3
È il 1968 quando questi due autori pubblicano le loro opere su Spinoza.
L’intento comune è quello di riaffermare l’estremismo radicale
dell’immanenza contro la stasi dialettica in cui imperversava lo
strutturalismo. Certo va chiarito che soltanto a partire dal terzo centenario
della morte, celebrato nel 1977, si è ufficializzata la cosiddetta renaissance
spinoziana, a cui ha contribuito moltissimo il lavoro interpretativo di
Emilia Giancotti Boscherini
2
.
Ma ritornando alla genesi di questa nuova interpretazione spinoziana, va
detto che già Althusser e Foucault, da punti di vista eterogenei, avevano
denunciato l’incapacità dell’interpretazione strutturalista di rileggere la
storia e anche il marxismo. Per questi autori lo strutturalismo non era che
una dialettica rovesciata, una visione impoverita della mondo, che ha
cercato di analizzare l’intimo legame delle strutture sociali attraverso uno
sterile gioco di rinvii e rispecchiamenti, espediente rivelatosi in seguito del
tutto incapaci di cogliere le reali forze dinamiche dell’essere.
Ma perché Spinoza e soprattutto l’immanenza potevano salvare il pensiero
dalla crisi dello strutturalismo?
La generazione post-rottura del ’68, che comprende autori quali Matheron,
Deleuze, Balibar, Macherey, Moreau, si pone l’obiettivo di rifondare la
critica marxista sul terreno della rivalutazione filosofica e soprattutto
politica dell’immanenza spinoziana. Per questi autori Spinoza rappresenta
lo strumento di dissoluzione del vecchio gioco dialettico che rischiava
ormai di allontanare il marxismo dalla critica materialista contemporanea.
L’immanenza rappresenta non solo il rovesciamento di qualsiasi discorso
metafisico sulla trascendenza, ma soprattutto il piano ontologico su cui la
singolarità materiale dell’essere può esprimersi come molteplicità di
potenze soggettive. L’immanenza è il campo su cui la moltitudine si
2
Si veda E. Balibar, In memoria di Emilia Giancotti, in Spinoza. Il transindividuale, Milano, Ghibli,
2002, pp. 191-192.
4
riappropria della vita, il terreno dove l’analisi marxista, mondata da ogni
astrattezza dialettica, si ridistende sul tessuto ontologico.
Questa nuova generazione di lettori di Spinoza ha posto in evidenza non
solo la forza eversiva dei concetti di conatus e cupiditas, ma soprattutto il
ruolo sovversivo che l’immaginazione acquista nella filosofia spinoziana.
Per questi autori sembra proprio che il materialismo immanentista di
Spinoza si fondi unicamente su di un concetto di immaginazione
antagonista alle concezioni della gnoseologia classica. L’immaginazione
non è più un elemento debole dell’apparato conoscitivo, quello sensibile,
ma il perno della conoscenza adeguata, la forza produttiva da cui
scaturiscono tutte le diverse potenze successive.
La contemporaneità di Spinoza per questa nuova rilettura, in cui si
inseriscono a pieno titolo Deleuze, Negri e Balibar, consiste
principalmente nella sua ontologia positiva, in quel suo sistema filosofico
che costruisce la teoria dell’immanenza come teoria materialista dei corpi
e delle menti nella loro singolarità dinamica. Questo modo di rileggere
Spinoza è intimamente legato alla forza politica che le sue concezioni sul
diritto esprimono come rovesciamento dell’asse Hobbes-Hegel, come
prassi ontologia e politica del progetto collettivo della singolarità.
In definitiva Deleuze, Negri e Balibar si inseriscono in un contesto
filosofico di riscoperta spinoziana, iniziato sul finire degli anni Sessanta,
che ha il suo centro sistematico nella costruzione di un materialismo per
l’avvenire. Un materialismo che assume l’ontologia, l’etica e la politica
come le espressioni molteplici di un univoco dispositivo di produzione
dell’essere nel mondo.
Lo scopo di questa ricerca è non soltanto quello di mostrare le evidenti
differenze che intercorrono tra queste autorevoli riletture, ma soprattutto
come sotto di esse scorra una comune volontà di riaffermare con forza un
pensiero che esprime l’essere in quanto gioia e potenza della molteplicità
5
in contrapposizione alla cultura della morte, presente nella maggior parte
dei poteri istituzionali, da quelli politici e religiosi sino a quelli economici.
Riprendere Spinoza vuol dire, prima di tutto, cogliere la carica eversiva
che il suo pensiero da sempre rappresenta nei confronti della metafisica
tradizionale, che da Platone in poi ha contribuito ad onticizzare il problema
dell’essere.
Chi ha dedicato l’intera sua interpretazione del pensiero spinoziano a
questo tema è, senza dubbio, Deleuze. Egli ha attribuito allo spinozismo lo
statuto di vera e autentica ontologia antigerarchica della potenza.
Si è voluto iniziare la presente ricerca proprio con Deleuze in quanto ci
sembra che è su questo piano dell’immanenza ontologica che non solo ci si
deve avvicinare al pensiero di Spinoza, ma soprattutto è da qui che deve
partire un approccio contemporaneo che vuole trovare in Spinoza un’etica
degli esistenti colti nella loro singolarità orizzontale e non nei loro rapporti
verticali con il potere.
La rilettura deleuziana può essere interpretata come l’emergenza di una
domanda che il presente rivolge al pensiero filosofico contemporaneo, un
interrogativo etico sulla comunità a cui le riletture di Negri e soprattutto di
Balibar hanno cercato di dare una risposta esauriente.
Domandarsi qual è il senso di questa dilagante cultura della sopraffazione,
della paura dell’altro, della lotta per il dominio invece che della reciproca
espressione, vuol dire, dal punto di vista filosofico, ricercare sul piano
ontologico la radice di un pensiero antagonista a quello mortifero della
modernità. Un pensiero che opponga l’etica antigerarchica della potenza
alla morale gerarchica e ordinatrice del potere.
Deleuze è il punto di partenza non solo per rileggere Spinoza nel presente,
ma anche per intraprendere un cammino che ci porti a valutare le cause di
questa moderna politica della guerra. Non c’è frase più adatta a descrivere
la malattia dell’uomo presente di quella che Deleuze, parlandoci attraverso
6
lo spirito di Spinoza, scrive in uno dei suoi libri dedicati al filosofo
olandese: “ Non viviamo, conduciamo solo un simulacro di vita, non
sogniamo che di evitare la morte e tutta la nostra vita è un culto della
morte
3
”.
Si comprende come per Deleuze il mondo dell’immanenza ontologica, che
costituisce l’essenza della politica spinoziana, è l’idea selvaggia di un
pensiero secondo cui il presente deve riscoprire la propria forza anarchica
di egualitarismo. Deve cioè amplificare quella voce dell’essere che ripudia
la gerarchia dell’Uno in favore della costellazione di essenti, la cui libertà
ontologica consiste nell’equivalersi dal punto di vista dell’essere
4
.
Affermare l’Essere uguale non vuol dire certo ridurre gli essenti ad un
nihilismo omologante in cui tutto si equivale, ma significa negare che
l’Uno valga più dell’essere, anzi vuol dire affermare che niente è sopra
l’essere poiché l’essere è differenza non-gerachica. Tutti gli essenti sono le
differenze contenute nell’essere, che quindi è uguale per tutti: la non-
differenza dell’essere equivale ad affermare la molteplicità di differenze
tra gli essenti.
Questa ontologia pura, che Deleuze rintraccia nel pensiero di Spinoza
come potenza antagonista alla metafisica dell’analogia, porta dentro di sé
una carica eversiva che si esprime interamente nel campo politico.
Ed è proprio su questo terreno pratico del pensiero che Negri instaura il
suo rapporto con Spinoza. Il filosofo italiano sembra riprendere il discorso
deleuziano sull’ontologia per riportarlo definitivamente su quel piano
politico che, a suo avviso, rappresenta più di tutti il campo dove Spinoza
manifesta tutta la sua selvaggia anomalia.
L’interpretazione di Negri è importante soprattutto perché ha cercato di far
emergere il legame che il pensiero spinoziano ha intessuto con l’Olanda
3
G. Deleuze, Spinoza. Filosofia pratica, Milano, Guerini e Associati, 1991, p. 38.
4
Su questo tema si consigliano le lezioni su Spinoza tenute da Deleuze tra il 1978 e il 1981, per
informazioni si veda in rete: www.webdeleuze.com.
7
del seicento, un legame che testimonia quanto il presente e la sue moderne
concezioni sulla democrazia debbono alla sua metafisica materialista della
potenza. Questa ha rappresentato il pensiero rivoluzionario che si è
imposto come l’anomalia vincente dell’essere, la dismisura selvaggia che,
invece di ritirarsi a ordinare il mondo dall’alto, ha cercato di costruirlo dal
basso dell’immaginazione e della libertà degli essenti.
Se per Deleuze l’ontologia spinoziana coincide con un anti-morale che si
interessa alle essenze solo nella loro singolarità, in quanto solo
nell’esistenza esse si danno nella loro luce eterna ed assoluta, per Negri,
invece, l’ontologia spinoziana consiste in un anti-giusnaturalismo che
rifiuta qualsiasi concezione assolutistica dei diritti naturali a favore di una
organizzazione processuale dei rapporti associativi.
Insomma, se per Deleuze la metafisica di Spinoza coincide con un’etica
che ha per oggetto la dinamica costituzione delle potenze singolari, per
Negri consiste in una pratica politica, la quale diviene il luogo di
realizzazione dell’esistenza comune. Etica e politica sono le lenti
attraverso cui Deleuze e Negri mettono a fuoco il pensiero spinoziano.
Il loro intento comune è quello di far emergere le ragioni delle sua
attualità, di inquadrare in un’unica visione grandangolare la voce di un
pensatore che ha consegnato all’amore il compito di interrompere il mondo
del potere per instaurare quello della potenza collettiva.
Con l’affascinante, anche se un po’ forzata, lente negriana il rapporto tra
Spinoza e il presente si instaura sul terreno di lotta tra due progetti politici
ancora molto attuali: da una lato l’asse paura-controllo, che si presenta
come l’espressione della modalità con cui il potere si conserva attraverso
l’obbedienza del popolo; dall’altro lato l’asse libertà-potenza, che si
esprime nella realizzazione di una politica in cui l’immaginazione
produttiva della collettività diviene la legittimazione ontologica della
8
Repubblica. Tramite l’interpretazione di Negri il progetto politico è
diventato il cuore selvaggio del discorso metafisico di Spinoza.
Ma il terreno politico su cui cresce e matura il pensiero spinoziano è senza
ombra di dubbio il piano materiale su cui Balibar riprogetterà la metafisica
dell’immanenza come materialismo della transindividualità. Secondo
Balibar, la filosofia di Spinoza coincide con un discorso antropologico che
tenta di spezzare il dominio delle metafisiche dell’io.
Il pensiero spinoziano non parte dall’attività dell’intelletto, dal soggetto,
ma pone il mondo come luogo di incontro di casi singolari. Questi non sono
che gli elementi potenziali che costruiscono la loro individualità come
progetto di emergenza transinividuale.
La forza della rilettura di Balibar sta nel mostrare come la filosofia del
pensatore olandese è una politica della comunicazione, della solidarietà e
della socialità, non in quanto esigenze etiche, ma caratteristiche
ontologiche. L’uomo è il risultato di un processo di individuazione che si
compie per effetto del gioco degli incontri e delle relazioni sociali, un gioco
che costituisce il campo preindividuale dove l’immaginazione e la ragione
producono aumento di potenza.
Con Balibar Spinoza non è più soltanto il filosofo dell’espressione positiva,
il pensatore del progetto materiale ed univoco dell’essere, ma è diventato la
voce inattuale, poiché sempre e comunque attuale, dell’essere come
relazione, come comunicazione sociale. Per il filosofo francese affermare
che l’essenza dell’uomo non è che il suo desiderio attuale di espressione
della propria singolarità, in una parola autoconsevazione, vuol dire fare
della potenza individuale una funzione strutturale del transindividuale
5
,
cioè del processo relazionale dei rapporti sociali.
Insomma, con Balibar Spinoza diviene il campione della collettività, della
moltitudine intesa non come risultato, ma come campo imprescindibile e
5
E. Balibar, Spinoza. Il transindividuale, cit., p. 53.
9
preindividuale della costituzione dell’essere. L’uomo sviluppa il suo
desiderio, cioè la sua essenza, e attualizza la sua potenza solo attraverso la
comunicazione con gli altri. Questi rapporti tra gli individui non sono
fondati da un principio di somiglianza o identità, ma dalla differenza di
potenza
6
. È proprio grazie alla differenza attuale tra le capacità e le potenze
di ognuno che gli uomini sono utili fra loro, in modo da superare attraverso
il rapporto sociale tutti gli ostacoli alla realizzazione della propria utilità.
Ognuno realizza la propria singolare e irriducibile tendenza ontologica solo
attraverso la convergenza plurale delle forze materiali, solo grazie ad una
transindividualità collettiva che non solo è l’unico modo per superare i
limiti esterni che tentano di reprimere la potenza, ma è anche il terreno su
cui la differenza afferma la sua funzione di principio genetico-costitutivo
dell’individualità.
Affermare che l’essenza dell’individuo, il suo grado di potenza singolare, si
esprime solo nel processo collettivo dei rapporti sociali, cioè nella
moltitudine, vuol dire rovesciare il pensiero cartesiano e kantiano. Vuol
dire non partire più dal soggetto e dalla sua coscienza pensante, ma
concepire questi come i risultati, gli effetti di un progetto ontologico
preliminare che attraversa le singolarità, in quanto processo di
composizione dell’essere.
Il mondo non è il risultato di volontà e coscienza, ma coincide con la rete
plurale di circolazione e produzione degli affetti e delle idee. È tramite il
processo dell’immaginazione che gli individui sfruttano il loro differenziale
di energia per produrre individui ancora più potenti, i quali assicurano la
loro autoconservazione, ma soprattutto permettono lo sviluppo della
potenza, cioè aumentano l’essere.
Grazie a questa linea di pensiero, discontinua e metastabile come una
spirale in continua rigenerazione, Spinoza esprime tutta la sua attualità,
6
Ivi, p. 56.
10
tutta la forza che ancora oggi la sua voce continua a sviluppare come
esigenza etica.
Fare del pensiero di Spinoza un vento attuale che soffia tra le sfere
dialettiche del potere, della guerra come processo di sintesi contrattualistica
e capitalistica, vuol dire evidenziare il carattere sociale, materiale,
immanente, differenziale, positivo e selvaggio dell’essere.
Deleuze, Negri e Balibar costituiscono i punti singolari di un percorso
filosofico contemporaneo che vuole e a nostro avviso riesce in pieno ad
affermare la positività dell’essere come pienezza plurale e orizzontale della
differenza. Un essere che attraverso le sue espressioni potenziali, gli
essenti, non si sviluppa per mancanza o per assenza, ma per potenza piena,
attuale, smisurata ed esponenziale. Un essere la cui essenza è un sì
materiale e positivo, l’affermazione espressiva della propria tendenza, e
non la realizzazione delle proprie possibilità attraverso la trascendenza
dalla finitezza.
Naturalmente per questi autori una siffatta riqualificazione materiale
dell’essere doveva passare attraverso la rilettura e la rivalutazione di quel
pensatore che più di tutti ha affermato sulla propria pelle l’immanenza
produttiva dell’essere.
Più nel presente il mondo richiede un impegno internazionalista, più ci
costringe ad avere una visione mondiale dell’etica e della politica che
superi i limiti angusti del nazionalismo, più oggi occorre riaffermare con
forza un pensiero che faccia coincidere l’infinita ed eterna bellezza divina
dell’essere con la beatitudine materiale degli essenti, cioè con l’amore
intellettuale ed orizzontale della moltitudine.
Questo va considerato come il progetto di emergenza potenziale di una
collettività, non intesa come popolo che trasferisce il proprio diritto allo
Stato, ma come il piano politico d’immanenza differenziale.
11
È il nostro presente di guerra e il suo capitalismo imperialista a richiede
un’anomalia critica e positiva del pensiero, una teoria pratica che riaffermi
la storia come movimento di emancipazione plurale dell’essere.
Siamo convinti che la società e la politica moderna chiedono a gran voce di
svilupparsi attraverso la “messa in orbita” del pensiero spinoziano, ma per
farlo occorre approfondire il percorso filosofico dei tre autori che più di
tutti hanno dato fiducia a questo progetto: rileggere Spinoza come se il suo
pensiero sia la rilettura inattuale del nostro presente.
12
CAPITOLO I
DELEUZE E SPINOZA, LA FILOSOFIA
DELL’ESPRESSIONE
1. Rovesciare il platonismo: dall’analogia all’univocità.
Il problema che ha da sempre costituito il cuore pulsante del pensiero
deleuziano è indubbiamente quello della molteplicità. Detto in questi
termini può sembrare un tema affatto inflazionato nella storia della
filosofia, soprattutto se consideriamo che il pensiero filosofico, fin dalle
sue più remote origini, ha posto continuamente e con grande insistenza la
domanda circa il nesso fra l’uno e il molteplice.
In realtà, ciò che Deleuze o, meglio, ciò che il suo filosofare fa compiere al
pensiero contemporaneo lo si può considerare come un movimento di
torsione ontologica del tutto nuovo e singolare, ovvero concepire la
molteplicità non più come mera combinazione di multiplo e uno, ma come
organizzazione propria del molteplice in sé
1
, una positività tale da non
riconoscersi in nessuna unità. Non più un multiplo come predicato del
mondo, come prodotto estrinseco dell’uno da cui tutto procede, ma una
molteplicità strutturale come il vero sostantivo che incarna l’idea
2
, tale da
rendere inutile l’uno non meno del molteplice.
Questa concezione potrebbe costituire da sola il manifesto programmatico
dell’antidialettica, la struttura centrale di una filosofia che nega tanto
l’unità quanto la sottomissione della differenza agli apparati repressivi
1
G.Deleuze, Differenza e ripetizione, Milano, Raffaello Cortina, 1997, pp. 236-237.
2
Ivi, p. 238
13
della rappresentazione, uno strutturalismo ontologico che non può che
avere un solo e sovversivo inizio: il rovesciamento del platonismo.
Se possiamo tranquillamente affermare che la storia della filosofia affonda
le sue radici nel problema del comprendere la molteplicità del reale, e se
consideriamo che le nozioni di univocità e analogia saranno al centro del
dibattito teologico e, quindi, verranno sottoposte a profonda elaborazione
soltanto con la filosofia medievale, è tuttavia con il pensiero di Platone che
si celebrerà per la prima volta e in senso strettamente morale il divorzio
fra realtà ed apparenza, per l’esattezza fra l’idea del bene e la molteplicità
delle copie accidentali.
Il corpo della filosofia nasce così malato di un dualismo ontologico che,
attraverso le tribolazioni della questione nominalista aperta da Guglielmo
d’Ockham
3
e le vicissitudini del cogito cartesiano, raggiungerà, per così
dire, il suo ultimo stadio tumorale con Hegel, il cui pensiero, negando
sistematicamente ciò che muta, e attribuendo arbitrariamente lo statuto di
realtà alla sola identità dell’idea, ufficializzerà definitivamente nella
filosofia moderna l’apologia di ciò che è posto al di sopra della dimensione
mondana.
Ma Platone non si accontenta di trovare l’essenza delle cose, egli vuole la
cosa originaria e autentica o, meglio, quel valore morale assoluto che,
distinto dalla cose false, ci permetta di selezionare le copie buone e di
smascherare i simulacri
4
.
Una siffatta concezione filosofica non poteva che costituire, per il pensiero
deleuziano, il fulcro di una dottrina selettiva, un’ Odissea filosofica
5
la cui
3
Per un approfondimento della questione nominalista nel Medioevo,ma anche dell’importanza che il
tema dell’univocità e dell’analogia ha avuto nella filosofia araba ed ebraica e soprattutto nella scolastica
medievale si consiglia,poiché è stata una fonte di inesauribile ricchezza per la presente ricerca. E.Gilson,
La filosofia nel Medioevo, trad. it. a cura di M. A. del Torre, Scandicci (Firenze), La nuova Italia, 1997.
4
G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., p. 165.
5
G. Deleuze, Platone e i greci in Critica e clinica , Milano, Raffaello Cortina, 1997, pp. 177-178.
14
motivazione principale era quella di distinguere l’essenza delle cose dalle
sue immagini, il modello dal simulacro
6
.
In Differenza e ripetizione, vero e proprio manifesto filosofico del
pensiero poststrutturalista, Deleuze rintraccia il compito essenziale della
sua filosofia nel mostrare come il progetto nietzschiano di un
rovesciamento del platonismo vada inscritto nella rivalutazione
destabilizzante del concetto di simulacro
7
, in modo tale da strapparlo
definitivamente alla determinazione ontologica in cui era stato rinchiuso
in senso negativo da Platone
8
, per conferirgliene, invece, una etico-
eversiva. Questo gli permetterà non solo di mettere in discussione il
concetto stesso di modello e di origine, di sostituire i concetti di identità e
negazione (retaggi del pensiero categoriale)
9
con quelli di differenza e
ripetizione, ma soprattutto di rovesciare definitivamente la morale
platonica dello Stesso nell’anarchia nomade di un mondo che, privato di
somiglianza, vive solo di differenza.
Rovesciare il platonismo
10
vuol dire negare che l’origine sia il senso
ultimo delle cose, il fondamento trascendentale a cui tutto deve riferirsi,
impedire la sottomissione della differenza alle potenze dello Stesso.
Ma per fare di questa eversiva affermazione della differenza l’oggetto
proprio della filosofia dell’avvenire occorre rovesciare anche e soprattutto
Aristotele, ossia quel pensatore greco che, dando inizio al cammino della
metafisica, ha posto quel terreno mortifero su cui il pensiero si affrancherà
una volta per tutte dall’alterità dei simulacri, cioè l’analogia entis.
6
G. Deleuze, Logica del senso, Milano, Feltrinelli , 1975, p.223.
7
Per un approfondimento del rapporto Nietzsche-Deleuze sul tema del simulacro si veda G. Deleuze,
Nietzsche e la filosofia, Torino, Einaudi , 2002.
8
Secondo Deleuze la vera distinzione platonica non è tanto fra l’originale e l’immagine, ma fra due tipi
di immagine, dei quali l’una è copia autentica,l’altra è copia-fantasma, quella falsa senza somiglianza
con l’originale, cioè il simulacro. G. Deleuze, Logica del senso, cit., p. 225; G. Deleuze, Differenza e
ripetizione, cit., pp. 164-167.
9
Il bersaglio di Deleuze è qui,come vedremo in seguito, Aristotele.
10
Per una esauriente trattazione di questo tema si veda,G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., pp. 82-
94; G. Deleuze, Simulacro e filosofia antica in Logica del senso, cit., pp. 223-246.
15
Tuttavia, il problema per Aristotele non è mai stato quello assiologico,
come per Platone, quanto, piuttosto, quello logico di evitare i paradossi del
dualismo identità-differenza o, meglio, di impedire al pensiero di restare
paralizzato nell’opposizione, apparentemente insolubile, fra equivoca
dispersione del reale e univoca uniformità dell’essere. Per evitare questi
diabolici inconvenienti lo Stagirita si serve del mondo della
rappresentazione
11
, ossia di concetti logicamente “addomesticati” che
rappresentano i supremi generi dell’essere, i significati principali a cui la
molteplicità del reale va ricondotta analogicamente.
Si comprende subito come l’obiettivo di Aristotele fosse quello di mettere
ordine, di offrire un’immagine coerente e fondata del mondo, in definitiva
di usare l’analogia come strumento per ricondurre il diverso all’identità
12
.
Questa unità ontologica, infatti, questa identità dell’essere è qualcosa di
primo, un qualcosa rispetto al quale i significati analogici sono significati
secondi, cioè derivati rispetto a quello originario, che svolge quindi una
funzione di sostegno per tutti gli altri.
Cos’è allora questa unità prima e fondamentale?
Possiamo dire che è l’archè, l’essenza analogica, l’origine unica a cui tutti
i modi molteplici, in cui l’essere si dice, si riferiscono: insomma, la
sostanza (ousia), la categoria prima che si esprime nella formula del che
“cos’è?”
Questa domanda, che nella storia della filosofia classica è stata consacrata
come la domanda socratica per eccellenza, chiedendo l’essenza di una
cosa, in realtà si interroga solo sull’identità del diverso, sulla somiglianza
delle cose fra loro, ignorando completamente il problema della differenza.
11
Per una trattazione della logica rappresentazionale della differenza secondo Aristotele si veda G.
Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., p. 46.
12
Aristotele fa riferimento all’unità analogica. Tale unità si ha quando una molteplicità di significati si
riferisce ad un significato primo, Metafisica, V.
16
Definire un ente chiedendosi che “cos’è?” vuol dire ricercare quell’identità
che rende gli enti fra loro compatibili, quell’unità che è sottesa alla
molteplicità delle manifestazioni fenomeniche dell’ente, ciò che permane
identico pur mostrandosi ogni volta diverso.
L’analogia entis è, quindi, nient’altro che un compendio del reale, una
comunanza di riferimento guidata unicamente dalla volontà di raccogliere
il molteplice per fondarlo nell’identità, per salvarlo dal pericolo di una
divergenza incontrollabile. A questa domanda, con cui la metafisica pone
il problema dell’essenza, Deleuze contrappone quella del “chi è?”
13
, in
quanto considera gli enti nel loro divenire-molteplice, nel loro essere
attraversati da forze plurali. L’essenza non sta nell’identità dell’origine,
ma nel senso e nel valore che scaturiscono solo dalla dinamica produttività
del reale. Per questo chiedersi “chi è?” invece del “cos’è?” vuol dire
interrogarsi sull’evento, sulla molteplicità dei punti di vista per cui le cose
appaiono in un determinato modo
14
: in una parola, vuol dire interrogarsi
sulla differenza e non sull’identità.
Partendo da questa identità generica, che include il molteplice come ciò
che non ha alcuno statuto autonomo, Aristotele giunge solo alla differenza
concettuale e non al concetto di differenza in sé
15
, cioè perviene ad una
differenza che è una semplice determinazione dell’identità, un mero
esemplare della sostanza, la cui dignità ontologica è solo derivata e
dipendente da quell’essere primo a cui fa riferimento.
Lontana dalle preoccupazioni platoniche di autenticazione
16
del reale, la
metafisica aristotelica ha cercato di presentarsi come soluzione di
identificazione ai problemi posti tanto dall’univocità parmenidea, quanto
13
Su questo tema si veda anche M. Foucault, Theatrum Philosophicum in Critique,, 282, 1970, pp. 885-
908, trad. it. in G. Deleuze, Differenza e ripetizione, Bologna, Il Mulino, 1971, pp. VII-XIV.
14
G. Deleuze, Nietzsche e la filosofia, cit., pp. 113-115.
15
G. Deleuze, Differenza e ripetizione, cit., p. 41.
16
Ivi, p. 84.