il problema non soltanto
all’inizio, ma per tutta la durata del processo di aiuto. Il consulente non si
appropria mai del problema, e questo deve essere chiaro fin dall’inizio, dato che
il cliente ha la tendenza alla delega, a “passare la patata bollente”. La consulenza
di processo è un insieme di «attività fornite dal consulente che hanno lo scopo
di aiutare il cliente a percepire, capire e agire sugli eventi che si verificano nel
suo ambiente» (Schein, 1992, p. 32).
Come evidenzia anche Simonelli (1993), la domanda di aiuto spesso è caricata delle
stesse aspettative, motivazioni e modalità di rapporto tradizionalmente rivolte al
medico. Nell’immaginario collettivo infatti lo psicologo viene inglobato nelle fantasie e
nelle aspettative istituzionali del rapporto medico-paziente, il quale, essendo meglio
conosciuto, appare più rassicurante.
L’helper deve essere innanzitutto un esperto di relazioni umane (Schein, 1992), e deve
essere in grado di utilizzare la relazione come fonte e oggetto di conoscenza; solo in
questo modo diventa possibile analizzare la domanda che il cliente porta con sé quando
si rivolge ad un servizio di counseling psicologico (Carli, 1993; 1995).
L’obiettivo dell’analisi della domanda è in linea con quello che il counseling si propone,
cioè creare uno spazio per la riflessione come presupposto per una ristrutturazione
cognitiva, nella direzione della risoluzione di un problema e di una crescita personale.
Infatti «il pensiero, ovvero il tollerare, percepire e discernere l’emozione intollerabile
- 15 -
sospendendo la necessità di agirla, rappresenta per l’appunto l’obiettivo metodologico
dell’analisi della domanda» (Morozzo della Rocca, 1993, p. 227).
Nell’ambito della consulenza di processo, Schein individua un interessante paragone tra
una recita teatrale e la relazione d’aiuto, che lui chiama “recita dell’aiuto” (Schein,
1992). In un intervento efficace di counseling, l’helpee sale sul palcoscenico e dichiara
il proprio problema, mentre il consulente di processo (cioè il counselor) svolge il ruolo
di un pubblico attento. Quando il cliente finisce si aspetta che sul palco salga l’helper a
declamare il suo copione. Se così facesse però colluderebbe con lui assumendo le vesti
di esperto o di dottore. Il consulente di processo invece mantiene l’helpee al centro del
palcoscenico: si rifiuta di salire e continua a fare sia da ascoltatore che da suggeritore,
cioè colui il quale sostiene gli sforzi del cliente nelle vesti di attore che risolve il proprio
problema.
Se una persona è capace di parlare liberamente con qualcuno che non cerca di dirgli che
cosa dovrebbe o non dovrebbe fare, la persona può diventare capace di scorgere nella
situazione elementi che prima non era in grado di percepire, e con essi di ristrutturare il
suo modo di vedere le cose. In questo modo è possibile trovare nuove vie d’uscita e la
capacità di intraprenderle.
2.3 - Competenze d’aiuto
La relazione d’aiuto richiede una buona capacità, paziente e rispettosa, interessata e
genuina, comprendente e comprensiva, di ascolto.
Ascoltare significa essere capaci di recepire e raccogliere ciò che l’altro vuole dirci, di
riprenderlo e riassumerlo, ottenendo la sua approvazione. L’ascolto non si situa a livello
uditivo, ma soprattutto a livello di significato. Entrare in relazione con i significati
dell’altro richiede una forma di ascolto pieno, complesso e attivo. Non si fa attenzione
solamente al significato intellettuale (cioè al contenuto), ma anche ai sentimenti provati
nella situazione. Una buona capacità di ascolto autentico implica la capacità di saper
osservare e di fuggire dalla tentazione di pre-comprensione (Batini, 2001); soltanto in
questo modo è possibile percepire veramente i significati dell’helpee. Il rischio che si
corre è quello dell’illusione della comprensione: si crede di capire mentre invece non si
fa altro che interpretare e proiettare le proprie paure, i propri desideri e i propri
significati sulla situazione e sulle parole altrui.
- 16 -
Rogers definisce quelli che secondo lui sono i tre atteggiamenti personali necessari e
sufficienti perché i processi interpersonali portino all’aiuto efficace:
▪ Genuinità o congruenza. La genuinità è la capacità dell’helper di mettersi in una
condizione di apertura e di ascolto di sé (prima ancora che degli altri) e di essere
sempre se stesso, in collegamento con i propri sentimenti e con ciò che si svolge
dentro di lui nel corso dell’interazione, senza sentire il bisogno di negarlo o
distorcerlo. La genuinità implica congruenza tra i diversi livelli psicologici;
questo significa che non si può agire dietro una facciata (come per esempio può
essere quella del ruolo professionale): bisogna agire in modo congruente con se
stessi, con ciò che si è, che si sente e con ciò che si pensa, pena il rischio di
trasmettere all’helper una sensazione di falsità, e di assicurarsi quindi
l’inefficacia della relazione d’aiuto. La genuinità è l’elemento base, le
fondamenta su cui si instaurano poi le altre competenze per poter riuscire ad
aiutare veramente qualcuno.
▪ Accettazione incondizionata o considerazione positiva incondizionata. Questa è
la capacità di accettare o di mantenere una positiva considerazione per l’helpee
indipendentemente da ciò che fa, pensa o dice, ma soltanto per la sua
motivazione a cambiare. E’ necessario avere un «profondo e sincero interesse
per lui come persona con potenzialità umane, un interesse non contaminato da
un giudizio sulle idee, sui sentimenti o sul comportamento del paziente»
(Rogers, 1970, in Folgheraiter, 1989, p. 23). L’accettazione è finalizzata a
facilitare la comunicazione spontanea del cliente allontanando ogni
atteggiamento interpretativo e quello valutativo, ed è giustificata dal fatto che il
processo di aiuto è un’opportunità offerta all’helpee per prendere coscienza della
propria condizione e per dargli così modo di cambiare.
▪ Comprensione empatica. Riguarda la capacità dell’helper di cogliere
accuratamente la situazione personale del cliente. Rogers definisce così la
comprensione empatica: «sentire il mondo personale dell’altro come se fosse il
nostro senza mai perdere la qualità del come se» (Rogers, 1942, in Di Fabio,
1999, p. 131). Questo significa sentire un sentimento come se fosse nostro senza
però aggiungere il nostro stesso sentimento. Questo ci permette di vedere il
mondo dell’altra persona dal suo punto di vista, non filtrato quindi dal nostro
- 17 -
personale modo di vedere; se così non fosse si potrebbe analizzare e valutare
un’esperienza, ma non comprenderla.
Carkhuff (1987) riconosce il valore di questi atteggiamenti, ma a differenza di Rogers,
pur ritenendoli essenziali allo sviluppo di una relazione d’aiuto efficace, non li
considera sufficienti. Egli infatti è a favore di un action oriented approach, cioè un
approccio proattivo di counseling il quale, pur essendo basato su un atteggiamento
primario non direttivo, si proietta in avanti verso l’azione. Secondo Carkhuff è
importante che il counselor sappia non soltanto rispondere all’altro, ma anche prendere
l’iniziativa per guidare il cliente all’esplorazione del proprio problema. Nel processo di
aiuto quindi ciò che deve essere messo in gioco non sono più solamente le attitudini
generali del counselor (come diceva Rogers), ma anche specifiche abilità (skills). Con
questo Carkhuff non intende schierarsi contro le tecniche non direttive, bensì proporre il
proprio approccio come il superamento della dicotomia direttivo/non direttivo.
Nella sua impostazione Carkhuff ha “aggiunto” altri due elementi necessari per
l’efficacia dell’aiuto:
▪ Confronto. Permette all’helper di evidenziare discrepanze e incongruenze nel
racconto dell’helpee e nel suo comportamento. L’obiettivo del confronto è
quello di aiutare il cliente ad abbattere delicatamente le barriere interne che si
oppongono alla sua maturazione. In particolare Egan (1975, in Folgheraiter,
1989, p. 26) evidenzia i principali comportamenti che possono essere smossi con
il confronto:
1- Discrepanze o incongruenze sistematiche «tra ciò che uno pensa e ciò che
sente, tra ciò che sente e ciò che dice, tra ciò che dice e ciò che fa» (ibidem).
L’helper così facendo rende evidenti le incoerenze tra i vari livelli psicologici
dell’helpee, permettendogli di accrescere la sua comprensione di sé;
2- Distorsioni, vale a dire l’incapacità di prendere atto della realtà così com’è;
3- Giochi e tattiche relazionali impiegate per strumentalizzare la relazione con
l’altro;
4- Evasioni, cioè i tentativi di sfuggire ad una realtà spiacevole tramite
generalizzazioni o astrazioni.
Questa è una tecnica che implica un certo rischio di indurre una chiusura
difensiva, e per questo è importante che il confronto sia messo in atto con
- 18 -
cautela e solamente dopo aver mostrato un’adeguata accettazione e
comprensione empatica.
▪ Immediatezza. È la capacità dell’helper di comunicare al cliente in modo aperto
e diretto le sue impressioni relative a come si sta svolgendo in quel momento la
relazione tra loro. L’helper quindi deve essere in grado di percepire i messaggi
impliciti relativi a come l’helpee vive la relazione di aiuto e riformularli
esplicitamente. In questo modo egli offre un esempio di come è possibile parlare
apertamente delle relazioni in quanto tali e di ciò che si pensa o si percepisce
dell’altro in relazione con sé.
Ciò che interessa maggiormente Carkhuff sono gli aspetti tecnici legati all’efficacia
della relazione d’aiuto; per questo motivo ha elaborato un modello di aiuto molto
articolato che offre una guida alla formazione e all’operatività dei counselor. Si
potrebbe pertanto dire che «Rogers è più un filosofo, mentre Carkhuff è più pragmatico
e più concentrato sui dettagli delle cose» (Folgheraiter, 1989, p. 27).
Carkhuff ha gettato le basi per quello che viene chiamato modello integrato di
counseling (Fuligni e Romito, 2002, p. 27). Tale modello parte dal presupposto che,
indipendentemente dall’orientamento teorico del counselor, sia possibile individuare
elementi comuni che legano le diverse pratiche di aiuto. Lo scopo, per esempio, è per
tutti dare l’opportunità all’helpee di affrontare la propria vita in modo più pieno e
soddisfacente attraverso la ricerca e la mobilitazione di risorse non utilizzate
pienamente. Nel modello integrato l’attenzione è posta sulla capacità dell’helper di
aiutare i clienti ad esplorare i problemi per comprenderli pienamente e fornire loro delle
strategie adeguate a fronteggiare le difficoltà che hanno incontrato e che incontreranno
in futuro.
- 19 -
2.4 - Le risposte dell’helper
Nel rispondere «sono coinvolti due diversi tipi di abilità: discriminare accuratamente le
esperienze degli helpee così come loro le vivono e, con altrettanta accuratezza,
comunicare agli helpee ciò che noi abbiamo “percepito” di loro» (Carkhuff, 1989, p.
93). Per questo motivo la risposta dell’helper è il momento in cui si aiuta la persona a
prendere coscienza dell’impatto emotivo che prova e del problema che lo affligge.
La risposta è un’attività complessa che può essere scomposta in tre possibili
sottodimensioni:
▪ Risposte al contenuto. Si considera soltanto il contenuto soggettivo di ciò che il
paziente verbalizza. Una buona risposta al contenuto è quella che riformula le
espressioni degli helpee; queste sono risposte “riflettenti”, in quanto mostrano
l’empatia dell’helper e riflettono lo stato d’animo della persona senza
aggiungere altro;
▪ Risposte al sentimento. Si verbalizza il nome di un sentimento che si ritiene
essere quello provato dal cliente. Con questo tipo di risposta si mostra di aver
compreso ciò che prova l’helpee e la sua intensità. È necessario prestare
particolare attenzione all’aggettivo da utilizzare, perché se quello scelto non si
rivelasse esatto, si rischierebbe di compromettere il rapporto di fiducia
necessario all’efficacia di una relazione d’aiuto dato che il cliente potrebbe non
sentirsi capito;
▪ Risposte al significato (cioè risposte sia al contenuto che al sentimento). Dato
che il sentimento è sempre un effetto contenuto, si rilevano esplicitamente i
nessi causali tra i due, facendo così entrare il sentimento dentro al contenuto che
è stato espresso; con la risposta al significato è quindi possibile aiutare il cliente
a capire da dove nascono i suoi sentimenti. Questo è il tipo di risposta più
completa e, quindi, la più efficace.
Rispondere facilita l’espressione dell’helpee perché rafforza la sua percezione di essere
profondamente compreso e quindi lo stimola a proseguire l’esplorazione di se stesso.
A fianco di queste risposte facilitatrici esistono però delle risposte che secondo diversi
autori (Potter, 1950, in Ferrucci, 2001; Giordani, 1977; Rogers, Kinget, 1970)
dovrebbero essere evitate in quanto sono indicative del cedimento dell’helper alla