Oikarinen (www.antiserver.it/irc/storia.html )
1
che rende possibile la simultanea visualizzazione di
testi scritti da diversi utenti in un’ unica finestra in rete (software che , con qualche evoluzione, è
tuttora alla base di qualsiasi tipo di chat); seguendo Paccagnella (Paccagnella 2000 21-53 )
2
nella
sua rassegna di teorie si può prendere come fondante il lavoro di Licklieder e
Taylor(1968)(http://gatekeeper.dec.com/pub/DEC/SRC/research-reports/abstracts/src-rr-061.html.)
3
; ma a parte l’ interesse storico di tale saggio, il discorso sulle cosiddette comunità “virtuali” parte
da più recenti interessi della psicologia sociale e in particolare dallo studio degli effetti della cmc
sulla dinamica delle relazioni all’ interno di ambienti lavorativi, in questo contesto era importante
capire come l’ uso del computer potesse modificare le relazioni tra subordinati e superiori e tra
lavoratori dello stesso grado , ma soprattutto come l’ introduzione di sistemi informatici per la
comunicazione intraziendale potesse influire sulla redditività del lavoro. Nell’ indagare su tali
interrogativi si sono compiuti diversi esperimenti in laboratorio ( tra cui è da ricordare quantomeno
per la frequenza con cui è citato, Dubrovsky e al.1991); alcuni studiosi (Kiesler, Mcguire, Sprull
tanto per citarne alcuni) si sono dedicati a questo filone di studi a partire dai primi anni Ottanta fino
ai primi anni del decennio successivo, tali studi hanno preso il nome di “Rudeced social cues” in
quanto i risultati delle ricerche effettuate portavano alla conclusione ( anche se , naturalmente, con
diverse sfumature a seconda dell’ autore) che la cmc provocava un indebolimento della socialità
delle persone che l’ utilizzano, questo in quanto è ritenuta caratteristica intrinseca del medium in
questione la sparizione o la messa in disparte del contesto ( fisico e sociale) e di conseguenza un
generale attenuamento delle norme sociali che regolano contegno e deferenza (per dirla con
Goffman); tutto ciò provoca due conseguenze contrastanti ( Paccagnella 2000 ) maggiore
partecipazione, grazie al livellamento degli status e ad un aumento delle comunicazioni informali e
minore capacità decisionale , per la ridotta capacità della leadership di imporre una linea di
condotta; così l’ approccio RSC conclude con un giudizio sostanzialmente negativo sulle capacità
della cmc di veicolare simboli in grado di far nascere una comunità (quest’ ultima affermazione è da
intendersi dedotta, in quanto gli interrogativi e gli issue di base non riguardavano il modo con cui
qui si intende il concetto di comunità)
4
Al modello RSC rimane il merito di aver iniziato a proporre una visione della cmc non dettata
solamente da uno sguardo tecnologico (S.Tosoni2004 39), ma attenta alle dinamiche sociali che
sfrecciano al di sopra dei bytes e si deve tener presente che diversi risultati scaturiti da questo
modello si sono poi rivelati utili (ovviamente dopo essere stati filtrati) ad altri approcci (uno su tutti
quello del postmodernismo radicale); tuttavia il modello è stato abbandonato non appena il fuoco
dell’attenzione dei ricercatori si è spostato al di fuori dell’azienda e dei laboratori di psicologia
sociale, oltre che per contraddizioni interne che si sono rivelate insanabili (per esempio: come
conciliare la riduzione di indicatori sociali, e quindi un’impersonalità della comunicazione, con la
constatazione di un aumento delle comunicazioni informali?).
Un tentativo di superare queste contraddizioni è stato fatto dal modello SIDE (social identity de-
individuation) in tale modello (i cui rappresentanti principali sono Lea, Spears, Reicher) si continua
con la visione “psicologica” della cmc e cioè si continua a ritenere la larghezza di banda (il potere
di trasmettere informazioni da parte di un medium) come un fattore influente sulla ricchezza di
simboli sociali a disposizione dell’individuo che utilizza tale mezzo; tuttavia si arriva a conclusioni
opposte a quelle del RSC theory: l’individuo è visto come spezzato in due identità, una portatrice
delle istanze idiosincratiche, l’altra degli aspetti sociali (distinzione simile a quella tra io e mè di
Mead) e le rilevanze portate alla luce dai ricercatori indicano una “sconfitta” dell’io individuale; tali
rilevanze sono scaturite da esperimenti con gruppi di controllo in cui si è notato (in conformità
all’ipotesi di partenza) che gruppi di persone poste davanti a questioni sull’agire di gruppo\ agire
individuale si comportano in modo ipersociale oppure asociale se messe, in assenza di compresenza
fisica, davanti ad un computer collegato a una rete a decidere (Spears1990, Spears e Lea 1992),
confermando in tal modo la forza della riproduzione delle norme sociali attraverso la cmc
(l’individuo che adotta un comportamento asociale è ritenuto come rifiutante in blocco uno
“stimolo” che è troppo forte). La critica più forte a questo modello è il non riconoscere un potere di
negoziazione all’ individuo , infatti quando i ricercatori sono usciti dai laboratori e si son messi a
“camminare per strada” hanno dovuto modificare il modello introducendo una certa capacità di
creazione delle norme sociali ai singoli on-line (Postmes, Spears, Lea 2000); tuttavia esso ha
ottenuto risultati interessanti dimostrando che il sociale è qualcosa che l’ individuo porta all’ interno
di se stesso e che egli utilizza anche nel pensare in solitudine. (Paccagnella2000 32) , facendo
rinverdire Durkeim.
Le debolezze riscontrate nei due modelli precedenti sono diventate il punto di partenza per un’ altra
serie di studi che , sempre seguendo Paccagnella, sono state inaugurate da J. Walther (Walther
1992,1996,1997, Walther e Bourgon1992, Walther et al. 1994) ; questa nuova prospettiva parte da
una radicale svolta metodologica, paragonabile a quella effettuata dalla Scuola di Chicago e che è
riassumibile nel famoso “ scendere per strada e guardarsi intorno” : l’ esperimento in laboratorio è
ritenuto inutile e anzi dannoso dal punto di vista euristico nel determinare cosa succede ai rapporti
tra le persone quando quesiti passano attraverso la cmc; tale critica parte dalla considerazione che le
persone scelte per un esperimento sono molto spesso degli sconosciuti che non hanno l’ obbligo
morale di rivedersi dopo aver concluso questa esperienza, e che esiste un logico limite di tempo che
condiziona l’ interazione presa in esame. Paccagnella, seguendo Walther, rileva come invece la cmc
sia caratterizzata da un’ intrinseca lentezza che porta gli attori a dover impiegare più tempo per
costruire la ricchezza di informazioni che caratterizzano l’ esperienza di una relazione face to face,
in questo modo chi si propone di studiare la cmc tramite esperimenti in laboratorio, si preclude la
possibilità di visualizzare il proprio oggetto di studio. Ed è proprio la questione delle informazioni
trasmissibili che è al centro degli interessi di questo approccio (che è stato denominato Social
Information Processing), l’ interazione è vista come un modo per ridurre l’ incertezza tra più
individui così, qualsiasi mezzo si stia utilizzando, si deve tener presente che ci sarà una quantità
minima di informazioni che deve venir trasmessa : in questo senso, la CMC non sarebbe affatto
meno efficace della comunicazione faccia a faccia dal punto di vista dell’ interazione sociale , ma
sarebbe solamente meno efficiente (Paccagnella 2000 35)
Si può già intuire da queste ultime considerazioni che ci si sta movendo in una direzione opposta a
quella del modello RSC, il fatto di non essere in una compresenza fisica e così di poter usufruire
delle informazioni che veicola il linguaggio non verbale, è visto come un ostacolo alla penetrazione
delle istanze sociali all’interno delle relazioni on line, ciò in quanto il processo che porta un
individuo a identificare un altro nella sua esistenza sociale (detto altrimenti, il modo in cui le
informazioni rilevanti per un’identificazione di senso comune entrano nel circuito della
comunicazione) ha a disposizione soltanto un canale di “output” (il testo), ma questo non impedisce
la costruzione simbolica, le difficoltà di identificazione sono ostacoli che gli attori cercano di
superare, riuscendoci, seppur con qualche difficoltà.
Tuttavia, nelle parole dello stesso Walther, il modello non riesce a spiegare “gli specifici processi
comunicativi che prendono vita nelle (…) relazioni on line, dal momento che i ricercatori hanno
focalizzato sugli input mediali, e sugli output relazionali, con l’esclusione generale dei processi
effettivi” (citato in Tosoni 2004 50) dopo aver preso coscienza che esistono pratiche di traduzione
della socialità si tratta di elaborare strumenti che permettano di descrivere queste pratiche; con
questo obbiettivo nasce l’approccio Hyperpersonal, esso si propone di chiarire quali possibilità sono
date all’individuo di esprimere la propria identità attraverso le caratteristiche tecniche del canale,
attraverso il suo essere emittente o ricevente e attraverso i processi di feedback che si vengono a
creare. Per chiarire meglio, nella cmc esistono possibilità di presentazione di sé stessi che sono
inedite nella storia della comunicazione, ad esempio esiste la possibilità di registrare tutte le
interazioni avute con un certo soggetto in modo che è possibile rappresentare un’immagine di
coerenza che altrimenti sarebbe stata impossibile o molto dispendiosa, questa occasione per il self
fa parte dell’essere emittente in una cmc; l’attenzione per le strategie di presentazione
dell’individuo è centrale in questa visione (è da tale caratteristica che il modello prende il nome),
ma questa sensibilità è derivata da un assunto di fondo, e cioè dalla constatazione che nella cmc si
scambiano messaggi con un livello maggiore di intimità e che essi sono più “presentabili” (nel
senso di una maggiore chiarezza e bellezza stilistica) dei messaggi scambiati faccia a faccia, tale
assunto costituisce un’a-piori che ha recentemente portato alcuni commentatori (Terri Kelly 1998) a
criticare il modello ritenuto assumere come universale uno stile di conversazione centrato
sull’autoreferenzialità che è tipicamente americano (Tosoni 2004)
Questo terreno teorico comunque, permette agli studiosi di considerare i comportamenti osservati
come significativi in quanto tali “divengono essi stessi l’ oggetto principale d’ analisi, da
indagarsi con strumenti di tipo microsociologico che vanno a integrare quelli della psicologia
sociale” (S.Tosoni2004 51).
Le ricerche in questo campo sono in continua evoluzione, vi sono ulteriori sviluppi soprattutto
lungo il filone tematico della ricerca d’informazioni (Walther 2002), cioè lungo quella che si
potrebbe definire la linea “riparazionista” (un unico canale comunicativo deve essere sfruttato in
modo creativo per supplire alla mancanza degli altri canali), ma la ragion d’essere di questa
rassegna teorica era l’esporre lungo una sequenza storica come le idee sulla cmc si siano
concentrate su di un incessante paragone tra on-line e off-line tanto che inizialmente lo sguardo
accademico pieno delle teorie sulla ricchezza d’informazioni del linguaggio non verbale ha finito
per chiudersi verso una visione delle interazioni on-line ridotta alla pura emissione d’informazioni
“asettiche”; il mio intento è invece quello di dimostrare che è possibile descrivere le pratiche
d’interazione nelle cmc come se si trattasse di studiare una nuova cultura in cui la rappresentazione
della compresenza fisica è resa attraverso diversi artefatti e pratiche, in modo non dissimile da come
nella RL avvengono fabbricazioni benigne, costruzioni di keyes, inganni (nel senso goffmaniano),
tanto che il paragone tra vita reale e virtuale non troverà più valore scientifico di quello tra sistema
di vita occidentale e orientale, in altre parole perderà il suo valore morale e acquisterà valenza
antropologica critica.
Attraverso tale sguardo goffmaniano, si dovrebbe, inoltre, poter costruire una prospettiva che
permetta di introdurre nello studio della cmc (o almeno in quello della comunicazione sincrona), la
saggezza dei classici della sociologia, saggezza che è stata offuscata ( mai completamente, il mio
non è certo il primo tentativo in questo senso, si veda, e solo a titolo d’esempio, A. Guigoni 2001)
dall’ enfasi tecnologica che è simboleggiata dai discorsi sulla larghezza di banda, sulla mancanza di
presenza sociale ( come definita da Altman e Taylor 1973 in un contesto diverso dalla cmc), o più
di recente sulla ridotta velocità di scambio di informazioni, questo rapporto continuo con l’
interazione in RL è dannoso allo scopo di costruire un’ etnografia che cerchi di svelare simboli,
strategie, rituali ( non si vuol togliere valore a queste teorie nel loro campo di applicazione più
diretto, se non altro perché tale operazione non mi compete) così come sono definiti dagli attori
direttamente coinvolti, e ciò in quanto : “la sostanza della reciproca comprensione è qualcosa di
inesprimibile, indefinibile e incomprensibile” (Bauman 2001); è significativo che nessuna delle
prospettive sopra elencate ha mai negato che esista una reciproca comprensione tra soggetti
coinvolti in una cmc e il fatto che tale comprensione sia stata in grado di creare delle leggi di
comportamento (la nettiquette), degli stili di comunicazione ( come testimonia il fatto che in una
chat esistano canali “moderati” e canali “hard” non soltanto in riferimento alla libertà con cui
vengono espressi i desideri sessuali), un’ organizzazione per la repressione dei devianti (gli irccops,
i moderatori dei newsgroup, e figure equivalenti nei mud , bbs , ecc..) , una gerarchia tra utenti ( vi
sono enormi differenze tra nuovi ed esperti, ma anche tra “ospiti” esperti in un’ altra chat e “nativi”,
e gli esempi potrebbero continuare), processi di socializzazione, ecc porta inevitabilmente degli
stimoli alla curiosità etnografica.
Seguendo queste considerazioni si fa ora pressante la necessità di osservare ciò che studi etnografici
sulla cmc ( come si vedrà la concezione di etnografia qui adottata è larga e non limitata allo studio
del punto di vista del nativo, riconoscendo che l’ immaginazione dell’ etnografo inevitabilmente
colora un dipinto che è realista solo sui manuali, seguendo il metodo dell’ etnografia critica come
definita da Shaun Moores ( S. Moores 1993 in particolare pagg. 11-14)
5
) hanno finora portato alla
luce.
1.2 Il postmodernismo e l’identità
Un esame di tutte le ricerche etnografiche che si sono fatte fino a questo momento nel campo della
cmc è un compito arduo e che esula dagli obiettivi di questa tesi, ho preferito concentrarmi sul
filone di ricerca che ha raccolto più consensi tra i nuovi studiosi degli spazi virtuali e che ha evitato
fini commerciali, mantenendo sempre l’immaginazione sociologica rivolta verso la scoperta
dell’“alchimia della relazione”, evitando di subordinarla ad un miglioramento d’efficienza di
aziende di varia natura.
Prima di esaminare le teorie postmoderne elaborate nell’ambito specifico della cmc è doveroso
trattare, almeno per sommi capi, la teoria postmodernista nella sua generale visione della società e
della natura umana.
Passando ad esaminare la caratteristiche della posizione postmodernista, si deve innanzi tutto dire
che essa fa nascere i processi che caratterizzano la condizione postmoderna nella fase matura del
capitalismo, attorno agli anni ‘60, in un momento storico in cui molti dei sogni della modernità
“classica” sono crollati miseramente al confronto con la realtà empirica: i due principali figli della
modernità, il socialismo “reale” e il capitalismo (non considero il fascismo non perché, al tempo,
morto come attore politico, ma perché messo in secondo piano come produttore di discorso)
mostravano al mondo molti punti in comune, punti che facevano presagire una nuova guerra
mondiale; il destino di tutte le specie viventi era in mano a pochissime persone (e a codici in
misteriose valigie), alla faccia della carica antiautoritaria che era nella retorica moderna, inoltre la
scienza cominciava a riflettere sulla propria incapacità di rispondere a tutti i problemi,
spudoratamente venendo meno al suo mandato positivista e gettando ombre inquietanti sulla sua
capacità di definire ciò che è reale, l’individualismo radicale si scontrava con i principi morali,
inoltre le nuove (ricche) generazioni occidentali facevano sentire tutta l’insoddisfazione per il
sistema di vita dei loro genitori rigettando gran parte di ciò che essi avevano saputo costruire;
insomma si stava sempre più dissolvendo l’utopia del progresso necessario (in senso filosofico). Ed
è l’incertezza (vista in senso negativo, ma anche come premessa positiva alla costruzione di una
visione alternativa del reale) che caratterizza l’approccio sociale postmodernista, nella sua versione
attuale come scrive Z. Bauman il problema principale per l’individuo postmoderno è la ricerca di un
centro “che unisca”, se non esiste più una religione, se la nazione perde la sua centralità nel definire
le chanche di vita e le regole di comportamento, oltre che essere soggetta ad una crescente autorità
superiore transnazionale (che si caratterizza principalmente in Europa con l’UE, nei paesi “in via di
sviluppo” con le multinazionali, in America latina con gli USA, ma si possono citare anche, seppur
con doverosa e triste cautela organizzazioni come, l’ONU, il tribunale internazionale e da ultimi
l’opinione pubblica mondiale e i mass media), se la scienza non offre più quel supporto “asettico”
ma sicuro che aveva ancora una trentina d’anni fa (cosa che si può intuire dalla scomparsa degli
“esperti” da gran parte delle reclame contemporanee) allora l’individuo è lasciato in balia del suo
progetto di vita che deve saper concepire e portare a termine in tutta solitudine. Questo processo
porta gli esseri umani a divenire vieppiù coscienti della propria condizione esistenziale “l’umano è
scegliere, scegliere è umano” (Z. Bauman, in Featherstone et al. 1995 cap. 8) ma la scelta comporta
l’incapacità di prevedere le conseguenze a causa della fallacia umana, con il rischio sempre
incombente delle dispersione, da qui la ricerca del centro che unisce che porta alla seconda
caratteristica della condizione contemporanea, chi non ha le risorse per godere appieno del potere
emancipatore della modernità non può far altro che rifugiarsi nei nuovi comunitarismi per i quali la
progressiva emancipazione dai condizionamenti della tradizione si configura come una progressiva
perdita e precisamente in una perdita d’identità , come scrive J. P. Sartre l’uomo è condannato a
vivere sempre al di là delle proprie determinazioni, ma questa condanna è precisamente ciò che la
tradizione riusciva ad esorcizzare offrendo determinazioni universali a-priori.
Ulirch Beck riassume brillantemente il dovere dell’individuo (occidentale) contemporaneo: trovare
soluzioni individuali a problemi comuni. Ma tale compito è impossibile. Con l’emancipazione dalla
tradizione ci si può costruire un’identità stabile soltanto avendo la possibilità di rendere tale identità
un fluire di desideri soddisfatti ma non soddisfacenti, offrendo al proprio inconscio surrogati di
certezze che acquistano il loro statuto ontologico soltanto rimanendo sulla superficie, diventando
simulacri, immagini di ciò che si dovrebbe toccare (cosa che il mercato consumistico occidentale ha
compreso, con efficacia tayloristica, prima degli scienziati sociali). Questa condizione è interpretata
dai commentatori del postmodernismo come la morte della modernità, essa ha esaurito la carica
rivoluzionaria distruttrice delle tradizione e ci si avvia verso una riscoperta delle sicurezze antiche,
il bisogno di sicurezza (fisica, cognitiva, spirituale) si fa più pressante del bisogno di libertà; a
livello macro ciò si può vedere nel fiorire di nuovi localismi che riescono ad innestarsi senza
scossoni nel tessuto della società globale, e anzi sono guardati come una sorta di avanguardia (ad
esempio la guerra nel Chapas in cui i guerriglieri zapatisti sono riusciti ad avere una larghissima
visibilità, sfruttando Internet, pur rimanendo legati a rivendicazioni completamente comprensibili
solo a livello locale, nonostante la vocazione internazionalista del loro movimento, come si vede dal
testo della legge COCOPA (http://www.ipsnet.it/chiapas/2001/leycocop.htm) .
In questo senso processi di omogeneizzazione non sono in contraddizione con quelli di
eterogeneizzazione: il globale si nutre del locale e anzi ne diventa una permessa necessaria; è
soltanto attraverso la rielaborazione locale della cultura globale che essa acquista un senso per gli
attori sociali, nella nota visione di Roland Robertson, (in Featherstone et al. 1995 cap2) questo
nuovo modo di guardare ai mutamenti in atto nella società contemporanea prende il nome di
glocalizzazione, egli pur non presentando una visione postmodernista radicale ne fa proprie tutte le
istanze sussumendole in un discorso attento alle due direzioni in cui si è divisa l’analisi sociale negli
anni ’90, ciò che di squisitamente postmoderno si rileva nel suo saggio “ glocalisation: time-space
and homogeneity-eterogeneity” è la rivalutazione delle particolarità locali e la loro “rivincita” sui
processi globali che gli interpeti moderni vogliono irrimediabilmente vincenti (altro discorso è la
valutazione positiva o negativa di tale vincita), citando G.Therborn egli afferma che i cosiddetti
processi di modernizzazione sono avvenuti secondo modalità autonome ( e peculiari) in, almeno, tre
differenti luoghi , oltre all’ Europa, nel Nuovo Mondo attraverso la decimazione dei nativi, nell’
Est Asia come risposta a pressioni esterne, e nella maggior parte dell’ Africa come imposizione
coloniale e imperialista , nel primo è (tragicamente) assente la questione etnica che in Europa ha
dato una caratterizzazione territoriale ai conflitti che hanno portato allo stato attuale, assumendo
invece una dimensione federale con relazioni tra stati non basate sull’ appartenenza etnico-
territoriale; nel secondo il processo di modernizzazione si può far risalire, nelle sue componenti, ad
una selettiva scelta di questioni imposte dall’ alt, continuando nella tradizione del paternalismo del
potere assoluto ( l’ esempio è l’ Egitto di Muhammed Ali); da ultimo in Africa il processo di
modernizzazione ( dove in atto),è avviato dalla conquista a dalla sottomissione, praticamente
ribaltando la storia della modernizzazione europea che si fa comunemente iniziare dalla
Rivoluzione Francese. Modalità tanto diverse di approccio al “moderno” non possono creare una
identica cultura universale nel loro sviluppo, perciò si deve abbandonare la visione della modernità
come univoco processo di emancipazione dalla tradizione e di conseguente sviluppo economico-
industriale, rimane comunque innegabile la crescente tendenza alla interconnessione tra luoghi che
si sta sviluppando dalla rivoluzione industriale in poi, ma tale processo globale ( che viene
denominato <globality>) va distinto chiaramente da un mutamento sociale mondiale tendente alla
omogeneizzazione dei simboli e delle pratiche rituali ( <globalization> ), come sottolinea
Robertson “we schuld be careful not to equote the communicative and interacional connecting of
such cultures whit the notion of homogeneization of all cultures” . Egli sostiene inoltre che la
cosrtuzione delle varie nazioni è un processo intrinsecamente glocale, per quanto le rivendicazioni e
le modalità di attuazione nella edificazione di questa istituzione moderna, nella pratica, siano state
differenti a seconda del luogo e del tempo, essa si inserisce in un mutamento globale della visione
del mondo, ma questo mutamento non si caratterizza per una distruzione generale del senso di
luogo, di casa; tali categorie cognitive sono rivalutate alla luce di queste nuove entità globali che
forniscono l’ idea del mondo come un intero, ma composto dalla connessione tra località, ed in tal
modo lo stesso senso di luogo è rivalutato come concetto costitutivo della globalizzazione e non
come il terreno di battaglia che viene distrutto da una simbologia universale e necessariamente
vincente; il discorso di Robertson si può, forse, meglio comprendere se gli si accosta il concetto si
sistema come teorizzato da Parsons, nel celeberrimo modello AGIL ogni parte era in sè un
organismo che si sarebbe potuto studiare al di là della sua apparteneza al sistema, ma le condizioni
sociali che rendono tale organismo compiuto nella sua interezzza funzionale sono comprensibili
soltanto avendo una visione generale delle esigenze del sistema stesso; così, seguendo le dinamiche
della glocalizzazione , ogni luogo ha aspettti originali che sono analizzabili come formazioni sociali
a sé stanti, ma se si vuole comprendere la storia della loro formazione e insieme a questo, la storia
della formazione del sistema globale, si deve far riferimento alle interconnessioni e alle omogeneità
che inficiano ogni “località”.
Il concetto di glocalizzazione viene qui considerato come postmoderno (e come un aspetto
essenziale del postmodernismo), in quanto i teorici di tale approccio (di cui Robertson è un
esempio, anche se lo si può vedere come un caposcuola) pur utilizzando, per primi, alcuni concetti
diventati propri dei teorici della modernità riflessiva (e quindi dei teorici che, seguendo Giddens,
rifiutano l’idea di una morte della modernità, pur allontanandosi dai sostenitori della
modernizzazione semplice), concetti come quello di rischio, incertezza, di riflessività, di
emancipazione dalla tradizione, si concentrano sul primo asse di quel che Giddens chiama
distanziazione spazio-temporale, non vedendo una linea di continuità tra i fenomeni propri della
modernità classica e quelli della contemporaneità, i meccanismi sistemici che portano a tali
particolarismi. Per chiarire con un esempio. Nella visione di Appiah, il pan africanismo è nato dalla
rielaborazione da parte dei neri d’america di uno stereotipo bianco, e cioè il vedere tutti i neri
d’Africa come formanti un’unica razza, tale visione errata è diventata un’istanza di emancipazione
grazie alla capacità dei neri americani di costruire una “ via di mezzo negoziabile “ tra idee
endogene “tradizionali” e idee occidentali, compiendo ciò che egli chiama una <decolonizzazione
ideologica>, ma tale decolonizzazione è possibile solo sfruttando i concetti “coloniali” che hanno
permesso una qualche forma di identificazione. Oltre che le notoriamente occidentali idee di
nazionalismo, questione etnica e via dicendo, nelle parole dell’autore “ poche cose sono meno
native del nativismo nella sua forma corrente”; tuttavia questo non ha impedito a milioni di
“africans” di creare simboli originali e di elaborare strategie per la loro riproduzione.
Il postmodernismo interpreta simili fenomeni come il segno della decadenza dell’idea di
imperialismo culturale dell’occidente e come la conferma che nel particolare i processi globali sono
sfruttati più che subiti dagli attori; ma oltre alla distanza tra luogo di elaborazione del discorso
identitario a luogo, per così dire, depositario di tale discorso, c’è anche un’innegabile distanza tra
simili rielaborazioni nella società contemporanea e in quella di 50 o 100 anni fa: è soltanto
attraverso l’accresciuta riflessività che è oggi possibile discutere sull’esistenza o meno di una
tendenza all’attenuazione dell’imperialismo culturale occidentale.
1.2.1 L’ identità postmoderna
Che cosa provoca la glocalizzazione nella realtà quotidiana? Se sparisce la fiducia nella comunità,
come si costruisce l’identità dell’individuo postmoderno? Come si concilia la libertà di scelta con il
bisogno di sicurezza?
Dai classici della sociologia, ma anche della psicologia, abbiamo appreso a guardare a ciò che è
chiamata personalità come ad una costruzione che di realmente personale ha ben poco, da Freud a
Durkeim il sociale viene comunemente accettato come il principale referente cui imputare la
differenziazione delle varie personalità osservabili; l’originario flusso della nostra coscienza,
distaccato da qualsiasi dovere\influenza sociale, è nel sogno.
E’ perciò inevitabile che cambiamenti nella struttura sociale macroscopica debbano poter essere
osservati anche nel modo in cui gli individui si presentano, nelle strategie adottate per costruirsi una
faccia conforme ai loro bisogni, oltre che nel modo in cui tali sceneggiati vengono rappresentati.
Fatta questa premessa, si può già qui intuire che (nella visione postmoderna) se la modernità era un
processo unitario volto al progressivo miglioramento delle condizioni d’esistenza dell’umanità,
attraverso il suo prodotto principe -la scienza-, il decadimento di tale fiore all’occhiello e la sfiducia
nelle sorti positive e progressive della civiltà deve comportare uno sconvolgimento enorme nella
costruzione dell’identità, ed anzi è solo dopo tale sconvolgimento che si può vedere l’identità come
una costruzione, anche perché essa non viene più avvolta dal mantello caldo della comunità e, come
i migliori stilisti, l’individuo si deve inventare un vestito per ogni occasione, o decidere dove andare
a prendersene uno.
Viene così caricato di un significato più profondo il concetto di bricolage cognitivo formulato da
Levy-Strauss (C.L.Strauss 1962), l’individuo, immerso nel flusso mediatico e denudato del suo
supporto comunitario, ha come unico mezzo, per mantenere un equilibrio psicologico accettabile,
quello di adattare simboli (ma sarebbe più corretto parlare, a questo punto, di simulacri),
appartenenti a diversi sistemi di significato, alle sue inclinazioni “inconsce”, rendendo queste ultime
un elemento del suo progetto riflessivo
6
; è quest’ultimo concetto il punto d’unione tra le varie
dimensioni dell’identità postmoderna, anche se la riflessività in questo approccio è vista in modo
diverso da come la vedono i teorici che sostengono la continuazione delle conseguenze della
modernità (il riferimento, lo si sarà intuito, è a Antony Giddens, Ulrich Beck, Scott Lash nel loro
libro “ la modernizzazione riflessiva”), essa gioca un ruolo centrale nel determinare la forma che
deve assumere il bricolage. Parlare del concetto di identità nella teoria postmoderna è parlare del
tipo di riflessività che tale visione dell’identità presuppone, in quanto non esisterebbe un’“identità
postmoderna” senza una riflessività postmoderna e inoltre i due concetti, che nella visione classica
sono ben distinti, in questo approccio vengono quasi fusi: si hanno diverse possibilità di
identificazione, ma ciò che ha reso possibile la nascita di tali grandi possibilità di scelta è stata la
presa di coscienza che non esiste più un centro, come teorizza Z.Bauman, che la tradizione deve
venire reinventata, ed ecco allora che la capacità che ogni individuo contemporaneo deve acquisire
e far diventare simile ad un istinto è l’abilità nel valutare le proprie inclinazioni ed i discorsi dei vari
attori sulla “piazza” e quindi saper scegliere la sistemazione più idonea per il proprio bisogno di
identificazione, nella consapevolezza che non esistono più confini solidi, che i limiti (cioè tutto ciò
che pone fine alla ricerca di senso) vengono continuamente spostati e che tale spostamento è vitale
alla sopravvivenza del sistema (nelle doppia accezione di sistema sociale e sistema-identità); si è
riaperto il dubbio verso la capacità umana di governare il proprio ambiente, tornando alla
condizione pre-moderna di paura dell’ignoto, ma stavolta l’ignoto è conseguenza dell’agire umano,
il nulla circonda l’individuo, che però è ora in grado di capire che è esso stesso la causa
dell’esistenza di tale nulla. L’esistenzialismo, con il suo pessimismo per così dire “metodologico”, è
l’a-priori del discorso postmoderno; ed è qui che, a mio avviso, si può rintracciare la differenza tra
le due visioni della riflessività accennate più sopra: il postmodernismo vede la riflessività identitaria
come la fine dell’emancipazione moderna, il punto di arrivo di una liberazione che porta alla luce
una caratteristica a-storica della natura umana e che pone fine ad una ricerca che per due secoli
aveva portato l’uomo a sentirsi parte attiva del disegno del Creatore (nonostante la retorica sulla
morte di Dio), mentre la riflessività à là Giddens è un punto, se non d’inizio, almeno di rinnovo
delle istanze emancipatrici (per fare un’esempio, non essendo qui il luogo per esporre in modo
soddisfacente tale pensiero, l’ecologia è vista come un traguardo importante dell’epoca moderna,
ma che deve necessariamente portare ad altri risultati nel miglioramento delle condizioni di vita
umane, in questo caso l’emancipazione è dalle conseguenze dell’industrialismo e la riflessività è
intesa come continuatrice del progetto di dominio, in senso intellettuale e, poi, fisico della
modernità).
In effetti (sempre seguendo quel che penso possa dire sull’argomento un impossibile
“postmodernista puro”) in tutte le epoche gli uomini si sono battuti contro un sistema comunitario
che li voleva identificare in modo conforme alla sua stessa sopravvivenza, venendo regolarmente
battuti a causa di varie necessità, insite nella condizione umana, che potevano essere soddisfatte
solo all’interno di tale sistema, ma i processi di emancipazione moderni hanno portato alla
distruzione di tutto ciò (distruzione di tipo diverso a seconda del luogo e del tempo) attraverso: la
negazione della necessità fisica, con la creazione di istituzioni come i diritti dei lavoratori, il welfare
state, le assicurazioni, fondi previdenziali di varia natura, ecc.; della necessità “cognitiva”, con la
progressiva pluralizzazione delle fonti di informazione e delle agenzie unanimemente autorizzate a
produrre senso (intendo autorizzate nell’accezione di legittimate da quel che “tutti pensano che tutti
gli altri potrebbero pensare”, non nel senso che tali nuove e numerose fabbriche di senso abbiano
tutte un’incisiva presa sul discorso di senso comune); della necessità “spirituale” con l’istituzione
del laicismo nella politica e nei discorsi dei media, oltre che con la progressiva sostituzione della
trascendenza con la celeberrima “ascesi intra-mondana” del capitalismo. Tuttavia, la mancanza di
costrizioni necessarie alla sopravvivenza porta con sé la mancanza della sicurezza che tali necessità,
in modo paradossale, riuscivano a far entrare nello scontato, nel senso comune non discorsivo
(quello che riguarda nozioni tanto quotidiane da non trovare una definizione discorsiva); ora
l’umanità si sta accorgendo dell’importanza della riscoperta del senso che deriva dalle pratiche che
la modernità ha cacciato dalla scena sociale, ma il ritorno alla tradizione è impossibile, si deve
sfruttare la critica distruttiva che la modernità ha effettuato (in modo tragico) e passare ad una fase
creativa in cui il soggetto liberato si sceglie (o meglio si costruisce) “la prigione” che più gli
aggrada con la consapevolezza che essa è sempre una soluzione non definitiva.
Per ciò l’informazione ha un ruolo tanto importante nella società odierna, essa è vitale in un mondo
in cui il mutamento (delle tecnologie, dei sistemi di produzione, delle istituzioni e quindi anche
delle agenzie fornitrici di senso) si misura in anni e non più in epoche, in cui il processo di
costruzione dell’identità di una larga e assolutamente influente minoranza della popolazione
mondiale avviene direttamente attraverso la conoscenza di simboli che viaggiano nell’etere (e dove
il resto della popolazione è legata indirettamente all’esito di tali elaborazioni); simboli che hanno
ormai perso tutta la loro originalità e che hanno un significato solo presupponendo una cultura
globale che gli conferisce un celato appoggio (nel senso che possono acquisire una visibilità solo
venendo trasformati in un prodotto della cultura di massa e cioè passando attraverso un sistema di
diffusione il quale ha regole di funzionamento peculiari e che, per continuare a riprodursi, deve
necessariamente far sì che tutto ciò che passa attraverso i suoi canali debba sottostare a tali regole)
ma che devono essere, per così dire, completati attraverso un’interpretazione locale, perché
acquistino un senso di realtà “vera” per il soggetto.
In una prospettiva postmoderna, lo studio dei media può quindi essere visto come lo studio delle
modalità secondo cui l’individuo assembla i pezzi del suo personale bricolage identitario e di come
la tradizionale identificazione in un ruolo venga messa in dubbio dalla varietà e qualità delle
identificazioni possibili, attraverso l’uso quotidiano delle tecnologie dell’informazione. Tutto ciò ha
conseguenze, che gli scienziati postmoderni si propongono di indagare, sulla classica visione della
trasmissione del potere e dell’influenza, in quanto fin dall’antichità questa era affidata alla divisione
sociale del lavoro, mentre ora che tale divisione, pur non scomparendo, ha perso molto della sua
proprietà di determinazione della coscienza individuale, si aprono nuovi scenari per la sociologia (in
particolare la sociologia della conoscenza, della famiglia, del lavoro), la psicologia sociale e in
generale tutte le discipline interessate al rapporto tra assunzione di ruolo e potere.
Questi scenari inediti sono visibili in modo folgorante nell’ ambito delle nuove tecnologie, esse,
oltre a fornire un repertorio pressoché sconfinato per la pluralizzazione delle possibilità di
identificazione, offrono anche uno straordinario terreno di prova per le sperimentazioni che il
soggetto postmoderno deve compiere per conoscere le sue inclinazioni, per soddisfare le sue
curiosità, o per seguire l’impulso inconscio che è tanta parte della vita interiore postmoderna; infatti
attraverso un loro uso non ingenuo esiste la possibilità di partecipare attivamente al flusso dei
simboli, carpirne i segreti e imparare a utilizzarli nella vita quotidiana: è la celeberrima interattività.
Secondo la definizione data da Holtz-Bonneau (Bettetini-Colombo, Le nuove tecnologie della
comunicazione, Milano, Bompiani, 1998, pag. 175) l’interattività “è una peculiarità di alcuni tipi di
sistemi informatici che permettono azioni reciproche in modo dialogico con altri utenti o in tempo
reale con apparecchi” si ha quindi la possibilità di comunicare con entità astratte e interagire con
agenti di cui non è possibile definire il posizionamento in società, a differenza di quel che avveniva
con il sistema postale prima dell’ avvento del telefono ( infatti la comunicazione in assenza di
compresenza fisica, non è certo un’ invenzione recente, il sistema postale, le cui origini si fanno
risalire in Europa all’ Impero Romano è un’ esempio
http://www.poste.it/azienda/storia/solotesto/solotesto1.4.html ) come si vedrà più in detteglio con l’
esposizione della teoria della Turkle, questo insieme di possibilità interattive e di assenza di
indicatori sociali, produce una presa di coscienza del soggetto sulle sue strategie di presentazione e
di costruzione dell’ identità; trovando un perfettto banco di prova per le sue sperimentazioni e un
altrettanto importante terreno per arricchire il suo repertorio di simboli, l’ individuo postmoderno ha
con le nuove tecnologie ed in particolare con internet un’ affinità elettiva innegabile, tanto che la
metafora della società fluida è diventata la stessa “rete delle reti” ; in questo mezzo tecnico si può
altresì ritrovare un esempio assai calzante della tesi di Robertson sulla glocalizzazione: è noto che
diverse istanze locali possono trovare spazio in internet, ma il fatto stesso di renderle reperibili in
rete fa si che si possa considerarle come una parte del globale flusso di informazioni, non si deve
dimenticare infatti che ( nella visione postmoderna) il presupposto per l’ esistenza di un bisogno di
visibilità è l’ interiorizzazione di una cultura che da grande valore a tale visibilità e, naturalmente, è
questo il caso della cosiddetta cultura globale.
Seguendo questa metafora alcuni studiosi si sono impegnati nel tradurre lo sguardo postmoderno
nello studio della cmc, essi, come si vedrà, hanno trovato un ambiente favorevole per la loro
impresa, che ha prodotto libri venduti anche tra i non addetti ai lavori come “life on the screen”
(Turkle 1995) o come “virtual community” (Rheingold 1992) (anche se quest’ultimo non si può
annoverare tra i rappresentanti “consapevoli” dell’approccio postmoderno in rete), tenterò ora di
esporre brevemente il pensiero di alcuni di questi studiosi, cercando di seguire un filo interpretativo
che renderà, mi auguro, chiaro il valore dei risultati ottenuti e poi passerò ad un tentativo di critica a
questo che è stato, e forse rimane ancora, il paradigma dominante nello studio etnografico delle
comunità a cmc.